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L'editoriale di TerzaRepubblica

Eurodifesa con chi ci sta

PUTIN PERICOLOSO, TRUMP APOSTATA UE A 27 INGESSATA COSTRUIAMO CON CHI CI STA L’EURODIFESA (ANCHE NUCLEARE) COME PER LA MONETA UNICA

di Enrico Cisnetto - 29 marzo 2025

In queste ore hanno fatto scalpore le frasi sprezzanti, dalla chat Signal fuggite, dei massimi vertici dell’amministrazione americana nei confronti degli europei – “odio doverli salvare”, ha scritto il vicepresidente Vance in un messaggio che è dilettantisticamente finito in mano a un giornalista – quegli stessi che il presidente Trump definisce pubblicamente “parassiti”. Giudizi significativi, perché fanno capire come l’alleanza e la solidarietà euro-atlantica siano venute meno per volontà americana, ma che in realtà conoscevamo già. Sono solo la conferma definitiva che queste parole non sono più derubricabili a “battute da campagna elettorale”, come gli aedi euromediterranei di Trump hanno cercato di raccontare fin qui. Molta meno attenzione – ed è un vero peccato – si è invece guadagnato Evgeny Savostianov, già a capo del Kgb di Mosca che dal 2023 vive all’estero dopo aver aspramente criticato quella che Putin ha chiamato “operazione militare speciale” e che altro non è che il fallito tentativo di invasione lampo dell’Ucraina, poi trasformato dal Cremlino in una lunga guerra che dopo tre sanguinosi anni ha comportato la misera conquista del 18% del territorio ambito. Intervistato da Marco Imarisio per il Corriere della Sera, l’ex uomo dell’intelligence russa ha scandito con competente precisione gli obiettivi, pratici e ideologici, di Putin. Savostianov sostiene che Zar Vlad “vuole assolutamente entrare nella storia come ‘Il Grande raccoglitore delle terre russe’, colui che ha invertito la disgregazione dell’impero avviata nel 1867 con la vendita dell’Alaska agli Usa”, perché “l’inclusione in uno Stato unico di Ucraina e Bielorussia gli consentirebbe di aumentare la sua popolazione fino a circa 188 milioni, con un ampliamento delle risorse di mobilitazione, del mercato interno di consumo e dei quadri lavorativi”. Non solo. Secondo l’ex Kgb, “Putin ha bisogno di un avamposto russo sulla riva destra del Dnepr. Kherson e dintorni, per capirci. Così potrà tenere sotto pressione Odessa, la Transnistria e Chisinau. Queste sono le sue ‘linee rosse’ e per questo non accetterà mai la dislocazione in Ucraina di forze europee di deterrenza”.  

Da ciò se ne deducono due cose. La prima è che “non è possibile la fine della guerra senza un sostanziale cambiamento del rapporto di forze sul fronte a favore della Russia, ancora più marcato di quello attuale”. Un giudizio che combacia con quanto l’ex direttore dell’Economist, Bill Emmott, ha scritto sulla Stampa: “la Russia è ormai un’economia di guerra e per questo Putin non firmerà mai la pace”. Sono totalmente d’accordo. Basta dare un’occhiata alle recenti stime inglesi sulle perdite russe nei tre anni di guerra con Kiev: 900 mila uomini, di cui un quarto uccisi e il resto gravemente feriti, e l’8% del pil annuo usato per le spese militari. Ma, soprattutto, la banca centrale russa ha alzato i tassi d’interesse al 21%, mentre gli istituti di credito si sono svenati per sostenere la difesa e i due settori base dell’economia, l’edilizia e l’agricoltura. Insomma, lo scenario è da bancarotta, evitata solo grazie all’export, petrolio e gas in testa, verso Cina, India e altri paesi “terzi”. Ora Trump sembra intenzionato a commettere l’errore fatale di togliere le sanzioni alla Russia, cosa che darebbe a Putin un po’ di ossigeno (anche se quelle Usa valgono un decimo di quelle Ue, e per fortuna l’Europa sembra volerle mantenere). Sarebbe l’esatto contrario di ciò che c’è bisogno in questo momento: il Cremlino percepisce l’atteggiamento morbido di Trump come la prova della debolezza strategica dell’Occidente, e ne approfitterà forzando la mano. Tanto più se l’Europa e il resto dei paesi “volenterosi”, pur confermando le sanzioni, si dovessero presentare divisi come sono apparsi nell’ultimo vertice di Parigi (complice in particolare l’Italia, ma anche Polonia e Repubblica Ceca).  
E qui siamo al secondo fondamentale avvertimento lanciato da Savostianov: “temo che da parte di voi europei non ci sia alcuna percezione del rischio che state correndo. Siete sotto schiaffo di due potenze come la Russia e questi nuovi Usa, che detestano profondamente le vostre basi di valori. Sono uniti da quello che ritengono essere un nemico comune: voi. Siete circondati, in qualche modo. Ogni piano di rafforzamento della capacità difensiva dell’Europa deve cominciare da una potente campagna di informazione che spieghi ai cittadini la nuova realtà, che smascheri e isoli i complici di quella che non è una rivoluzione culturale in corso, ma un’aggressione mascherata”. Parole sacrosante e, temo, profetiche. I nazionalisti russi sognano un mondo diviso in tre – Usa, Cina e Russia – e così sarà se l’Europa, come dice Savostianov, non si guadagna “lo status di soggetto politico globale in modo da garantire autonomamente la propria sicurezza”.  

Io naturalmente non conosco le ragioni perché un ex capo del Kgb ci gratifichi di questi preziosi avvertimenti. Probabilmente la spiegazione più plausibile è che coltivi rancore verso Putin. Ma credo che, al di là delle intenzioni che lo animano, le sue parole andrebbero studiate attentamente. Associandole a quelle spese da Mario Draghi nel giro di poche ore, prima ai (disattenti) parlamentari italiani, poi a Hong Kong in un’importante sede finanziaria internazionale. Ci voleva l’uomo dell’euro per dire chiaro e tondo ai paesi europei, Italia in primis, che l’aumento delle spese per la difesa deve essere corale. Un modo per far capire che occorre realizzare l’Eurodifesa con chi ci sta, così come a suo tempo fu fatta la moneta unica solo da una parte dei membri dell’Unione, senza la ricerca di un’impossibile unanimità. Perché, assodata l’urgenza che l’Europa si attrezzi in modo autonomo per provvedere alla sua sicurezza, compresa quella derivante dalla capacità di deterrenza nucleare, l’impasse sta nel fatto che due diverse ragioni concorrono a rendere possibile la strada del riarmo nazionale, seppure in un quadro di coordinamento comunitario, e impossibile quella del riarmo unitario della Ue ricorrendo al debito comune. Il primo motivo che non consente di pensare ad un progetto che metta d’accordo tutti i 27 Paesi dell’Unione, è di natura politica, come dimostrano il veto continuamente utilizzato dalla filo-putiniana Ungheria di Orban e i distinguo dell’Italia meloniana, con un piede nella scarpa americana e l’altra in quella europea. Giorgia Meloni ha detto al Financial Times che “sarebbe infantile e superficiale scegliere tra gli Stati Uniti e l’Europa”, ed è arrivata a dirsi d’accordo con Vance perché “l’Europa si è un po’ persa”. Peccato che Trump stia facendo di tutto per metterci in questa condizione, e che illudersi di poter ricucire lo strappo usando il metodo dell’equidistanza rischi di farci pagare un prezzo molto alto, quello dell’irrilevanza assoluta. Il secondo motivo sta nella diversa condizione dei conti pubblici dei paesi continentali: la Germania, dopo aver superato il vincolo costituzionale relativo al debito, può permettersi massicci investimenti, altri, a cominciare da noi, faticano ad espandere il deficit, anche se Bruxelles allenta il Patto di stabilità. 

Dunque, è venuto il momento di contarsi e, attraverso gli strumenti già esistenti nei trattati continentali, raggruppare chi è disponibile a creare l’Eurodifesa. Una strategia descritta nella teoria dei cerchi concentrici, tanto cara a Macron, fin qui sempre rigettata in nome dell’unanimismo. Cerchi che si stringono sempre più sulla base del grado di integrazione liberamente scelta dai Paesi che vogliono procedere alla creazione della Difesa comune. Nella War Room di giovedì 27 marzo con il generale Camporini, l’ambasciatore Melani e l’editorialista del Corriere della Sera Maurizio Caprara (qui il link) è emerso chiaramente il percorso da fare. Primo: aggregare chi ci sta dei 27 paesi dell’Unione (a Parigi oltre all’Ungheria, mancavano Slovacchia, Austria e Malta). Secondo: stabilire due diverse modalità operative, il coordinamento delle strutture e dei mezzi militari convenzionali che sono e restano in capo ai singoli paesi membri dell’Eurodifesa, e la creazione di un esercito e di apparati militari comuni, che a sua volta dovrà coordinarsi con le Difese nazionali. Terzo: avviare l’integrazione delle industrie della Difesa, un passaggio reso complicato dal fatto che le aziende del comparto, private o a partecipazione pubblica, sono in competizione tra loro, ma indispensabile perché creare massa critica europea è l’unico modo per assicurarsi competenze e tecnologie capaci di ridurre quanto più possibile la dipendenza dalle forniture statunitensi, che pure in una prima fase rimarrebbero necessarie. Quarto: resettare la partecipazione alla Nato, che non sarebbe più dei singoli paesi europei ma sarebbe del nuovo soggetto comunitario. Quinto: aprire l’Eurodifesa ad altri paesi europei non Ue come la Norvegia e la stessa Ucraina, alle nazioni occidentali che sono nella Nato (Regno Unito e Canada sicuramente, mentre sulla Turchia andrebbe fatta una seria riflessione) e persino a paesi terzi come Australia, Nuova Zelanda e Giappone. 

C’è poi il tema più delicato e strategico, opportunamente sollevato da Giorgio La Malfa a più riprese: la difesa nucleare. Se la dimensione del confronto con la Russia fosse solo quella convenzionale, forse non ci sarebbe neppure bisogno dell’Eurodifesa. Ma la Russia, lo sappiamo, dispone di un arsenale nucleare superiore a quello americano: circa 6 mila testate, tra tattiche (cioè a minore intensità, anche se talune arrivano ad una potenza quattro volte superiore a quella dell’arma usata a Hiroshima, che conteneva 11.500 tonnellate di tritolo) e strategiche (la potenza, dai 150 ai 300 kg-ton, consente di annientare l’avversario). E Putin ha più volte minacciato il loro uso. Dunque, se viene meno la protezione nucleare che finora ci è stata assicurata dagli Stati Uniti, l’Europa non può non provvedere in proprio. Anche qui: o si lascia che ciascun paese si assicuri la capacità di deterrenza, ed è evidente che sarebbe la Germania a farlo – e forse nelle parole di Draghi c’è da leggere una preoccupazione che affonda le radici nel passato – e poi tutti coloro, dalla Polonia ai paesi scandinavi, geograficamente più vicini al pericolo russo, oppure deve essere la costituenda Eurodifesa a provvedere. Per farlo rapidamente bisogna partire da quello che già c’è: le circa 500 testate nucleari strategiche complessivamente possedute da francesi e inglesi. Macron ha già detto di essere disposto a mettere a disposizione le sue 290 testate, di cui 280 già “schierate”, cioè pronte al lancio per via aerea. Ed è una grossa apertura politica, conoscendo lo spirito gollista transalpino. Ma ha anche detto che il dito sul “bottone del go” deve restare francese, e questo è oggettivamente un limite. Starmer, proprio qualche giorno fa, ha voluto salire a bordo di un sottomarino che fa parte della flotta di deterrenza nucleare britannica (225 testate strategiche, tutte affidate a sottomarini). Un gesto simbolico, accompagnato da una frase non meno evocativa – “siamo a uno spartiacque della Storia” – per rendere più credibile il suo attivismo nella formazione dei “volenterosi”. Anche lui non sembra disposto a perdere sovranità su queste testate, ma come Macron è disponibile a socializzare la loro funzione di ombrello protettivo. D’altra parte, finora non era forse in mani americane, e quindi altrui, la nostra protezione nucleare? E oggi quelle francesi e inglesi sono mani certamente più fidate. Questo, almeno, nel breve periodo. Poi andrà posta la questione in sede comunitaria. Qui La Malfa suggerisce di seguire la strada imboccata alla fine degli anni Ottanta, quando fu costituito il Comitato Delors per proporre modalità e tempi del processo di unificazione monetaria in modo da essere pronti quando Consiglio Europeo e governi dovessero decidere di procedere.  

Si farà tutto questo? La mia impressione è che tanto più la liaison dangereusetra Trump e Putin produrrà un iniquo e umiliante accordo a danno di Zelensky e del popolo ucraino, quanto più le probabilità di realizzare l’Eurodifesa aumenteranno e i tempi si abbrevieranno. Perché una pace ingiusta per Kiev è sinonimo di instabilità e quindi di pericoli per l’Europa. E l’Italia risponderà presente? Spero di sì, temo di no. Ma di quel che succederà a Roma parliamo sabato prossimo. (e.cisnetto@terzarepubblica.it)

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