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L'editoriale di TerzaRepubblica

Le armi dell'Europa

L’UNICO ANTIDOTO AL TRUMPUTINISMO È LA UE RIARMATA E LA COALIZIONE DEI VOLENTEROSI (CON LA DETERRENZA NUCLEARE).

di Enrico Cisnetto - 08 marzo 2025

Da sempre la storia non è una linea retta, ma un susseguirsi di curve che ne descrivono i sussulti. Solo che ora i tremolii sono diventati veri e propri spasmi. Prenderne atto, e attrezzarsi di conseguenza, è l’unico modo per non essere colti alla sprovvista dalle convulsioni potenzialmente mortali che caratterizzano la storia che si sta scrivendo in queste “ore buie”. Mi pare che, pur con colpevole ritardo, sia quanto l’Europa e alcuni altri paesi occidentali si stanno accingendo a fare. Intanto, fissando alcuni punti di partenza. Il primo: nella guerra che da tre anni insanguina il fronte orientale del Vecchio Continente, i russi sono gli aggressori e gli ucraini sono gli aggrediti e nel momento in cui si auspica la fine del conflitto, pur nell’ambito di un inevitabile compromesso tra le parti, non si può non partire dal presupposto che è Kiev e non Mosca a dover essere tutelata. Il secondo punto: quella che Putin consideri l’invasione dell’Ucraina solo un primo passo non è una minaccia bensì una promessa, espressa a chiare lettere in tempi non sospetti e riconducibile al suo obiettivo primario di ricostruzione in chiave imperiale di quella che fu l’Unione Sovietica (lui stesso ha definito la dissoluzione dell’Urss come “la più grande catastrofe geopolitica del secolo”), cui deve necessariamente corrispondere una sottomissione o una disintegrazione dell’Europa. Il terzo punto: Trump alla Casa Bianca, i suoi primi atti da presidente e il profilo che sembra voler dare all’amministrazione americana, non solo si rischia di veder terminare (uso il condizionale per tenere viva la speranza derivante da un minimo beneficio del dubbio) la solidarietà atlantica che ha caratterizzato la nostra vita degli ultimi ottant’anni, ma addirittura che l’Europa venga considerata nemica degli Stati Uniti. Di conseguenza, il timore è che si chiuda quell’ombrello protettivo di difesa militare e deterrenza nucleare rappresentato dalla Nato, e in particolare dall’articolo 5 delle sue regole d’ingaggio che prevede che un attacco armato contro uno Stato membro sia considerato come diretto contro tutti gli altri, impegnandoli ad assistere l’aggredito anche con l’impiego della forza militare. Quarto e ultimo punto: se occorre ridefinire i rapporti – strategici, politici, economici – con gli Stati Uniti, è perché Washington ha messo in discussione, e di certo non amichevolmente, quanto è stato fin qui; questo significa che è ingenuo, o ipocrita, e comunque inutile, l’atteggiamento – tipico italiano – di chi minimizza e si dice convinto di essere in grado di fare il pontiere. 

Partendo dunque dalla constatazione che i vecchi assetti euro-atlantici potrebbero essere spazzati via – e con essi molte delle “comodità” cui ci eravamo felicemente abituati, peraltro senza nemmeno averne piena coscienza – perché nei pensieri del nuovo “regime” americano non c’è più l’Occidente così come lo abbiamo sempre inteso, sarebbe folle ed esiziale che i paesi “orfani” non prendessero adeguate contromisure. Tanto più, come ha ben detto Giuliano Amato, che questo castigo noi europei ce lo siamo meritato, non solo per non aver messo mai in conto che qualcosa del genere potesse accadere, ma per aver approfittato della “generosità” Usa (tra l’altro non sempre gratuita) evitando di fare la nostra parte pagando fino in fondo le quote del “club Nato”. Per questo va salutata con pieno favore la decisione unanimemente presa dal Consiglio europeo straordinario di approvare il piano “ReArm” predisposto da Ursula von der Leyen, che prevede 800 miliardi di investimenti in produzioni belliche, di cui 650 attraverso la flessibilità fiscale e la sospensione dei vincoli del patto di stabilità e 150 mediante un nuovo prestito Ue destinato alle industrie europee della difesa. Anche se scaricare questa spesa sui deficit dei singoli paesi non è certo la via migliore, per cui è auspicabile che in un secondo momento si possa andare oltre e abbattere il tabù di fare debito esclusivamente europeo da spendere in modo centralizzato. Ma la decisione presa giovedì a Bruxelles che merita ancora maggior plauso è la risoluzione che indica le cinque condizioni per una pace giusta in Ucraina, o meglio il fatto che sia passata con il voto favorevole di 26 paesi su 27. Perché avendo bypassato il veto del leader ungherese Viktor Orbán, finalmente considerato irrecuperabile per la sua putiniana deriva anti-Zelensky, di fatto hanno creato un precedente che potrebbe affossare in via definitiva la regola dell’unanimità dei 27, una camicia di forza che ha reso impotente l’Unione.  

Tuttavia, deve essere chiaro che la scelta strategica del riarmo europeo potrà essere materialmente efficace solo nel medio periodo. Per capirlo basta considerare che gli 800 miliardi previsti sono oltre dieci volte la spesa per mezzi e sistemi d’arma fatta fin qui dall’insieme dei paesi europei, e che l’integrazione dell’industria della difesa richiede tempo e pazienza. Se poi le scelte di Trump dovessero imporci non un semplice incremento degli impegni ma un’attività sostitutiva, bisogna considerare che la spesa militare americana è tre volte quella europea e, cosa ancora più importante in questa fase di rapidissima evoluzione delle tecnologie, è oltre una dozzina di volte maggiore quella per ricerca e sviluppo. Questo per dire che nel breve periodo, è assolutamente indispensabile che al graduale affrancamento europeo si affianchi, precedendolo, l’iniziativa definita “Coalition of the willing”. Cioè un gruppo di paesi “volenterosi”, con in testa Regno Unito e Francia, pronti ad un coinvolgimento diretto di natura militare che comprenda un esercito di qualche decina di migliaia di soldati e l’uso di mezzi, soprattutto aerei. Un’iniziativa importante non solo perché consente di rimettere insieme i cocci prodotti dalla Brexit, e in questa situazione l’asse Ue-UK vale oro, e tiene al tavolo la Nato e paesi extra Ue fondamentali, come Canada e Turchia, ma soprattutto perché Londra e Parigi mettono sul tavolo quella capacità di deterrenza nucleare che in questa fase è fondamentale. 
Ma Macron e Starmer sembrano intenzionati a fare di più. Il presidente francese, superando un tabù che risale ai tempi del generale De Gaulle, si è detto disponibile a mettere al servizio dell’Europa il suo arsenale nucleare – se poi facesse diventare comunitario anche il suo diritto di veto all’Onu conquisterebbe pienamente la leadership comunitaria – cosa che aprirebbe il tema della formazione di un governo europeo cui la deterrenza nucleare facesse capo, premessa per andare nella direzione (indispensabile) degli Stati Uniti d’Europa. E altrettanto sembra voler fare il primo ministro inglese a favore del “club dei volenterosi”. Se ci aggiungiamo che il cancelliere tedesco in pectore Merz ha già assicurato la cooperazione a questo progetto del governo che si accinge a varare – in tempi inusuali rispetto alle abitudini nella formazione delle coalizioni in Germania – e sul piatto ci sono investimenti per 100 miliardi nella difesa resi possibili dalla scelta, davvero epocale, di Cdu-Csu e Spd di rimuovere il vincolo al debito costituzionalmente previsto, si vede come si possa sul serio imboccare la strada che consentirebbe di emanciparsi da Washington e impedire una nuova aggressione di Mosca. 

E l’Italia? Fino a qualche ora fa tra i volenterosi non c’era. Anzi, Meloni, già stizzita per il protagonismo francese e ancora calata nell’improbabile parte di chi coltiva l’ambizione di rabbonire Trump illudendosi di poter evitare di diventarne lo zerbino, aveva nell’ordine chiarito che i soldati italiani giammai saranno utilizzati a difesa dell’Ucraina, proposto che l’articolo 5 della Nato fosse esteso a Kiev pur tenendola fuori dall’alleanza atlantica – cosa tecnicamente impossibile e comunque già bocciata da Washington – e tentato di convincere, senza risultato, i suoi colleghi presenti al Consiglio europeo di inserire nel documento finale una frase con cui salutare gli sforzi di Trump per la pace. Poi, però, si è saputo che palazzo Chigi invierà l’11 marzo al vertice degli esperti militari convocato da Macron il Capo di stato Maggiore generale Portolano, con ciò acquisendo un biglietto di partecipazione ai volenterosi. Lo userà? Non è dato saperlo, anche perché la presidente del Consiglio è silente, soprattutto nelle sedi istituzionali preposte ad affrontare questioni così delicate e strategiche. Cosa che sottrae al Paese il diritto-dovere di capire l’epocalità delle scelte che abbiamo di fronte, lasciandolo schiavo dell’insopportabile chiacchiericcio mediatico da talk show. Si guardi Macron che parla ai francesi a reti unificate, e si facciano le dovute comparazioni. Era (è) così lontano dal proprio abito mentale pensare che un’ora tanto buia come questa richieda di rivolgere un discorso alla Nazione, magari condividendo quei tormenti cui pure la stessa Meloni ha fatto cenno la stiano turbando? Anche perché il tempo delle ambiguità è finito, ed è l’unica vera cosa positiva che questo maledetto rivolgimento geopolitico planetario porta con sé. Per fortuna a ricordarcelo c’è il presidente Mattarella, che anche nella sua visita in Giappone è tornato a spendere parole inequivocabili sulla vicenda ucraina, sulle colpe di cui si è macchiata la Russia e le responsabilità che gli europei e gli occidentali che ancora credono nei valori della democrazia liberale si devono assumere.  

Appartengo alla generazione che ha formato la propria coscienza politica nel coacervo di conseguenze generate dal Sessantotto, e più precisamente dalla parte di coloro che consideravano la solidarietà atlantica come il collante che univa il mondo libero, difendendolo dai totalitarismi, contro coloro che, invece, vedevano l’Amerika (scritto spregiativamente con la K) come capofila dell’imperialismo capitalista mondiale. Si può dunque facilmente immaginare quanto mi costi vedere il paese baluardo della libertà, quello che ci ha liberato dal giogo nazi-fascista e ci ha riparato dalla minaccia costituita dall’Unione Sovietica, che non solo mette in forse a casa propria i fondamenti della democrazia, a cominciare dalla separazione dei poteri, ma sovverte ogni principio abbandonando e minacciando gli storici alleati e facendo comunella con il nemico di sempre. Così come mi fa venire l’orticaria sentire Massimo D’Alema, che a suo tempo stava dalla parte sbagliata della storia, dire di fronte alle performance di Trump “Forse avevamo ragione quando, da giovani, urlavamo che l’imperialismo Usa era una barbarie”. Come ha scritto Mattia Feltri, era già trumpiano allora senza saperlo.


Mi consolo – e spero sia di conforto anche a voi, cari lettori – con le parole che il vecchio leader di Solidarność, Lech Walesa, e altri suoi compatrioti ex prigionieri politici polacchi, gente che ha combattuto il comunismo e dato la vita per la libertà, hanno speso in una lettera inviata al presidente Trump: “Caro Signor Presidente, abbiamo assistito con sgomento e disgusto alla sua conversazione con il Presidente ucraino Volodymyr Zelensky. Riteniamo offensiva la Sua pretesa di mostrare rispetto e gratitudine per l’assistenza materiale fornita dagli Stati Uniti all’Ucraina in lotta contro la Russia. La gratitudine è dovuta agli eroici soldati ucraini che hanno versato il loro sangue in difesa dei valori del mondo libero…Non capiamo come il leader di un paese simbolo del mondo libero possa non rendersene conto. Il nostro orrore è stato suscitato anche dal fatto che l’atmosfera che si respirava nello Studio Ovale durante questa conversazione ci ha ricordato quella che abbiamo ben presente negli interrogatori del Servizio di Sicurezza e nelle aule dei tribunali comunisti. I procuratori e i giudici incaricati dall'onnipotente polizia politica comunista ci hanno anche spiegato che erano loro ad avere tutte le carte in mano e noi nessuna… Ci hanno privato delle nostre libertà e dei nostri diritti civili perché ci siamo rifiutati di collaborare con le autorità e di mostrare gratitudine nei loro confronti. Siamo scioccati dal fatto che abbiate trattato il Presidente Zelensky in modo simile. La storia del XX secolo dimostra che ogni volta che gli Stati Uniti hanno voluto mantenere le distanze dai valori democratici e dai loro alleati europei, hanno finito per mettere in pericolo se stessi… Ricordiamo che senza il Presidente Reagan e l’impegno finanziario americano, il crollo dell’impero sovietico non sarebbe stato possibile…Signor Presidente, gli aiuti materiali – militari e finanziari – non possono equivalere al sangue versato in nome dell’indipendenza e della libertà dell’Ucraina, dell’Europa e di tutto il mondo libero. La vita umana non ha prezzo; il suo valore non può essere misurato con il denaro…noi di Solidarność…chiediamo che gli Stati Uniti onorino le garanzie fornite con il Regno Unito nel Memorandum di Budapest del 1994, che includeva esplicitamente l’impegno a difendere l’inviolabilità dei confini dell’Ucraina in cambio della consegna del suo arsenale di armi nucleari. Queste garanzie sono incondizionate: non c’è una sola parola sul fatto di considerare questi aiuti come uno scambio economico”.  
Sono sicuro che, se fosse ancora vivo, questa splendida lettera sarebbe stata sottoscritta anche da Papa Wojtyla.

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