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L'editoriale di TerzaRepubblica

Il gap tecnologico dell'Europa

LA GUERRA USA-CINA SULL’AI ANCOR PIÙ DEI DIKTAT DI TRUMP DOVREBBE COSTRINGERE L’EUROPA A
DIVENTARE UNA VERA POTENZA

di Enrico Cisnetto - 01 febbraio 2025

Ancora una volta è opportuno distogliere lo sguardo dal pollaio nazionale, sempre più caratterizzato dallo scontro tra magistratura e politica nel quale il più pulito ha la rogna, e dirigerlo verso le questioni planetarie che sono destinate a incidere davvero sulla nostra vita. Tra le tante, quella che mi ha colpito di più è lo scontro Usa-Cina sull’intelligenza artificiale, cioè sul frutto dell’innovazione tecnologica che sta già profondamente trasformando ogni aspetto delle attività umane, da quelle strettamente individuali a quelle collettive. Negli ultimi giorni gli Stati Uniti, che già sembravano più avanti di tutti nella creazione dei modelli di AI, hanno messo in campo un nuovo progetto che prevede 500 miliardi di dollari di investimento privato, su cui Donald Trump ha messo la firma e la faccia. Contemporaneamente, la Cina ha risposto con altri due modelli, di cui uno a firma del colosso digitale Alibaba presentato come tecnologicamente superiore a quello californiano, e l’altro della start-up Deep-Seek definito di basso costo a parità di capacità techno. A parte le conseguenze economico-finanziarie di questa competizione stellare – il solo annuncio cinese ha “bruciato” mille miliardi di capitalizzazione borsistica a Wall Street – interessa ragionare sul valore geopolitico di questa “guerra tecnologica”, che è destinata a definire non solo la supremazia assoluta, quindi anche politica e militare oltre che industriale, tra le due super potenze mondiali, ma anche a chiarire se al tavolo dove si decide, ed eventualmente ci si spartisce, il futuro, possa sedere qualcun altro che non sia cinese o americano. Ovviamente penso all’Europa (e dentro ad essa all’Italia): la “bella addormentata nel bosco” si sveglierà per tempo, o sarà drammaticamente tagliata fuori dalla partita in assoluto più importante e decisiva del secolo? E come questa questione s’interseca con quella aperta dal ritorno di Trump alla Casa Bianca, di una ridefinizione delle regole d’ingaggio che presiedono alla storica e fondamentale relazione tra Europa e Stati Uniti, architrave della solidarietà atlantica e della stessa idea di Occidente?


A giudicare da come fin qui il Vecchio Continente ha approcciato il tema AI, viene da darla già per persa questa partita. A Bruxelles è scattato il solito riflesso condizionato della “regolamentite”: prima ancora di possederla e svilupparla, questa come tutte le tecnologie e le innovazioni, nella Ue si pensa (e di solito ci si divide) su come disciplinarla giuridicamente. Inoltre, in alcuni paesi, Italia in testa, si è sovrapposta a quella normativa anche l’ansia etica, cioè di come imbrigliarla sul piano culturale prima ancora che giuridico. Ora, è vero che per definizione l’AI pone il tema del confine con l’intelligenza umana, ed è anche comprensibile che susciti la paura della macchina che sovrasta l’uomo, ma è davvero molto significativo che il governo italiano abbia sentito il bisogno di nominare come presidente della Commissione sull’intelligenza artificiale non un tecnologo, ma un frate, il francescano Paolo Benanti, consigliere del Papa sul tema dell’etica della tecnologia. Nessuno, invece, si è preoccupato di creare le condizioni per sviluppare un progetto europeo di AI e una conseguente filiera, sia sul fronte della ricerca che delle opportunità di applicazione. E un’Europa priva di autonomia su una frontiera così decisiva significa essere dipendenti o dagli Stati Uniti o dalla Cina, tra l’altro proprio nel momento in cui i mutamenti geopolitici in atto non ci garantiscono alleanze sicure su nessuno dei due fronti. 


La verità è che l’Europa è di fronte ad una vera e propria sfida esistenziale. Può essere comodo attribuire la responsabilità di questa sgradevole condizione alla dottrina Trump, ma le cose non stanno proprio così. Dal 1945 in poi, noi continentali abbiamo costruito con le nostre stesse mani, per indolenza e opportunismo, uno stato di forte dipendenza – strategica, politica, militare, industriale, finanziaria, tecnologica – dall’alleato “pagatore”, mal interpretando il senso della solidarietà atlantica. 

Era probabilmente inevitabile nella fase della ricostruzione post bellica e della guerra fredda, ma quella divisione del mondo che per fortuna ci ha visto stare dalla parte giusta è finita nel 1989, e in 36 anni, pur avendo creato la moneta unica e stretto qualche bullone nell’impianto di integrazione comunitaria, non abbiamo costruito una potenza autonoma in grado di farsi rispettare dagli alleati tradizionali e di non dover temere le altre grandi forze del pianeta, a cominciare da Russia e Cina. E questo nonostante ce ne fossero tutti i presupposti. Le amministrazioni americane che si sono succedute in questi decenni, democratiche o repubblicane che fossero, ci hanno lasciato nel nostro torpore, spendendo di più del dovuto – si pensi alle differenti risorse impiegate in ambito Nato, tanto per fare un esempio – ma lucrando sul delta di potere decisionale a loro favore che la nostra subalternità gli forniva. Ora Trump dice di voler mettere fine a questo schema di gioco. Vedremo se, in che misura e con quali modalità metterà in atto questo proponimento. Vedremo se alla brutalità delle dichiarazioni di principio seguiranno, o meno, atti altrettanto rozzi e aggressivi. Ma in attesa di vederlo all’opera, dobbiamo dirci fin d’ora che l’Europa deve cambiare a prescindere. Che avrebbe dovuto farlo anche se Trump non avesse vinto le elezioni, e che a maggior ragione lo deve fare ora di fronte alla logica imperiale di Washington. 


Come? Prima di tutto evitando di vittimizzarsi, poi lavorando su stessa. Sia chiaro, non fare le vittime non significa chiudere gli occhi e tacere di fronte alle forzature di un presidente che, temo, è destinato a cambiare in peggio l’America e l’Occidente, e quindi a rendere meno vivibile il mondo. Ma vuol dire evitare di usare quelle distorsioni per giustificare la propria inerzia. Cioè sottrarsi alla doppia opposta tentazione, quella della lamentazione autoconsolatoria demonizzando Trump e quella della corsa a salire sul carro del vincitore nella speranza (vana) di trarne vantaggi. Perché nell’uno come nell’altro caso, la conseguenza è lasciare l’Unione Europea quell’incompiuta che è. Una volta evitate queste due tentazioni, si tratta di mettersi al lavoro per colmare i tanti gap. Meglio tardi che mai, Ursula von der Leyen sembra averlo capito quando dice “dobbiamo risolvere le nostre debolezze” avvertendo che “il nostro modello di business negli ultimi anni si è basato fondamentalmente sulla manodopera a basso costo dalla Cina, sull’energia a basso costo dalla Russia e sull’esternalizzazione parziale della sicurezza”. La sua risposta è quella che ha chiamato la “Bussola per la competitività”, cioè il documento che “trasforma le eccellenti raccomandazioni del report di Draghi in una tabella di marcia” con le misure – prevalentemente su innovazione, decarbonizzazione e sicurezza – che intende adottare nel suo secondo mandato alla guida della Commissione Ue. 

Bene. Ma bisogna intendersi, per evitare declamazioni e andare al sodo. Prendiamo la decarbonizzazione: finora abbiamo fatto ideologia. Tale è la pretesa di imporre una sola tecnologia per le auto, l’elettrico, e tale è la pretesa opposta di procrastinare per l’eternità l’endotermico senza alcun vincolo. Chi si sottrae a questa doppia fesseria reclama la “neutralità tecnologica”, cioè va bene qualunque motore che riduca entro certi livelli le emissioni. Giusto. Ma non basta, perché sulle nuove tecnologie vanno realizzati gli investimenti, come i cinesi hanno fatto sull’elettrico. Noi discutiamo di “gretinerie”, loro se ne fottono di Greta ma hanno conquistato la leadership mondiale a trazione elettrica e investito sulle batterie. Stesso discorso vale sulla sicurezza. Noi siamo fermi all’eterno dibattito circa la presunta contraddizione tra armamenti e pace, e così ci facciamo mettere in mora nell’ambito dell’alleanza atlantica per la dimensione sotto proporzionata delle risorse investite nella difesa, e nello stesso tempo compromettiamo ogni possibilità di primazia tecnologica. Attivare la “bussola” di Draghi-von der Leyen significa dunque non solo accrescere la percentuale di spesa sul pil – dobbiamo come Ue prima tendere e poi arrivare al 5% non perché lo pretende Trump, ma perché abbiamo un buco ultradecennale da colmare e perché siamo sotto la minaccia di Putin – ma anche creare una struttura militare comune e una filiera industriale continentale del settore. 


Come è facile immaginare, e come ho qui ripetuto fino alla noia, tutto questo presuppone un rapido riavvio del motore dell’integrazione politico-istituzionale europea, che a sua volta richiede l’abbandono di ogni velleità sovranista e quindi il pieno superamento della dimensione nazionale. Per la banale ma incontrovertibile constatazione che nessun paese continentale ha la taglia sufficiente per competere con Usa e Cina da solo, e che in questi anni essere rimasti a metà del guado rispetto al traguardo degli Stati Uniti d’Europa ci ha tutti condannati alla minorità e alla dipendenza. Ma se fino a ieri potevamo sperare di essere sì subalterni, ma comunque aggregati al più forte, oggi il rischio, dovendo rinegoziare i nostri rapporti con l’America, è di diventare marginali e isolati, perdendo non solo potere e ricchezza, ma compromettendo in modo grave il futuro, come dimostra la nostra estraneità, perché non pervenuti, alla guerra dell’intelligenza artificiale da cui sono partito in questo mio ragionamento.


In questo quadro, è venuto il momento che ciascuno si assuma le sue responsabilità, dicendo da che parte si sta tra il nazionalismo che guarda a Trump come alleato ideologicamente affidabile, anche a costo di pagare il prezzo delle sue scelte (dazi, chiusura dell’ombrello protettivo militare) e l’europeismo inteso non come scelta conservativa dell’esistente ma come definitiva costruzione federale. È troppo chiedere che il nostro tanto decantato bipolarismo divida le forze politiche su questa decisiva dicotomia? È troppo chiedere che il dibattito politico e mediatico italiano si sposti dalle archeologiche dispute sul passato (a proposito, non perdetevi la War Room su Mussolini di mercoledì 29 gennaio, qui il link) e dalle penose baruffe del presente, a questo terreno dove ci giochiamo il futuro? Non dovrebbe, ma temo sia davvero troppo.

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