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L'Europa scelga tra Trump e l'Ucraina
TRUMP UMILIA ZELENSKY, EUROPA COSTRETTA A SCEGLIERE. AIUTANO LE ELEZIONI TEDESCHE, LE MOSSE DI MACRON E IL RITORNO UE-UK
di Enrico Cisnetto - 01 marzo 2025
Prima o poi i fatti s’incaricano di castigare le illusioni e la retorica, mettendo a nudo le falsità che esse generano. Mi riferisco da un lato alla assai diffusa speranza, segno di un’ingenuità disarmante, secondo cui il vero Donald Trump non è quello della campagna elettorale bensì un uomo bonario che abbaia ma non morde, mentre dall’altro faccio riferimento alla narrazione secondo la quale in Europa l’unico paese che godrebbe di stabilità politica sarebbe l’Italia, mentre Germania e Francia ne avrebbero perso il ricordo perché i loro sistemi politico-istituzionali sarebbero al fallimento, e a quella che dà per morti e sepolti il centro moderato e la sinistra socialdemocratica, travolti da una irresistibile affermazione delle destre nazional-populiste.
Nel primo caso, ove mai ce ne fosse stato bisogno, dovrebbe essersi incaricata di aver spazzato via definitivamente ogni chimera buonista l’inverecondo spettacolo dato ieri alla Casa Bianca dal presidente americano e dal suo vice JD Vance nel tentare di umiliare – senza peraltro riuscirci, vista la sua più che dignitosa reazione – il povero presidente ucraino Zelensky. Chi segue TerzaRepubblica lo sa, ho detto fin dal primo momento che Trump avrebbe stravolto la democrazia americana sostituendo la forza al diritto, e avrebbe distrutto l’Occidente così come siamo stati abituati a considerarlo, e per nostra fortuna a viverlo, dalla seconda guerra mondiale in poi. Profezie che, purtroppo, si stanno avverando, ogni giorno sempre di più. Drammaticamente. Fino al punto di parteggiare per l’aggressore assassino, Putin, contro l’aggredito, Zelensky, che difendendosi ha cercato di preservare la libertà dell’Europa oltre che quella del suo paese e della sua gente. Ora non resta che sperare che quella scena a dir poco disgustosa a cui abbiamo assistito in mondovisione spazzi via ogni residuo eccesso di illusorio realismo, e induca tutti gli europei – a cominciare da noi italiani e dal governo che ci rappresenta – a reagire senza ipocrisie e tentennamenti, mostrando questa volontà fin da domani nel vertice europeo che si svolgerà a Londra.
Nel secondo caso, a sancire che trattasi di propaganda concorrono quattro circostanze ben precise: il risultato delle elezioni tedesche, il ruolo che sta giocando il presidente francese Macron nella difficilissima partita Ue-Usa-Russia per mettere fine alla guerra in Ucraina, l’eccezionale torsione post Brexit impressa al Regno Unito dal primo ministro Starmer nella direzione di un riavvicinamento all’Europa, l’esplosione delle divergenze in seno alla maggioranza che esprime il governo Meloni sulla dirimente questione della collocazione dell’Italia nel contesto geopolitico globale, cui peraltro sul medesimo tema della politica estera fanno da simmetrica corrispondenza le non meno evidenti fratture nel fronte delle opposizioni. Vediamole in dettaglio, cercando di analizzare le loro interrelazioni e gli effetti che potranno produrre.
Partiamo dalla Germania. Di certo è rilevante che la destra estremista rappresentata dall’Afd abbia raggiunto la pronosticata quota del 20% dei voti, in buona misura concentrati nell’ex Ddr. Ma è mille volte più significativo che l’82.5% dei cittadini tedeschi sia andato a votare (quasi 20 punti in più dell’affluenza alle politiche italiane del 2022), che a vincere con poco meno del 30% siano stati i popolari destinati ad esprimere il prossimo cancelliere nella figura del loro leader Friedrich Merz, che il partito esplicitamente filo russo BSW capeggiato da Sahra Wagenknecht sia rimasto sotto la soglia del 5% e quindi escluso dal Bundestag così come i liberali puniti perché in uno slancio trumpiano il loro leader e ministro delle Finanze del governo Scholz, Christian Lindner, si era assunto la responsabilità di aprire la crisi che ha poi portato alle elezioni anticipate, nelle stesse ore in cui The Donald festeggiava il suo ritorno alla Casa Bianca. Insomma, i tedeschi sono corsi a votare per le forze che fanno da argine ai rigurgiti neo-nazisti e alle liaisons dangereuses con Mosca di Afd, a dimostrazione che l’astensionismo è sì un male endemico delle democrazie contemporanee, ma diventa reversibile quando si ha la giusta percezione di minacce gravi che incombono. Ma soprattutto, a funzionare è stato il proporzionale selettivo, che assegna a Cdu-Csu e Spd la maggioranza dei seggi parlamentari, cosa che ora può consentire a Merz di formare un governo a due nel solco delle Große Koalition dell’epoca Merkel. Con indubbio vantaggio non solo per la Germania, che ha fretta di uscire dalla recessione ridisegnando il suo modello di sviluppo, ma anche per la Ue, che ha un disperato bisogno di ritrovare la forza tedesca nel braccio di ferro con gli Stati Uniti cui l’amministrazione Trump, con un atteggiamento senza precedenti, la sta costringendo.
Sia chiaro, non sottovaluto né i limiti della figura del cancelliere in pectore – l’errore della convergenza con Afd sull’immigrazione commesso poco prima del voto, pur subito rimediato, è stato imperdonabile – né le difficoltà che Berlino avrà nel darsi un governo considerato che almeno su due questioni, la gestione dell’immigrazione irregolare e la modifica in senso meno restrittivo del freno al debito costituzionalmente previsto, le posizioni dei popolari e dei socialisti sono molto distanti e trovare un compromesso è cosa complessa. Ma se Merz, complice la debolezza dell’Spd uscita ammaccata dal voto, saprà battere il vero nemico che ha di fronte, i tempi lunghi con cui di solito si formano le coalizioni tedesche – e per come si sta già muovendo mostra di avere piena consapevolezza di questo rischio – allora la Germania potrà tornare al centro del ring. Tenendosi ben stretta la sua buona legge elettorale e sapendo di poter continuare a fare affidamento sul suo efficace sistema politico-istituzionale. Alla faccia di coloro – in Italia tanti – che avevano già intonato un de profundis che peraltro viene da lontano, nel solco della qualunquista condanna del proporzionale come anticamera della ingovernabilità.
Parimenti, sono mesi che viene data per morta la Francia, a cominciare dal suo presidente. Eppure, dopo la breve ma evidentemente educativa parentesi del governo Barnier, a Matignon l’esecutivo guidato da François Bayrou non solo resiste, ma ha procurato una salutare frattura nella sinistra tra la componente massimalista (e filo putiniana) e quella riformista. Macron, poi, resta all’Eliseo, e non abusivamente, ma perché lo prevede il semipresidenzialismo francese, cioè un sistema basato sulla separatezza tra il mandato presidenziale e quello parlamentare, per cui le cadute di governi possono indebolire politicamente il presidente della Repubblica ma non ne comportano la delegittimazione formale. Anche qui, come nel caso tedesco, campane a morto senza criterio, per un sistema che peraltro è stato a lungo incensato dai fautori del maggioritario (pentiti?).
E che Macron, pur indebolito, sia oggi, in attesa di Merz, l’unico leader europeo in grado di recitare un ruolo ce lo dice il suo attivismo – in contrasto stridente con la manifesta impotenza dei vertici comunitari – sul dossier ucraino, che è ormai diventato il terreno su cui si ridisegnano gli equilibri planetari, o forse è meglio dire su cui si vanno affermando pericolosi squilibri globali. Prima ha convocato a Parigi un vertice europeo informale e ristretto, poi ha allargato il gruppo a 19 nazioni, tra cui il Canada e altri paesi non Ue come Norvegia e Islanda. Quindi, dopo aver visto Zelensky e aver speso parole inequivocabili sulle responsabilità russe della guerra e sulla volontà che Kiev possa godere di una pace giusta, forte del ruolo che la Francia ha di potenza nucleare e di membro del Consiglio di sicurezza dell’Onu, è andato a Washington a parlare con Trump senza indulgere a vestire i panni da cheerleader.
Altrettanto ha poi fatto il primo ministro inglese, il laburista Keir Starmer, l’unico altro leader in grado di trattare direttamente con il presidente americano visto che rappresenta una potenza atomica storicamente integrata con gli Usa. Tra i due ci sarà pure stato il siparietto della lettera di Buckingham Palace recapitata da Starmer, su cui The Donald è andato a nozze, ma nulla ha scalfito la netta percezione che si sia formato un inedito asse franco-inglese in chiave di contenimento di Trump, premessa per un riavvicinamento tra Regno Unito ed Europa per la prima volta dopo la Brexit, che potrebbe rivelarsi fondamentale per calmierare le forzature trumpiane e arginare Putin e i suoi disegni imperiali di ritorno all’Unione Sovietica basati sull’idea di distruggere l’unità del Vecchio Continente. Insomma, l’inquilino di Downing Street – che Robert Shrimsley sul Financial Times ha definito come un audace interprete di un “Bismarck moment” – non è andato alla Casa Bianca con il cappello in mano per evitare i dazi, cosa che pure ha ottenuto perché Trump non se lo può permettere di rompere l’alleanza anglo-americana, ma ci è andato in continuità con Macron, per tornare a collocare Londra in Europa. Iniziando con una politica comune di difesa e sicurezza, per poi disegnare una traiettoria che riporti l’economia inglese nell’orbita continentale.
Tutto questo a testimonianza che, contrariamente alla narrazione corrente, la sinistra riformista, se è nelle mani giuste e mostra piena consapevolezza di sé, non è affatto tramontata. Così come le elezioni tedesche dimostrano che non è calato il sipario sul centro moderato, se fa da argine agli avventurismi e si muove in un contesto (legge elettorale e sistema politico) adeguato. Esattamente il contrario di quanto passa il convento italiano. Da noi si racconta che i riformisti e i moderati devono restare rigorosamente divisi, accettando il compromesso di convivere ciascuno con le peggiori risme di populisti, sovranisti e massimalisti, in nome della salvaguardia del bipolarismo – un feticcio cui anche le migliori intelligenze faticano a rinunciare – per di più inesorabilmente declinato in chiave di radicale contrapposizione. Per autoconvincerci che si tratta di un confort zone e non di un sistema inefficiente che produce solo declino strutturale, ci siamo industriati a definire come stabile ciò che è soltanto immobilismo finalizzato a tirare a campare. E a descrivere come fallimentari i tre sistemi – tedesco, francese, inglese – che pur nelle loro fortissime diversità, e con alcuni limiti oggettivi, hanno tutti dimostrato, invece, di saper resistere alla consunzione del tempo e di essere meno cedevoli di altri alle lusinghe dell’anti-politica – sarà perché dispongono di partiti non personali ancorati alle culture politiche più radicate? – e quindi di rappresentare una migliore (o anche solo meno peggiore) strumentazione per affrontare curve epocali della storia come quella che stiamo vivendo.
Ora, però, è impossibile chiudere gli occhi di fronte alle clamorose spaccature che il “trumputinismo” sta producendo all’interno dei due schieramenti e dentro gli stessi partiti che li compongono su una questione dirimente come la politica estera, e sembra difficile anche per gli strenui cantori delle meravigliose e progressive sorti del bipolarismo non prendere atto che i compromessi cui sono chiamate forze costrette a stare insieme malgrado tutto, sono conti che non tornano (più). Dunque, non resta che sperare che questa stagione così maledettamente complicata e drammatica, laddove persino i fondamenti della democrazia liberale paiono messi in discussione, almeno una cosa buona la produca: la fine della doppia ipocrisia bipolare. Il mio amico Francesco Cundari ci crede poco e niente, tant’è che scrive: “troppi politici, accademici e commentatori, per troppi anni, hanno investito troppo del loro credito e della loro credibilità nell’ideologia del bipolarismo maggioritario e parapresidenziale, per potere adesso accettare l’idea di fare marcia indietro”. Tuttavia, anche in lui, come in me, la speranza è l’ultima a morire, e per “non morire trumpiani” suggerisce, e io con lui, di “rinascere neo-proporzionalisti” rimuovendo “l’anomalia solo italiana, sconosciuta a qualsiasi altra democrazia occidentale, rappresentata dalle coalizioni pre-elettorali”, che non hanno costituzionalizzato le estreme come promesso ma reso estremo il sistema lasciandolo in balia dei peggiori populismi. Come? Riformando la legge elettorale a favore di un proporzionale selettivo (soglia del 5%) e temperato da regole di governabilità come la sfiducia costruttiva – basta copiare il sistema tedesco senza imbastardirlo all’italiana – e tornando ad un regime realmente parlamentare coerente con il primordiale disegno costituzionale, che naturalmente richiede partiti veri, contendibili, figli di culture politiche che abbiano passato gli esami della storia. Cosa aspettano i moderati fin qui collocati nel centro-destra costretti a continui distinguo (a questo proposito si veda la War Room di mercoledì 26 febbraio intitolata “Forza Italia, quo vadis?”, qui il link), i riformisti del Pd umiliati da una segreteria che sulla questione ucraina riesce a dire “noi non siamo con Trump e il suo falso pacifismo e non siamo con l’Europa per continuare la guerra”, e a maggior ragione le polverizzate animelle centriste, a prendere una comune iniziativa politica e parlamentare sulla legge elettorale, come premessa per imprimere una torsione chiarificatrice nel sistema politico atrofizzato da due falsi schieramenti? Ci sono solo dei don Abbondio in circolazione?
L'EDITORIALE
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Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.