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L'editoriale di TerzaRepubblica

PD disarmato

LA SPACCATURA SUL RIARMO UE È UN ERRORE STORICO MA ANCHE UN'OPPORTUNITÀ SE I RIFORMISTI METTERANNO IN DISCUSSIONE LA SCHLEIN

di Enrico Cisnetto - 15 marzo 2025

Frustrazione. È quello che provo nel vedere l’Italia farsi del male, mettendosi ai margini dell’Europa e riducendosi alla più totale irrilevanza. Per quanti sforzi faccia il presidente Mattarella nel riaffermare la collocazione continentale del nostro Paese – ma la sua “supplenza” ha limiti oggettivi, che per carattere e stile non intende superare – governo e opposizioni, in egual misura seppur con due diversi gradi di responsabilità, riescono a combinare disastri i cui costi, purtroppo, saranno molto più salati di quanto non si possa immaginare. Mi riferisco al “mercoledì nero” di Strasburgo nel quale il residuo di credibilità dell’Italia è andato in frantumi con il voto del Parlamento europeo sul piano di riarmo proposto da Ursula von der Leyen e sulla mozione di conferma dell’appoggio che la Ue ha dato e intende continuare a dare all’Ucraina. Una data, il 12 febbraio 2025, destinata se non ad entrare nei nostri libri di storia, di sicuro nel “libro nero” della politica italiana. La maggioranza di governo – che è tale, e peraltro faticosamente, solo per le questioni di politica interna – si è spaccata in tre: la Lega, coerentemente con le posizioni pro Trump e pro Putin di Salvini, ha votato contro ad entrambe le risoluzioni, al pari di 5 Stelle e Sinistra-Verdi; Forza Italia a favore in ambedue i casi; Fratelli d’Italia ha disgiunto il voto, votando sì a quella sugli investimenti militari e astenendosi su quella relativa all’Ucraina, con la motivazione – speciosa – che fosse “anti-americana” solo perché nel testo si deplorava l’atteggiamento assunto da Trump nei confronti dell’alleato Europa, unilateralmente ormai considerato ex. Con ciò consegnando Giorgia Meloni alla più assoluta marginalità in sede comunitaria, più di quanto già non fosse per via della sua reiterata freddezza, se non ostilità, verso le iniziative franco-britanniche (e tra poco anche tedesche) di creazione di una coalizione di “volenterosi” pronta, anche senza gli Stati Uniti se non ci dovessero stare, a sostenere l’Ucraina in caso di prosecuzione della guerra o a difenderla in un contesto di tregua e pacificazione. E questo – attenzione – non (solo) nella sua veste di leader politico, fatto che importa solo ai suoi seguaci, ma cosa ben più grave, in quella di presidente del Consiglio, che invece ci riguarda tutti. 

Un vero e proprio guaio, ma che, paradossalmente, è stato in buona misura “oscurato” dall’altro pasticcio italico del nostro “mercoledì nero”. Mi riferisco a quello combinato dal Pd di Elly Schlein, che si è tafazzianamente diviso a metà sul riarmo Ue (11 astensioni, di cui oltre la metà sarebbero stati dei No pieni se non fosse stata intavolata un’estenuante mediazione, e 10 voti a favore) sulla base della linea della segreteria secondo cui il piano von der Leyen favorirebbe il riarmo dei singoli Stati senza contribuire alla difesa comune europea, anzi ritardandone la creazione. Una motivazione speciosa e contraddittoria, considerato che la gran parte degli 11 astensionisti, se non tutti, sposano una linea pacifista del tutto simile a quella dei 5stelle, che quindi li avrebbe visti contrari anche ad una spesa militare direttamente in capo a Bruxelles. Mentre chi ha votato a favore lo ha fatto partendo dalla gravità della situazione, che vede incombere sul Vecchio Continente sia la messa in discussione dell’alleanza atlantica da parte di Trump, con il rischio di una chiusura dell’ombrello NATO, sia la minaccia dei disegni neo-imperiali di Putin. Pericoli che non ammettono ambiguità, specie in un partito che si è sempre professato baluardo europeista. E che invece – non ascoltando i suggerimenti arrivati dai suoi esponenti dalla maggiore e conclamata reputazione europea, come Prodi e Gentiloni, concordi nel ritenere il ReArm Europe “un primo passo” verso la difesa comune – non solo ha isolato i democratici italiani nell’ambito della famiglia socialista europea (unici a distinguersi), e li ha clamorosamente allontanati dal presidente Mattarella, ma ha reso la plastica rappresentazione del fatto che il centro-sinistra o campo largo che dir si voglia, ove mai riuscisse a conquistare la guida del Paese, riprodurrebbe le stesse esiziali spaccature che quotidianamente rimprovera (sa fare solo questo) a chi sta al governo oggi. Non è un caso, infatti, che nell’osservare la penosa scena di Strasburgo orchestrata dai 21 europarlamentari democratici italiani, mi siano venute in mente le elezioni americane dello scorso novembre, quando non fu Trump a vincere, ma la Harris a perdere, non riuscendo a mobilitare l’elettorato moderato nonostante che il suo avversario fosse un estremista esagitato.  

Per questo, mentre sul piano istituzionale considero molto più grave la frattura che si è manifestata nell’ambito delle forze di maggioranza, viceversa sul piano politico è quanto avvenuto nel Pd ad avere maggiore rilevanza. Solo che nel primo caso temo non accadrà nulla, almeno fino a quando non si dovesse votare nel parlamento nazionale il concreto aumento delle spese militari. Pur essendo stata la triplice dissociazione di Strasburgo – al pari di una discussione al calor bianco sempre su questi temi che ha visto protagonisti Meloni e il ministro Giorgetti (naturalmente smentita da palazzo Chigi, ancorché siano state molte le orecchie che l’hanno ascoltata, non fosse altro per i decibel del “franco confronto”) – l’ennesima conferma di come la tanto decantata coesione del centro-destra sia moneta falsa, e pur sapendo che in un sistema politico non dico sano e funzionale ma almeno minimamente normale, un’abissale diversità di posizioni sulla politica estera come questa avrebbe immediatamente prodotto la caduta del governo, sono sicuro che si continuerà a far finta di niente. A derubricare il tutto a “convivenza di diverse sensibilità”, classica foglia di fico sotto cui si celano differenze rese conciliabili solo al prezzo di praticare il tirare a campare. Ambiguità cui si ricorrerà, sono pronto a scommetterci, la prossima settimana, quando il governo dovrà portare in Parlamento (martedì al Senato, mercoledì alla Camera) una mozione che dia un mandato pieno a Meloni per il Consiglio europeo di giovedì: basterà trovare l’arzigogolo lessicale giusto per far convivere il sì al piano di riarmo (che FdI e FI hanno approvato a Strasburgo) con l’enunciazione che la priorità restano gli investimenti per lo sviluppo e il welfare (posizione della Lega), il tutto condito con uno spruzzo di auspicio di pace per l’Ucraina, magari nel solco di quanto fa per essa l’amministrazione americana.  

Mentre nel caso del Pd, l’inevitabile irritazione che mi ha suscitato la messa in scena del penoso spettacolo di Strasburgo, lascia spazio ad una seppur piccola speranza: che finalmente i riformisti, dentro e fuori dal partito, si assumano la responsabilità di imporre il necessario chiarimento politico e poi ne traggano le dovute conseguenze. Guardate, ha ragione Piero Fassino, che se fosse europarlamentare avrebbe votato a favore, nell’affermare (nella War Room di giovedì 13 marzo, con Claudio Petruccioli ed Enrico Morando, qui il link) che “il posizionamento internazionale definisce identità, profilo e credibilità di un partito”, e dunque che su una questione del genere non si può non aprire un confronto interno e con l’opinione pubblica. E a maggior ragione è nel giusto Luigi Zanda nel portare alle estreme conseguenze questo discorso chiedendo che si faccia al più presto un congresso straordinario del Pd incentrato sulle scelte di politica internazionale e che si chiarisca una volta per tutte se il segretario del partito deve essere eletto dagli iscritti (in questo caso Schlein non sarebbe in quel ruolo perché nel 2023 prese solo un terzo dei loro voti) o da chiunque nei gazebo. Ma non basta. Occorre avere il coraggio di dire le parole che fin qui ho sentito pronunciare solo dal mio amico Petruccioli – uno che la sinistra la conosce bene e che non pratica il politichese – quando afferma che la contrarietà di Schlein alla politica di organizzazione della propria difesa militare da parte dell’Europa è perfettamente coerente con il profilo culturale e la linea politica della segretaria. Insomma, non c’è da stupirsi dell’armocromista, semmai è sorprendente l’acquiescenza mostrata fin qui nei suoi confronti da chi non ha nulla a che fare con la sua logica movimentista. Schlein, come dice Zanda, non ha il profilo giusto e l’esperienza sufficiente per essere la candidata del centro-sinistra alla guida del governo. Ma proprio per questo, se il Partito democratico vuole essere, come afferma, il perno di una maggioranza alternativa, Schlein non può essere neppure la leader giusta per guidare il partito. Non perché necessariamente i due ruoli debbano coincidere – è una forzatura, il portato della deriva leaderistica che ha ammorbato la politica dal 1994 in poi, mentre un partito è più ricco se ha chi guida il partito e chi si candida a palazzo Chigi – ma perché è indispensabile che le due figure siano coerenti.  

Dunque, occorre che i riformisti del Pd dismettano la prudenza, spesso sorella gemella della pavidità, e con coraggio e fierezza avviino un’iniziativa politica a tutto campo che non si ponga come obiettivo di rendere compatibile ciò che non lo è, in nome del dogma maggioritario, bensì quello di produrre quel “definitivo chiarimento” (le virgolette hanno un significato rafforzativo) che la sinistra fin dalla caduta del muro di Berlino e la fine del Pci non ha mai portato veramente a termine, tantomeno con la nascita da procreazione eterologa del Pd. Una Bad Godesberg del tempo presente, insomma, che separi il movimentismo – che si nutre di massimalismo, populismo, giustizialismo e radicalismi vari – da un riformismo progressista aperto alla modernità ma che allo stesso tempo per esistere e affermarsi ha bisogno di un partito vero che usa le regole democratiche e non gli happening. E se questo significherà dividersi tra chi considera Conte e Landini irrinunciabili compagni di strada e chi invece conta di riconquistare alla politica e al voto quegli italiani, circa la metà dell’elettorato complessivo, che si sono disamorati e restano a casa – io lo chiamo “astensionismo consapevole”, perché non è frutto di disinteresse o, peggio, di qualunquismo – allora ben venga questa salutare spaccatura. Perché quella prodotta dal Pd di Schlein, che è riuscito nell’epica impresa di dividersi proprio mentre altrettanto accadeva nel Governo Meloni, ci restituisce una politica italiana incapace di avere tanto una maggioranza di governo quanto un’alternativa che possa sostituirla. Cosa che non mi piace affatto e mi preoccupa profondamente. Dunque, se non ora, quando? 

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