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L'editoriale di TerzaRepubblica

L'Opa di Mps su Mediobanca e Trump...

IL RISCHIO DI MANI IMPROPRIE SUL RISPARMIO DEGLI ITALIANI E IL RUOLO DI UNA MELONI INEBRIATA DAL DECISIONISMO MUSK-TRUMPISTA

di Enrico Cisnetto - 25 gennaio 2025

Premessa di carattere strettamente personale. Da sempre ho tenuto lo sguardo di TerzaRepubblica rivolto alla politica e alla macro economia, evitando di occuparmi delle singole vicende della finanza e del nostro capitalismo, non fosse altro perché in molte di esse ero coinvolto professionalmente. Per questa edizione mi ero dunque mentalmente predisposto a scrivere del muscoloso ingresso di Donald Trump alla Casa Bianca, della sua contrapposizione all’Europa e dell’azzardato tentativo di Giorgia Meloni di mettere Roma in mezzo tra Washington e Bruxelles con il rischio di rimanere stritolata nella morsa che segnerà la fine della solidarietà atlantica. Ma poi è sopraggiunta la notizia dell’opa lanciata dal Monte dei Paschi su Mediobanca, e il vecchio giornalista finanziario che alberga in me ha cominciato a scalpitare. Era capitato altre volte, ma avevo sempre tenuto a bada le mie pulsioni. Questa volta no. E ho deciso di capitolare perché, a ben pensarci, non c’è nulla di più politico della “guerra del risparmio” che è in corso. E ha persino a che fare con Trump, seppure in modo indiretto. Per cui sulle grandi e decisive dinamiche geopolitiche che l’America neo-imperiale sta mettendo in moto, sulle faticose ma indispensabili risposte europee e sulle ambizioni italiane di lucrare un ruolo da mezzano tra Usa e Ue, vi rimando alla newsletter dell'11 gennaio (qui il link) e alla bella puntata di War Room di martedì 21 gennaio con Garimberti, Fabbrini e Mastrolilli (qui il link). E qui cerchiamo di capire genesi e conseguenze del terremoto che scuote il nostro mondo finanziario. 

Partiamo da una premessa. Nel corso della sua quasi ottantennale storia, Mediobanca ha sempre avuto e tuttora ha una forma di controllo societario di tipo autoreferenziale facente capo al management, sia quando gli azionisti erano istituzionali (le “tre bin”, le banche d’interesse nazionale che ora non esistono più) sia quando sono subentrati i soci privati. Lo stesso dicasi per Generali, da sempre sotto stretto controllo di Mediobanca (per un periodo insieme con Lazard, poi da sola) pur con il solo 13% del capitale. Così è stato nella lunga stagione del mitologico Enrico Cuccia, così ha continuato pervicacemente ad essere con i suoi successori, Vincenzo Maranghi e ora Alberto Nagel, due che dal maestro hanno preteso di ereditare il potere assoluto senza saperne eguagliare l’autorevolezza. Anche a Trieste, di conseguenza, è valsa la regola di Cuccia per cui “le azioni si pesano e non si contano”, favorita dal fatto che al vertice della compagnia assicurativa si sono succeduti uomini di grande valore, da Cesare Merzagora ad Antoine Bernheim passando per Enrico Randone, Alfonso Desiata e Sergio Balbinot. Nel frattempo, però, sono accadute due cose fondamentali: il mondo finanziario è strutturalmente cambiato, condizionato nel bene e nel male da regole stringenti che hanno reso anacronistiche le vecchie prassi, e dall’avvento di capitali immensi che hanno cancellato i perimetri degli interessi nazionali; le nuove generazioni di capitalisti e manager che via via si sono succedute hanno segnato un progressivo scadimento delle qualità professionali e umane, facendo rimpiangere persino i difetti dei vecchi protagonisti e rendendo ancor più stridenti di quanto già non fosse l’arroganza della pretesa autoreferenzialità. Sia chiaro, questi fenomeni hanno riguardato l’intero sistema, ma in Mediobanca e in Generali sono apparsi più evidenti che altrove proprio perché in quei mondi così intrecciati fino a esserne di fatto uno solo, la contendibilità non aveva mai varcato la soglia d’ingresso. E perché il “peso” degli uomini di prima rendeva impari il confronto con i successori.  
Va inoltre premesso che la fine del “sistema Mediobanca” ha reso l’istituto fondato nel 1946 da Raffele Mattioli una banca d’affari come tante altre, anzi meno delle altre vista la potenza di fuoco di quelle di size globale e dei grandi fondi internazionali, salvo quel pacchetto di azioni Generali in portafoglio, così strategico perché tale ha continuato ad essere il gruppo assicurativo triestino, unico attore della striminzita finanza italiana capace di avere (ancora, nonostante l’impegno di qualcuno a ridimensionarlo) un ruolo continentale e mondiale. Di conseguenza strategico anche dal punto di vista sistemico, non fosse altro perché ha in gestione qualcosa come 850 miliardi di risorse e custodisce nei propri portafogli l’1,25% del totale del debito pubblico tricolore, 37 miliardi su 3mila.  

Tutto questo spiega il grande interesse che da tempo c’è intorno a Generali, e a Mediobanca quale veicolo per arrivare a mettere le mani sul Leone alato. In particolare, già anni fa ci avevano messo gli occhi sopra due gruppi italiani, quelli facenti capo a Francesco Gaetano Caltagirone e a Leonardo Del Vecchio (ora, dopo la sua morte avvenuta nel giugno del 2022, agli eredi e a due manager, Francesco Milleri che è al vertice di EssilorLuxottica, e Romolo Bardin che gestisce la holding Delfin), tanto diversi tra loro quanto accomunati dal medesimo obiettivo. La loro scalata a Mediobanca e a Generali era però stata stoppata in sede di vigilanza europea, con la motivazione di un dna troppo diversificato e lontano dall’attività bancario-assicurativa per poter ambire ad avere un ruolo di dominio. Con il risultato che anche i tentativi di giocarsi la partita in sede di assemblea di Generali, sperando di conquistare il consenso del capitale diffuso e degli investitori internazionali, sono stati vanificati. E come succede in questi casi, errori di strategia e di comunicazione degli attaccanti che hanno finito con oscurare le loro buone ragioni, si sono aggiunti alle spericolate forzature difensive dei detentori del potere, producendo un gioco a somma negativa sia per gli oggetti del contendere sia per la credibilità del sistema finanziario italiano nel suo insieme.   

E arriviamo alle ultime battute di questa fiction finanziaria. A novembre Banco Bpm insieme alla sua consociata Anima (che nel risparmio gestito amministra un patrimonio di circa 190 miliardi) e al duo Caltagirone-Del Vecchio mette insieme un pacchetto del 15% di Mps, che il Tesoro controlla ma ha interesse a dismettere almeno in parte (per far cassa) e che ora fa gola dopo che la gestione Lovaglio ne ha completato il salvataggio a suo tempo realizzato da quella Profumo-Viola. Ma che bisogno hanno i due gruppi impegnati sul fronte Mediobanca-Generali di aiutare la Popolare di Milano a conquistare Siena? L’unica risposta plausibile è di avere a fianco, nell’unica partita che a loro interessa, un soggetto bancario che costringa la Bce a far cadere i veti posti in precedenza. Immediatamente dopo arriva l’opa di Unicredit su Bpm, che interrompe questo disegno. Non perché l’offerta riesca – è palesemente bassa – ma perché impone per legge la passivity rule, la regola che vieta a chi è oggetto di un’offerta pubblica di mercato di fare qualsiasi operazione di natura straordinaria. Ergo Bpm non può aiutare Caltagirone-Del Vecchio. Era solo o anche questa l’intenzione dell’amministratore delegato di Unicredit, Andrea Orcel? Ovviamente non è dato sapere, e solo vedendo prossimamente se l’offerta su Bpm verrà o meno reiterata si capirà. Ma l’effetto bloccante su Mediobanca-Generali intanto c’è.  

Naturalmente a Trieste più ancora che dalle parti di piazzetta Cuccia a Milano (mi fa strano questa versione della toponomastica, sono rimasto affezionato a quando quello slargo dietro la Scala che ospita la sede di Mediobanca era via Filodrammatici 1) è forte la preoccupazione per le mosse di quei soci che vengono apertamente considerati “nemici”. Così nei giorni scorsi l’amministratore delegato di Generali, il francese (non solo per nascita) Philippe Donnet imbastisce in fretta e furia un’operazione che ha insieme il sapore della sfida e della via di fuga protetta in caso le cose si mettano male per lui: la creazione di una nuova società comune con il gruppo francese (toh, guarda) Natixis che avrà 1.900 miliardi di risparmio da gestire, le cui regole d’ingaggio appaiono penalizzanti per Generali anche agli occhi di chi non abbia alcuna preclusione verso chi la realizza: dalla differenza degli asset apportati (Generali ne conferisce meno ma sono redditizi, Natixis molti di più ma di scarso valore) ai gap nella governance a favore dei francesi. Nel cda della compagnia il piano passa a maggioranza, la forzatura è evidente e sospetta, e induce gli oppositori alla contromossa: far lanciare dalla banca di Siena, d’intesa con il Tesoro (che con l’11,7% è ancora il primo azionista di Mps) e palazzo Chigi, l’opa su Mediobanca che ieri mattina ha svegliato l’Italia che conta facendola cadere dal letto. Se l’adesione all’offerta di scambio fosse integrale, gli scalatori (Mef compreso) si troverebbero ad avere poco meno del 30% di Mps-Mediobanca, e quindi metterebbero le mani sul 13,13% di Generali, che sommato al 9,77% posseduto dal gruppo Del Vecchio e al 6,23% dal gruppo Caltagirone, darebbero loro il controllo del Leone alato, anche in questo caso con una quota complessiva all’intorno del 30%. 

È lo strumento giusto per fermare l’operazione “franco-francese” di Donnet e mettere fine a quella satrapia? In teoria sì. Ma l’offerta il mercato l’ha subito giudicata troppo bassa (tanto che in Borsa i titoli Mediobanca sono saliti e quelli Mps scesi), la comunicazione che ha sorretto il lancio dell’opa e le sue vere finalità è parsa debole e opaca e, soprattutto, è la marchiatura politica ad essere fin troppo evidente e generare imbarazzi. Anche perché s’inquadra in un clima politico non solo già deteriorato di suo per la contrapposizione permanente che caratterizza il nostro sistema politico – è paradossale, più l’opposizione è evanescente e più la maggioranza si divide e il governo lamenta di essere oggetto di ostilità – ma anche avvelenato, in questi ultimi tempi, dagli effetti del dilagante decisionismo trumpista e dal patetico desiderio di imitarlo che sta contagiando molti. Ho osservato per troppo tempo e da vicino il potere per non conoscere quel senso di inebriante onnipotenza che pervade chi lo conquista, o gli sembra di averlo conquistato, specie se ne è stato sempre digiuno. Ora le circostanze hanno messo l’underdog Meloni, in un colpo solo, al cospetto del duo formato dall’uomo più potente e da quello più ricco del mondo, e per di più entrambi dotati di una dose massiccia di tracotanza e spregiudicatezza. È probabile – ma è solo una speculazione deduttiva – che l’aver respirato quest’aria, abbia indotto la presidente del Consiglio a dare il via libera all’operazione su Mediobanca-Generali.  

Sia chiaro, di certo non mancano i motivi per cui un governo, quale che esso sia, debba seguire con grande attenzione ciò che riguarda la più grande e strategica materia prima di cui il Paese dispone, il risparmio. Ci sono 2.500 miliardi degli italiani nei portafogli delle società di gestione del risparmio. Una cifra monstre, peraltro destinata ad aumentare, che consentirebbe di azzerare o quasi l’intero ammontare del debito pubblico. E che se messa al servizio degli investimenti produttivi e quindi della crescita, rappresenterebbe uno strumento decisivo per ribaltare le sorti del Paese. Dunque, cercare di evitare che scoppi la “guerra del risparmio”, di cui proprio non si sente l’esigenza, e preoccuparsi di sapere di quale nazionalità e qualità siano le mani che gestiscono questa straordinaria risorsa, non solo è lecito, è assolutamente doveroso. E siccome le cose camminano sulle gambe degli uomini, per evitare di evocare le buone intenzioni e poi lasciare le cose come stanno, nello specifico guardare dentro Generali – e non da ora – è altrettanto lecito e doveroso, per chi ha una responsabilità istituzionale e quindi sistemica. Ma siamo sicuri che questa operazione, con questi protagonisti, sia il modo giusto per svolgere questo compito? È stato preparato il terreno? Sono state predisposte le necessarie alleanze? E nel caso che chi è (legittimamente) avverso all’operazione, a cominciare dai soci di Mediobanca, sia in grado di sbarrare la strada, è stato predisposto un “piano B”?  

In attesa di avere risposte a queste pragmatiche domande, personalmente comincio a credere di dover dare ascolto alle tante amichevoli sollecitazioni che in queste ore mi stanno giungendo, suggerendomi di tornare a scrivere un nuovo “Gioco dell’opa” dopo quello che nel 2000 (mamma mia, è passato un quarto di secolo!) spiegò, con grande successo, il contraddittorio passaggio dal vecchio capitalismo relazionale di cui Cuccia era il vate, con tutti i suoi limiti, a quello più moderno ma non meno difettoso dei “capitani coraggiosi” inaugurato con la scalata alla Telecom lanciata da Roberto Colaninno e soci con la benedizione dell’underdog della politica di allora, Massimo D’Alema. La storia si ripete?

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Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.