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L'editoriale di TerzaRepubblica

Il nuovo fascismo trumputinista

I FUNERALI DI PAPA FRANCESCO E LE CELEBRAZIONI DEL 25 APRILE DUE OCCASIONI SPRECATE PER DIFENDERE L’UCRAINA (E NOI)

di Enrico Cisnetto - 27 aprile 2025

Un saluto, una stretta di mano, un incontro di pochi minuti. Non è così che si fa una trattativa seria, tanto che si tratti di mettere fine ad un conflitto militare che dura da tre anni quanto di evitare che deflagri una guerra commerciale planetaria che rischia di renderci tutti più poveri. Il gioco di specchi generato dalla solennità delle esequie in mondovisione di Papa Francesco ha dato l’impressione che al cospetto del Pontefice della pace i grandi della Terra, illuminati nello spirito, avrebbero trovato la volontà e la forza per imboccare la strada del dialogo e della pacificazione. Immagine suggestiva, speranza comprensibile, ma non è proprio così che mi pare siano andate le cose. E non per rispetto dell’occasione funebre – tanto che quel che c’è stato, è tutto avvenuto nella basilica o sul sagrato di San Pietro – quanto per mancanza di reale volontà. Come dimostra la scelta di Trump di girare i tacchi a cerimonia terminata e ripartire alla volta degli States perché lo aspettavano una partita di golf e la festa di compleanno della consorte, ma anche, credo, per provare il sadico piacere di vedere i suoi interlocutori restare con un palmo di naso. Certo, un fugace incontro a Zelensky lo ha concesso, con un breve seguito con anche i “volenterosi” Starmer e Macron senza neppure il beneficio del caffè, ma non il bis pomeridiano addirittura già annunciato dal presidente ucraino. Mentre a Ursula von der Leyen si è limitato a promettere un futuro appuntamento per parlare di dazi, bontà sua “prossimamente”.  

“Zelensky is the fall guy in Trump’s peace pantomime”, ha titolato il Times di Londra. Ma il presidente ucraino, unico politico accolto con un applauso dalla folla in piazza San Pietro, non ci sta ad essere il “capro espiatorio” del “trumputinismo”, e lotta coraggiosamente per sottrarsi ad una pace ingiusta. E per questo è comprensibile che abbia voluto definire “davvero produttivo” e in prospettiva “storico” il colloquio in Vaticano con il presidente americano. Ha il dovere di crederci, e soprattutto intende evitare che gli bruci tra le dita il cerino della responsabilità di essere quello che non vuole la pace, cosa di cui Trump lo ha accusato fin dal vergognoso incontro alla Casa Bianca. Ma il realismo dice altro. A partire dalla proposta, indecente, della amministrazione americana, che ha come obiettivo non la fine della guerra della Russia in Ucraina, ma mettere fine all’Ucraina stessa come paese libero e indipendente.  
Elaborato in sette punti dal segretario di Stato Usa, Marco Rubio, e dall’inviato speciale del presidente Trump, l’immobiliarista newyorkese Steve Witkoff, un lestofante che al cospetto di Putin si porta la mano al petto ed è in pieno conflitto d’interesse per via dei rapporti di business con un noto oligarca russo, il piano è stato concertato con il Cremlino, che si è persino concesso il lusso di dirsene moderatamente soddisfatto, non fosse altro per strappare ulteriori concessioni. Esso prevede il riconoscimento de jure della Crimea come territorio russo, cioè ora e per sempre, e il riconoscimento de facto del controllo di Mosca sulle aree attualmente occupate dai soldati russi, grazie al cessate il fuoco lungo l’attuale linea del fronte. Quanto alla sicurezza a lungo termine, che per l’Ucraina è tema paradossalmente più importante rispetto alle amputazioni territoriali, il documento (russo-) americano parla genericamente di “robuste garanzie” che dovrebbero vedere come garanti gli europei ed altri paesi amici, mentre esclude l’ingresso, ora e mai, di Kiev nella Nato. Si aggiunga che la proposta è stata sbattuta sul tavolo come “offerta finale” – è intitolata proprio così! – da “prendere o lasciare”, aggiungendo che gli Stati Uniti di fronte ad un rifiuto abbandonerebbero il tavolo di mediazione.  

Ora, questo atteggiamento brutale nei confronti di Zelensky – che Trump ha ritenuto di compensare con qualche tirata d’orecchi a Putin – ha indotto qualche osservatore, ed io sono tra questi, a pensare che il presidente americano, temendo di non riuscire a chiudere quella faccenda che nella sua propaganda elettorale aveva definito sbrigabile in 24 ore e che invece è un dossier ancora aperto dopo oltre 100 giorni dal suo insediamento, possa essere indotto, da giocatore di poker qual è, a far fallire il negoziato incolpando l’Ucraina, per poi uscire di scena così come fu in Afghanistan. E a dirla tutta, sia la clamorosa retromarcia innescata sui dazi, che impone a Trump di liberarsi il prima possibile dell’ingombrante dossier Ucraina, sia quella uscita un po’ stizzita di ritorno a Washington sull’Air Force One – “Putin non aveva motivo di sparare missili in aree civili e città negli ultimi giorni. Mi fa pensare che forse non vuole fermare la guerra, che mi sta prendendo in giro e che deve essere trattato in modo diverso” – alimentano più il timore che il presidente Usa voglia chiamarsi fuori rispetto alla speranza che abbia finalmente capito da quale parte stare. Perché se è vero che per porre termine a qualsiasi conflitto occorre trovare un punto di mediazione, è altrettanto vero che questa guerra Putin non l’ha vinta (partito per sbrigare la pratica in una settimana, in tre anni ha conquistato solo un quinto del territorio ucraino) e dunque Zelensky non l’ha persa. Mentre la proposta americana, che ovviamente porta il timbro di Trump, parte dall’assunto esattamente opposto. Senza contare che, buon peso, concede a Mosca la revoca delle sanzioni adottate fin dal 2014. 
Ed è per questo che, non fidandosi, Zelensky, d’intesa con gli europei e i volenterosi, ha elaborato una controproposta. Nella quale tiene il punto sulla Crimea, che “appartiene all’Ucraina” e la posizione di Kiev su questo “resta immutata” (ma potrebbe voler dire “tenetevela, ma senza il nostro riconoscimento”, anche perché per rinunciare a una parte del proprio territorio occorre una riforma costituzionale, per la quale servono i due terzi del Parlamento ucraino), mentre sulle garanzie di sicurezza chiede che non ci sia alcuna restrizione al dispiegamento di forze militari occidentali e l’estensione al territorio ucraino dell’applicabilità dell’articolo 5 del Patto Atlantico, che prevede l’intervento di tutti i membri Nato nel caso in cui uno di essi fosse attaccato. D’altra parte, qui si tratta di non creare un precedente legittimando l’invasione di un paese sovrano e le conquiste territoriali ottenute con la forza. Ed essendo evidente che a Trump non importa nulla del destino dell’Ucraina, mentre è interessato a ricucire i rapporti con la Russia – sia in chiave anti Cina, sia per dedicarsi a lucrosi affari con Putin (e chi non lo ha fatto, vero Cavalier Berlusconi buonanima?) e sia, infine, per assecondare la sua sconfinata ammirazione per Zar Vlad, dalla cui figura è soggiogato perché vorrebbe essere autocrate quanto lui per evitare tutti i fastidi che le procedure democratiche gli procurano – è bene che Zelensky continui a tenere la guardia alzata. E con lui chi gli vuole essere sinceramente alleato. 

Quanto a Putin, stiamo parlando dell’inaffidabilità fatta persona. Se non bastasse l’aggressione di tre anni fa e la volontà di continuare una guerra che lo ha visto perdente rispetto alle sue aspettative, valgono i comportamenti delle ultime settimane. dapprima ha respinto la richiesta di Zelensky di una pausa di 30 giorni, avendo però la faccia tosta di sostenere di aver rigorosamente rispettato il cessate il fuoco, quando invece ha continuato, anzi intensificato, la sua guerra. Poi si è intestato una falsa tregua di 30 ore, indetta in occasione delle festività pasquali senza il minimo pudore visto che aveva appena perpetrato la strage di Sumy nella domenica delle Palme, che giustamente Bernard-Henri Lévy ha paragonato alla martirizzazione di Sarajevo. Concepita come mossa propagandistica ingannevole verso Trump ma anche nei confronti del defunto Papa Francesco – altro che omaggio postumo al Pontefice della pace! – la tregua non è mai stata rispettata: Zelensky ha denunciato oltre 2mila casi di bombardamenti russi durante la “tregua”, tra cui un violento raid su Kiev e un attacco alla centrale elettrica di Kherson nonostante l’impegno a risparmiare le infrastrutture energetiche. Considerato che Zelensky pretende un “cessate il fuoco incondizionato” come passo propedeutico ad una pace giusta, sembra dunque opportuno prendere con grande prudenza ciò che la Tass riferisce abbia detto Putin a commento degli esiti della diplomazia funeraria in Vaticano: “la Russia è pronta a riprendere i colloqui con Kiev senza alcuna precondizione”. Anche perché lo stesso Putin, pochi minuti prima e ad esequie papali in corso, aveva con grande spocchia annunciato di aver riconquistato il Kursk perché “con la liberazione di tutto il territorio” sarebbe “completamente fallita l’invasione ucraina della regione”, circostanza che Kiev si è subito incaricata di smentire. 
Ma se l’inaffidabilità di Mosca appare evidente a tutti tranne agli stolti e ai “pacifinti” prezzolati dal Cremlino, a Trump è chiara o no? A dubitarne induce, oltre a quanto ho già detto, una decisione trumpiana tanto grave quanto passata inosservata (bravo il Riformista che gli ha dedicato un ampio articolo): è stato chiuso il Counter Foreign Information Manipulation and Interference Hub, ovvero l’unico ufficio dell’amministrazione americana che aveva il compito di intercettare e contrastare le campagne di disinformazione attuate da attori stranieri. Un presidio strategico, non a caso collocato nell’ambito dell’Ufficio per l’anti-terrorismo, per tracciare le manipolazioni operate attraverso le piattaforme digitali dai regimi autoritari. Cioè proprio quella disciplina in cui i russi sono campioni del mondo.  

Insomma, la sorte dell’Ucraina era e resta nelle nostre mani. Di noi europei e di quei paesi occidentali che hanno risposto presente all’appello di UK, Francia e Germania. Può farci affidamento? Se, come credo, il conflitto proseguirà – non fosse altro perché quella russa è ormai esclusivamente un’economia di guerra, e per non andare in default ha bisogno che la struttura bellica continui ad essere alimentata – il sostegno dovrà essere concreto: bellico, politico, finanziario, industriale. Le parole, come quelle rassicuranti spese con Zelensky dalla presidente della Commissione Ue dopo i funerali del Papa, ormai servono a ben poco. Ma soprattutto, dipenderà dal grado di consapevolezza che l’Europa avrà circa i rischi che corre. Basta con l’idea che si tratti di una questione di solidarietà, che tra l’altro induce le opinioni pubbliche continentali a rifluire nel chissenefrega. Ai cittadini europei va spiegato che per Putin l’invasione dell’Ucraina non era e non è fine a se stessa, ma si inscrive nel ben più vasto e ambizioso disegno di ricostruzione dell’impero sovietico e che dunque concedergli la vittoria in questa guerra, per via militare o ancor peggio diplomatica, significa assecondare il suo progetto imperiale, assai pericoloso per gli assetti geografici del Vecchio Continente e per la tutela della democrazia che in esso è consolidata come in nessuna altra parte del mondo. Rischi di bielorussizzazione se non di vera e propria annessione di altri territori, rischi di inquinamento della vita politica dei paesi europei attraverso il sostegno alle forze populiste e nazionaliste che con la loro azione impediscono a parlamenti e governi di fare scelte coraggiose, come quella di investire sui sistemi di difesa e sicurezza prendendo atto del disimpegno americano.  
Per realizzare tutto questo, oggi è indispensabile creare le condizioni per un rapido ingresso di Kiev nell’Unione Europea. Come è emerso nella War Room di mercoledì 23 aprile (qui il link), per farlo bisogna scalare due montagne: l’unanimità dei consensi, che sicuramente l’Ungheria di Orban non concederebbe, e il superamento degli esami di ammissione, reso difficile se non impossibile dalla mancata corrispondenza dell’Ucraina ai criteri per l’adesione previsti dai trattati Ue. Ma qui si tratta di prendere atto dell’eccezionalità della situazione ed esprimere una volontà politica che arrivi fino alla decisione di sbarazzarsi una volta per tutte del diritto di veto. E se per riuscirci occorre che i 26 paesi che sono d’accordo (salvo che altri non si allineino all’Ungheria) costituiscano una “nuova Unione Europea”, lo si faccia. Se non ora, che è in gioco il destino del mondo libero, quando? 

Certo, in questo contesto il comportamento dell’Italia non induce all’ottimismo. Per giorni e giorni, ci siamo baloccati in una sorta di “Giochi senza frontiere” – tra l’altro mancando arbitri all’altezza di Guido Pancaldi e Gennaro Olivieri – dividendoci in due squadre, quella del successo e quella dell’insuccesso di Giorgia Meloni al cospetto di Donald Trump. Come se il tema fosse far dipendere il giudizio sulla presidente del Consiglio e sul governo da cosa avrebbe messo nella sua valigia di ritorno da Washington – ingenuità ancor meno perdonabile ai suoi oppositori che a lei e ai suoi supporter – e non quello di reagire con un moto di amor proprio (e patrio) e tenendo la schiena ben dritta di fronte a chi, dopo averti insolentito dandoti del parassita profittatore, ti invita ad accostarti a lui baciandogli le terga (su questo si veda la War Room di giovedì 24 aprile, qui il link). Poi abbiamo avuto l’occasione delle celebrazioni dell’ottantesimo 25 aprile dalla Liberazione, ma noi l’abbiamo condita con il solito sauté di sterili polemiche sul tasso di antifascismo da esibire, con la destra che balbetta e la sinistra che con supponenza egemonica s’immerge nella retorica, mentre sarebbe ora di capire, come ben ha scritto Luigi Manconi, che il regime mussoliniano è morto e sepolto – per merito delle formazioni partigiane e delle forze alleate anglo-americane – e che quel passato non torna. Invece, ci sono da individuare e combattere dei nuovi fascismi, che con quelli del Novecento hanno in comune l’assoluta incompatibilità con il concetto di libertà e di democrazia compiuta. Per esempio, domandiamoci: se al posto del presidente Roosevelt ci fosse stato Trump, e se Churchill non avesse piegato Chamberlain (e oggi abbondano i novelli sostenitori della politica dell’appeasement nei confronti dei moderni autocrati), Hitler e Mussolini sarebbero stati ugualmente sconfitti? Quella di questo 25 aprile sarebbe stata l’occasione perfetta per una corale difesa della Resistenza ucraina impegnata nella lotta di liberazione contro l’autocrate russo, nuovo modello di fascismo. E invece il nulla, a parte il bellissimo discoro del presidente Mattarella a Genova. Neppure l’addio a Bergoglio ha fatto scattare la scintilla, e non perché a suo tempo sia stato capace nel suo fervore pacifista in salsa peronista di invocare “il coraggio della bandiera bianca”, chiedendo di fatto agli ucraini di arrendersi. Semplicemente perché anelito di libertà è stato inghiottito dal fiume di parole retoriche spese per celebrarlo da chi non dico lo abbia amato, ma neppure ascoltato. Peccato. (e.cisnetto@terzarepubblica.it)

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