
L'Ucraina e noi
DA TRUMP-PUTIN UNA PACE INGIUSTA PER L’UCRAINA L’UMILIAZIONE DELL’EUROPA E IL RISCHIO MORTALE DI RIPETERE MONACO 1938
di Enrico Cisnetto - 15 febbraio 2025
Non so voi, ma io provo un dolore immenso, e nutro un sentimento di profonda ripugnanza e di grande preoccupazione. Di fronte alla “cordiale telefonata” di Trump a Putin, condita da un “vieni tu da me o vengo io da te”, e alla contestuale umiliazione inferta al martoriato popolo ucraino attraverso la persona del suo presidente Zelensky, mi sale la rabbia, mentre al cospetto delle sciagurate manifestazioni di giubilo dei “pacifisti a prescindere” e alle vomitevoli reazioni dei putiniani nostrani, più o meno manifesti, diventati in un batter d’occhio anche trumpiani, mi esplode l’indignazione. Altro che il vecchio slogan pubblicitario “una telefonata ti salva la vita”, qui è più azzeccato rievocare la serie televisiva inglese del 1971 “Attenti a quei due”: la finta competizione che nasconde una sostanziale complicità dei protagonisti è perfettamente calzante, ma almeno Roger Moore e Tony Curtis erano simpatici (è anche il titolo che non a caso abbiamo scelto per l’interessantissima War Room di mercoledì 12 febbraio, che vi consiglio di vedere e rivedere, qui il link).
Guardate che quella che si sta profilando sarà anche la fine di un sanguinoso conflitto militare che dura da ormai tre anni – e chi non può non compiacersene – ma non è la pace agognata dai “paciveri” imbevuti di santa ingenuità e dai “pacifinti” con le tasche piene di rubli, né tantomeno la “pace giusta” invocata dagli ucraini. E il povero Zelensky, inizialmente speranzoso che il nuovo presidente americano volesse davvero aiutarlo a rimettere le cose a posto pur conscio di dover pagare qualche prezzo ma non di veder calpestato l’onore del suo Paese, se ne è già accorto: sentitosi scavalcato, l’uomo che ha sorretto le sorti dell’Ucraina in questi tremendi 36 mesi – non senza errori e qualche eccesso di vanità, ma senza mai perdere la dignità – ha urlato “no a patti senza Kiev”. Ma è un grido che gli si è strozzato in gola, perché si rende conto della dura realtà, che va ben al di là del mancato recupero dei territori occupati dalla Russia, Crimea e Donbass. Una realtà che dice a Zelensky cose tanto crude quanto chiare. La prima: la protezione americana che fin qui gli ha consentito di sopravvivere – e che è valsa non meno dei tre quarti degli aiuti complessivamente ricevuti – verrà meno, e per di più toccherà pagare per gli aiuti fin qui avuti. E con moneta sonante, anche se sotto forma di “terre rare” (ricche di titanio, litio, manganese, uranio, grafite e altri minerali fondamentali per l’industria, a partire da quella militare e quella aerospaziale, tanto cara al “copresidente” americano Musk): stiamo parlando dell’equivalente di 500 miliardi di dollari, cui ne vanno aggiunti altrettanti per il business della ricostruzione del devastato territorio ucraino.
La seconda cosa che la realtà sbatte in faccia a Zelensky è nelle parole spese con assoluta nonchalance da Trump (“l’Ucraina un giorno potrebbe essere russa”) e quelle (“il ritorno ai confini pre 2014 e l’ingresso dell’Ucraina nella Nato sono obiettivi irrealistici”) usate dal nuovo capo del Pentagono, il pluri-tatuato Pete Hegseth, niente meno che al cospetto degli “alleati” (ma si può ancora dir così?) del gruppo di contatto sull’Ucraina presieduto dalla Gran Bretagna. Se le si abbina ai tappeti rossi stesi ai piedi di Putin, fino al punto da auspicare (è sempre l’inquilino della Casa Bianca a parlare) il ritorno della Russia nel G7, è evidente che il cessate il fuoco rischia di tradursi nel mettere Kiev nelle mani di Mosca.
Infine, il terzo bagno (doccia gelata) di realismo cui Zelensky è stato costretto da Trump è il seguente: d’ora in poi protezione e sicurezza vi saranno assicurate dall’Europa. Ben sapendo che un paio di circostanze di non poco conto rendono teorica questa affermazione. Una è che anche ammesso (ma non concesso) che i 27 paesi della Ue mettano mano al portafoglio caricando i loro bilanci di spese militari aggiuntive in misura adeguata, o ancor meglio facciano debito comune per creare la tanto agognata “difesa europea”, la cosa richiederebbe un tempo incompatibile con le immediate intenzioni americane di disimpegno. L’altra è che pur avendo conquistato il governo solo in rare circostanze (per esempio in Ungheria) le forze nazionaliste crescentemente presenti in tutta Europa, e non solo nelle opposizioni ma anche dentro alcune maggioranze (come in Italia), sono quasi tutte filo Putin, e questo rende complicato far compiere all’Unione quella torsione necessaria per mettere Kiev sotto un ombrello protettivo alternativo a quello americano. Non è un caso che Zelensky lo abbia detto a chiare lettere: “senza gli Stati Uniti, l’Europa da sola non è in grado di proteggerci”.
Insomma, un tavolo di “pace” – parola cui bisogna apporre molte virgolette – cui paiono sedersi soltanto Stati Uniti e Russia, relegando la povera Ucraina e il suo presidente ad un ruolo di comparsa “usa e getta” costretta a prendere atto di quanto deciso da “quei due”, finirebbe per escludere, umiliandola, l’Europa. Condizione che si aggreverebbe ulteriormente se al tavolo si aggiungesse la Cina. Circostanza che considero assai probabile, sia perché Putin sa di esserne diventato dipendente se non addirittura vassallo e quindi pensa che avere Xi Jinping al tavolo lo tutelerebbe, sia perché nella testa di Trump c’è l’idea di dar vita ad una nuova Yalta – a proposito, bel modo di celebrare gli 80 anni di quel momento decisivo della storia del Novecento – che dovrà regolare la modalità convivenza di quelle che lui considera le due uniche vere potenze mondiali. “È la realpolitik, bellezza”, si dirà. Sì, ma è anche vero che l’atteggiamento neo-imperiale americano non tiene minimamente conto che non è l’Ucraina il solo paese sovrano che rischia di perdere onore e territori. Kiev, infatti, ha fin qui rappresentato anche l’argine – pratico e simbolico – alle mire espansioniste di Putin. Tante volte lo abbiamo detto: “se cade l’Ucraina, tutta l’Europa è a rischio”. E questo vale anche nel caso di una pace “ingiusta” come quella che si sta profilando. Il fatto è che il grado di consapevolezza di questo rischio è troppo basso. Lo capiscono i paesi dell’est – per esempio, il ministro della Difesa lituana Dovilė Šakalienė ha detto chiaro e tondo che il blocco atlantico è palesemente impreparato ad un’eventuale aggressione russa – e quelli che temono cedimenti sul fianco ovest, come Finlandia e Svezia. Ma si può dire altrettanto di Parigi, Berlino, Madrid e Roma? E a Bruxelles, alle prese con le bizantinerie comunitarie, ci sono la governance e il coraggio adatti alla circostanza? Temo che si debba rispondere sempre no. D’altra parte, se il negoziato Putin-Trump assomiglia tanto ad un pranzo in cui due mangiano e gli altri (ucraini ed europei) pagano il conto, la Ue davvero può restare solo a guardare?
Il mio timore (terrore) è che anche i più avveduti credano che al massimo ci siano in gioco le sorti dell’Ucraina e poco più. Perché la verità potrebbe rivelarsi ben diversa. E cioè che quella maledetta telefonata di 90 minuti tra “quei due” segni la fine dell’alleanza atlantica, con conseguente “cessione” della divisa e lenta di riflessi Europa a Mosca, nel tentativo di sottrarre quest’ultima all’influenza di Pechino. Qualcosa che consegnerebbe il mondo al solo paradigma della forza, sottraendolo a quello delle regole condivise, del dialogo e del diritto, così come è stato pur tra mille difficoltà e contraddizioni dalla fine della Seconda guerra mondiale in poi. Un mondo, quello del multilateralismo, in cui per espresso volere degli americani il commercio internazionale doveva essere libero, mentre ora sono gli Stati Uniti a diventare gli assertori del protezionismo. “E un mondo di dazi doganali è un mondo che va alla guerra e si sfascia”, ha ammonito un allarmato Giorgio La Malfa nella bella War Room di giovedì 13 febbraio, dove con Giuseppe De Rita e Giovanni Maria Flick si è affrontato il tema del conflitto permanente, un “tutti contro tutti” dove non vince nessuno, come unica cifra della dimensione politica, istituzionale e sociale (qui il link) del mondo di oggi.
Tra l’altro, con una di quelle coincidenze che la storia s’incarica di trasformare in beffa, in questi giorni si svolge a Monaco un incontro tra le diplomazie europee e quella americana che dovrebbe ridisegnare le regole d’ingaggio della solidarietà atlantica, cioè proprio in quella città della Baviera dove nel 1938 ebbe luogo il nefasto vertice che segnò la capitolazione delle democrazie europee, in primis quella inglese nelle mani dello sciagurato Chamberlain, di fronte al totalitarismo nazista. Una circostanza che abbiamo seppellito in un angolo remoto della nostra memoria collettiva, e che per molti versi somiglia a quanto sta accadendo oggi. Allora Gran Bretagna e Francia, con la mediazione di Mussolini, cedettero a Hitler i Sudeti sperando di salvare la pace, senza accorgersi di compiere il passo decisivo verso l’abisso della Seconda guerra mondiale, che arrivò due anni dopo. E che Putin sia l’Hitler di allora, gli ucraini siano i Sudeti e Trump il primo ministro inglese contro cui si scagliò Churchill non lo dico io, ma il presidente Mattarella, che in un coraggioso discorso all’università di Marsiglia dopo aver ricordato che negli anni ‘30 del secolo scorso ebbe a prevalere il criterio della dominazione, ha equiparato l’aggressione russa all’Ucraina al progetto del Terzo Reich e ha ammonito che “la strategia dell’appeasement non funzionò nel 1938 mentre la fermezza avrebbe, con alta probabilità, evitato la guerra”. Soggiungendo: “avendo a mente gli attuali conflitti, può funzionare oggi?”, intendendo il fare buon viso a cattivo gioco.
L’unico, allora, a comprendere la vera natura di quell’accordo capestro fu Churchill: “Hanno scelto il disonore per evitare la guerra, avranno il disonore e la guerra”. Oggi? Non essendoci un Winston in giro, neppure una brutta controfigura, possiamo solo sperare che sia l’Europa nel suo insieme a recitare quella parte. Ma se sperarci è un obbligo morale cui non è lecito sottrarsi, crederci è altra cosa. L’integrazione incompiuta, le divisioni reiterate, le leadership deboli, nazionali e comunitarie, i sovranismi montanti, il lavoro di penetrazione realizzato da Putin – fin qui la vera vittoria politica conseguita nei tre anni di guerra – e le furbizie da quattro soldi di chi crede di poter giocare in solitaria andando con il cappello in mano dal nuovo potente a pietire qualche briciola e una photo opportunity da usare in campagna elettorale, sono altrettanti macigni che impediscono al Vecchio Continente di contare davvero nella definizione del nuovo (dis)ordine planetario. Rimuoverli attiene al proprio coraggio e alla propria determinazione, non dall’accondiscendenza altrui. Come hanno giustamente scritto Paolo Mieli (Corriere) e Vittorio Emanuele Parsi (Foglio), non serve piagnucolare chiedendo di essere ammessi al tavolo delle trattative, occorre determinare le condizioni politiche – e dunque anche di forza – per cui rendere indispensabile quella partecipazione. Ieri Ursula von der Leyen ha evocato la “clausola di salvaguardia” per le spese in difesa in modo da arrivare a superare il 3% del pil, ergo tenerle fuori dai limiti imposti dal patto di stabilità. Bene, meglio tardi che mai. Ma ora è il momento di spenderli, questi benedetti soldi, non solo di auspicarne lo stanziamento. Scrollandosi di dosso la paura di essere definiti guerrafondai – ma alle intorpidite opinioni pubbliche continentali bisogna pur spiegare che non esiste polizza che assicuri la possibilità di vivere in pace senza pagare il prezzo di doverla difendere non solo con le chiacchiere – e avendo piena coscienza che in gioco c’è il valore supremo della libertà.
In questo contesto l’Italia brilla per il suo assordante silenzio. Il governo si occupa d’altro, la presidente del consiglio tace e al vertice di Parigi dei ministri degli Esteri la sedia italiana era clamorosamente vuota. D’altra parte, il maggior impegno delle opposizioni è sbraitare affinché Daniela Santanchè lasci il suo posto, e anche la sinistra riformista si mostra afona. E mentre dalle parti di palazzo Chigi si coltiva la neanche tanto segreta speranza che prima o poi Trump conceda alla “brava Meloni” la possibilità di fare bella figura, l’orribile spettacolo dell’umiliazione europea va in scena. Speriamo che Monaco 2025 non sia proprio uguale a Monaco 1938.
L'EDITORIALE
DI TERZA REPUBBLICA
Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.