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L'editoriale di TerzaRepubblica

Dazi e controdazi

PER TRUMP DAZI SCELTA GEOPOLITICA PIÙ CHE ECONOMICA. I CONTRODAZI EUROPEI DEVONO ANDARE DI PASSO CON IL RIARMO

di Enrico Cisnetto - 05 aprile 2025

Recessione, disoccupazione, inflazione, crollo delle Borse, deprezzamento del dollaro e del petrolio. E ancora: fine dell’era del libero scambio commerciale mondiale, della globalizzazione, del liberalismo americano. Le reazioni allo show di Trump sui dazi andato in onda in mondovisione dalla Casa Bianca – unanimemente negative, con l’eccezione di qualche cretino e dei trumputiniani di complemento – riportano tutte alle conseguenze economico-finanziarie e sociali della scellerata politica protezionistica inaugurata dal presidente americano. Tutto vero, tutto grave, tutto preoccupante. Insomma, una sciagura, che rischia di fare più danni del Covid. Ma affrontabile e gestibile, specie se la risposta europea sarà, per usare le saggie parole del presidente Mattarella, “compatta, serena e determinata”. Anche perché è pensabile, oltre che sperabile, che le ripercussioni di natura autolesionistica che si avranno negli Stati Uniti – specie se il secondo passo sarà un drastico taglio delle tasse, nella convinzione che i dazi saranno in grado di compensare i minori introiti fiscali, finendo così per scassare definitivamente i conti pubblici del più importante paese del mondo – saranno tali o da indurre al ripensamento Trump o, in caso di perseveranza, da aprirgli un baratro in cui finirà per cascare. E in tempi altrettanto veloci di quanto lo siano state le sue folli scelte.  

Personalmente, sono invece gli effetti geopolitici della guerra dei dazi che non mi fanno dormire di notte. Intanto perché la storia ci insegna che i conflitti di natura commerciale fanno sempre da battistrada a sanguinosi conflitti militari. Ma poi, soprattutto, perché le guerre nel mondo ci sono già, e questa dei dazi rischia di essere l’altra faccia della medaglia del modo con cui Trump ha deciso di affrontarle. Per esempio, pochi hanno notato che nella lista dei 60 paesi oggetto delle nuove tariffe doganali imposte dall’amministrazione americana manca la Russia, che ne è dunque esentata, e invece c’è l’Ucraina, che si becca l’aumento minimo del 10% riservato a tutti quelli che Trump considera gli affamatori del popolo americano. A conferma di una scelta di campo fatta da The Donald, il quale persevera nonostante si sia dovuto indispettire per la presa in giro che gli ha riservato Putin con il suo far finta di assecondare i piani di pace (si fa per dire) della Casa Bianca e nello stesso tempo continuando bellamente a bombardare il territorio ucraino come se niente fosse.  
Anche la motivazione, risibile, addotta per giustificare l’esenzione della Russia dalla tagliola tariffaria la dice lunga sulla sudditanza di Trump nei confronti dello zar moscovita, spiegabile in parte con ragioni di natura psicologica (la fascinazione dell’autocrate) ma soprattutto con poco commendevoli ragioni di business (nel passato oligarchi russi amici di Putin intervennero per salvare dal fallimento l’immobiliarista Trump). Infatti, il segretario del Tesoro americano, Scott Bessent, e la portavoce della Casa Bianca, Karoline Leavitt, hanno raccontato che i dazi reciproci non sono stati applicati perché “mancano le relazioni commerciali degli Usa con la Russia” per via delle sanzioni. Peccato che non sia vero. O meglio, è vero che l’interscambio che nel 2021 era di 35 miliardi di dollari si è decimato, scendendo a 3,5 miliardi nel 2024. Ma non si è azzerato. Ed è certamente molto più consistente di quello di piccole entità – dalla Repubblica di Nauru, isola indipendente della Micronesia con 15mila abitanti e circa 20 km quadrati di superficie che esporta in Usa beni per un milione di dollari e ne importa per 240mila, al Regno di Lesotho (enclave sudafricana) e all’Isola La Riunione (Oceano Indiano), che hanno un disavanzo commerciale rispettivamente di 234 e 30 milioni di dollari, cioè peanuts – che pure la tagliola tariffaria americana non ha risparmiato.  

Insomma, siamo di fronte ad una vera e propria mistificazione, come dimostra il fatto che nell’ormai famoso tabellone di Trump – mostrata con l’aria da maestro Manzi che spiega agli incolti (ma quello era un uomo erudito e bonario, tutt’altro che arrogante) – all’Unione Europea viene appioppata un carico tariffario medio del 39% così da poter dire che lui magnanimamente con il 20% ci applica solo la metà. Mentre in realtà è dell’1,4% se, come è corretto fare, si considera non il saldo commerciale ma quello di tutte le partite correnti (dunque, oltre alle merci, i servizi e i flussi finanziari). È quindi chiaro che il presidente americano intende spingersi al di là delle parole fin qui spese, di disprezzo dell’Europa e di simpatia verso la Russia, arrivando a cancellare l’Alleanza Atlantica e le solidarietà che incorporava, e immaginando un nuovo ordine mondiale basato sul vecchio paradigma delle “sfere di influenza” che poggia una pietra tombale sull’idea stessa di Occidente. Perché con i dazi non solo si va a distruggere la relazione economica più importante per l’economia planetaria – quella tra Europa e Stati Uniti, che vale tra beni e servizi 1.600 miliardi all’anno – nelle intenzioni impoverendo noi e arricchendo loro, ma si pongono le basi per un reset degli equilibri planetari, fino al punto da ridisegnare, costi quel che costi, la carta geografica. Perché consentire a Mosca di conquistare con la “pace” ciò che non gli è riuscito in tre anni di guerra, da un lato giustifica le mire Usa sulla Groenlandia – premessa per spartirsi l’Artico con la Russia – ma dall’altro induce Pechino a muovere su Taiwan. E così via. 

Si può fermare questa folle deriva? Sì, a due condizioni. La prima è di ordine concettuale: occorre capire la natura e gli effetti politici di decisioni apparentemente solo economiche, e gestire la reazione in modo conseguente. Non c’è un tema Ucraina e un tema dazi, così come non c’è una risposta “riarmo” disgiunta da quella “controdazi”. Sono due facce della stessa medaglia, e ignorarlo o anche solo sottovalutarlo induce a commettere errori fatali. La seconda condizione è più specifica, e attiene sia alle modalità che alla natura e al dosaggio delle contromisure da prendere se mercoledì 9 aprile i dazi Usa entreranno effettivamente in vigore (con gli stop and go cui ci abituato Trump non si sa mai). Su questo, anche dopo la (per me molto formativa) War Room di giovedì 4 aprile con Buti, Deaglio e Penati (qui il link), sono arrivato alle seguenti conclusioni. Primo: la risposta europea deve essere unitaria, ferma ma al tempo stesso aperta al negoziato, non fosse altro per non fornire alibi. Guai se il fronte si rompe e qualcuno prova a negoziare bilateralmente: forse porterà a casa qualche piccolo vantaggio (anzi, minor svantaggio), ma gli sarà concesso in modo del tutto strumentale e dunque momentaneo, e comunque sarà inferiore al danno che subirà per aver rotto l’unità comunitaria. Secondo: rispondere pan per focaccia con altri dazi, come ha fatto immediatamente la Cina che ai dazi al 34% ha replicato con controdazi di egual misura, finirebbe per accrescere il danno collettivo in termini di contrazione della crescita e di incremento dell’inflazione. Meglio orientarsi ad usare altre leve con una visione di più lungo termine, per esempio quella fiscale e quella di carattere regolatorio sulle Big Tech americane piuttosto che sugli ingentissimi flussi finanziari che dall’Europa vanno ad arricchire gli Stati Uniti. Terzo: ma la vera partita si deve giocare sul terreno del debito pubblico statunitense. A fine 2024 esso ammontava a 36.200 miliardi di dollari, pari al 122% del pil. Di questi, 8,5 trilioni di dollari, cioè oltre il 30% dei titoli del debito federale, sono in mano a soggetti esteri, di cui il 45% è rappresentato da entità governative e banche centrali. Cina e Giappone fanno la parte del leone, ma se si sommano gli investitori in Tresuary bonds di tutti i paesi Ue si arriva a ben 1.600 miliardi di dollari, che diventano 2.700 se si aggiungono i paesi europei non Ue (Svizzera, Norvegia, Regno Unito). Cosa succederebbe se questi capitali smettessero di sostenere il debito Usa? E cosa accadrebbe se allo “sciopero” partecipassero anche i detentori europei di azioni americane, visto che il loro valore ammonta a 9mila miliardi di dollari, cioè più dell’intera capitalizzazione di tutti i mercati in Europa sommati insieme? 
A tutto questo si aggiungono una quarta e una quinta valutazione, le più strategiche. La quarta: la risposta Ue non può e non deve essere solo difensiva. Occorre cogliere l’occasione per aggredire alcune distorsioni del nostro modello di sviluppo, per strutturare ciò che ci manca come il mercato unico dei capitali (indispensabile per dare la risposta di cui al punto tre) e quello dell’energia, per procedere in modo più risoluto e spedito verso l’integrazione politica e istituzionale in senso federale, avendo come punto di arrivo la creazione degli Stati Uniti d’Europa. La quinta: come detto, la risposta ai dazi non può essere disgiunta da quella da dare a Trump sulle questioni del riassetto geopolitico, a cominciare da quella della costruzione di un nuovo sistema di difesa e deterrenza nucleare da realizzare con gli alleati volenterosi, europei e occidentali. Non ripeto qui quanto ho scritto sull’Eurodifesa “con chi ci sta” nella scorsa newsletter (TerzaRepubblica del 29 marzo 2025, qui il link). Ribadisco soltanto che la stessa coesione che si va cercando sul fronte politico-militare – con discreti risultati, grazie a Macron, Starmer e Merz – deve ora essere ricercata per i “controdazi”. E sempre con la medesima logica del “chi ci sta”, perché per le vischiosità imposte dall’unanimismo dell’Ue a 27 non c’è più tempo. 

“Liberation day”, l’ha arrogantemente voluta definire Trump la sua “dichiarazione di guerra commerciale” al mondo. E la sua presunzione non è stata scalfita neppure da due giorni di reazioni apocalittiche, tanto che ha rincarato la dose attaccando in modo frontale e sguaiato il presidente della Federal Reserve, intimandogli di abbassare subito i tassi per non rendersi reo di “fare politica”. Per fortuna la reazione di Jerome Powell, pur elegante e istituzionale, non si è fatta attendere e non ha mancato di essere chiara, sia nel denunciare i rischi del neo-protezionismo americano sia nel respingere al mittente le illazioni affatto disinteressate che lo descrivono deciso a lasciare anzitempo la Fed rispetto alla scadenza del maggio 2026 (“intendo servire per tutto il mio mandato”). Forse effettivamente il 2 aprile è stato un “Liberation day”, ma nel senso che la storia s’incaricherà di definirlo l’inizio del processo di liberazione da Trump. Ma qui, mi autodenuncio, non so dirvi dove finisca la speranza e inizi la realtà. 

P.S. La settimana scorsa avevo promesso che questo sabato avrei dato una risposta più compiuta alla domanda – cui mi ero limitato a dire “spero di sì, temo di no” – se l’Italia risponderà presente quando le verrà chiesto di dare un’adesione formale al nucleo fondate della nuova Eurodifesa. Chiedo scusa, ma la pazziata, anzi daziata, di Trump mi ha costretto a rimandare. Per ora mi limito a segnalare che nel frattempo al Parlamento europeo sulla dirimente questione della politica estera e di sicurezza comune, Forza Italia ha votato a favore, la Lega contro e Fratelli d’Italia si è astenuta. Giusto per non mettere in imbarazzo le opposizioni, che di posizioni diverse ne hanno altrettante se non di più. Siamo ad un tornante assai pericoloso della storia, e fa bene il ministro Crosetto a dirsi “non preoccupato, ma drammaticamente preoccupato”. Ma è l’unico. (e.cisnetto@terzarepubblica.it) 

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