2025, i pericoli per l'Italia
ASSECONDARE LE MIRE IMPERIALI DI TRUMP, SOTTOVALUTARE LA FINE DELL’OCCIDENTE E FREGARSENE DEI DESTINI EUROPEI
di Enrico Cisnetto - 11 gennaio 2025
Ben ritrovati, cari amici di TerzaRepubblica, spero abbiate passato le feste natalizie in serenità e riscaldati dagli affetti famigliari.
Il nuovo anno è iniziato da dieci giorni, ma ce ne vorranno altrettanti perché principi davvero. Il 2025 sarà infatti l’anno della profonda trasformazione delle relazioni tra Stati Uniti ed Europa, architrave fondamentale su cui la nostra vita si è poggiata per ben 80 anni, dal 1945 in poi.
Dal prossimo 20 gennaio, giorno del (re)insediamento di Donald Trump alla Casa Bianca, la nuova era avrà formalmente inizio, anche se ne abbiamo già “goduto” ampie anticipazioni. Non sappiamo esattamente cosa accadrà, ma sappiamo con certezza che i vecchi assetti si modificheranno, e la prima cosa che occorre avere per non essere travolti dal cambiamento, ma possibilmente orientarlo se non guidarlo, è la consapevolezza.
Nello specifico, essere consapevoli, prima di tutto, che verranno meno molte delle “comodità” cui ci eravamo felicemente abituati, probabilmente senza nemmeno averne piena coscienza. Non ci è dato sapere la dimensione e la profondità delle trasformazioni cui saremo chiamati, ma il metodo più utile cui ricorrere in un caso come questo è basato su due semplici principi. Il primo: considerare Trump per quello che è, senza farsi prendere da un senso di preconcetta ostilità se si è tra quelli cui l’uomo non piace (è il mio caso) e, viceversa, senza cullarsi nell’illusione di poterselo fare amico, se verso di lui si nutre simpatia e adesione. Il secondo: prendere in seria considerazione quanto il nostro nuovo interlocutore di Washington ci ha già fatto sapere circa le sue intenzioni, nel corso della campagna elettorale e in questa fase di interregno; se poi l’impatto sarà minore e – auspicabilmente, dico io – meno invasivo, tanto di guadagnato. Ma guai a sottovalutare e minimizzare, restare spiazzati per noi sarebbe devastante.
In attesa di sapere quale sarà, negli atti della nuova amministrazione americana, il dosaggio tra le forzature ideologiche di Trump e il realismo da uomo d’affari quale è e resta, di una cosa possiamo essere certi: come ha scritto Angelo Panebianco, con Trump arriva a conclusione quel processo, iniziato da tempo, di drastica ridefinizione dell’interesse nazionale americano, per decenni declinato in chiave internazionalista (per taluni, non io, imperialista). Solo che fin qui si è immaginato che la nuova declinazione dell’interesse americano sia in chiave nazionalista: gli Usa smettono di occuparsi di quanto accade nel mondo, rinunciando alla leadership fin qui conseguita, e assumono una postura sovranista.
Ma non sembra sia proprio così. Piuttosto, quello che pare delinearsi è un atteggiamento “imperiale” (non imperialista, che prevede un ordine mondiale che in questo caso non si persegue), articolato su più piani. Uno è quello geografico: messo il soft power nel cestino della storia, dopo 125 anni in cui Washington non ha conquistato territori, potremmo assistere a quello che l’ambasciatore Stefanini definisce “il ritorno delle cannoniere” e altri, più soavemente, “l’aggiunta di nuove stelle alla bandiera americana”, cioè l’annessione agli Stati Uniti di territori ritenuti strategici come la Groenlandia (e qui si aprirebbe subito un conflitto con la Danimarca, e quindi con l’Unione Europea), Panama e addirittura il Canada (le dimissioni del primo ministro Trudeau la dicono lunga). Un altro piano è quello geopolitico: aggressione degli interessi globali della Cina e, forse, anche della Russia. In questo senso quella della Groenlandia è questione emblematica: dalle terre rare, decisive per alimentare le nuove tecnologie, alla rotta navale artica, resa praticabile dallo scongelamento dei ghiacciai, quell’isola (la più grande del mondo) è un vero e proprio tesoro. Conquistarla è decisivo, sottrarla all’influenza-ingerenza di cinesi e russi ancora di più. Solo che Trump pensa di farlo militarmente, non generando alleanze (per esempio con l’Europa), e non vi sfuggirà che la differenza non è di poco conto. Infine c’è il piano economico e finanziario su cui si articolano le mire imperiali di Trump: presidio delle tecnologie – anche a costo di moltiplicare ricchezza e potenza, già ora inaccettabilmente sproporzionate, dei pochissimi che le detengono – e controllo del denaro virtuale (non a caso nelle ultime settimane il bitcoin è al record storico sopra i 100 mila dollari) tanto da lavorare alla creazione di una “sua” criptovaluta ancorata al biglietto verde (attraverso la piattaforma World Liberty Financial).
Capite bene che si tratta di qualcosa di molto più invasivo dell’american first su cui Trump ha costruito la sua fortuna elettorale. Perché se tutto questo accadrà, le conseguenze saranno a dir poco devastanti. Due, in particolare, fortemente correlate tra loro. La prima è la scomparsa, sul piano culturale ma anche e soprattutto su quello pratico, del concetto di “mondo occidentale” e degli assetti geopolitici che ha generato nel corso dei decenni. La seconda è la crisi, che rischia di essere definitiva, del Vecchio Continente, che già si appresta divisa, fragile e avvitata sulle sue debolezze all’impatto con la politica imperiale trumpista, e che potrebbe non reggere l’urto in virtù del venir meno di quella solidarietà occidentale di cui si è avvalsa a piene mani, e persino con riprovevole ingratitudine. Il mio amico Panebianco spera (si illude?) che alla fine Trump finirà per far buon viso ad un’Europa incapace di reggersi sulle proprie gambe, magari giocando di sponda con qualche interlocutore continentale più ben disposto verso di lui per lucrare qualche vantaggio di business (anche personale). Non fosse altro perché un’Europa in ginocchio non conviene a Washington, non fosse altro per non dare punti di vantaggio a Pechino (e, almeno in parte, a Mosca).
Può darsi che le cose vadano in questo modo: non ne sono affatto sicuro, ma se anche fosse, ci sarebbe da domandarsene la reale convenienza per noi (italiani). Perché per quanto si possano lucrare vantaggi bilaterali – peraltro tutti da valutare – i danni derivanti dal crollo del sistema comunitario nell’ambito di un più generale venir meno dell’alleanza atlantica, sarebbero di gran lunga maggiori. Ed è proprio su questo punto del calcolo “costi-benefici” circa un rapporto privilegiato (o presunto tale) con la Casa Bianca distinto e distante da quello tra Bruxelles e Washington che dovrebbe articolarsi il nostro dibattito politico nazionale, che invece – ahinoi – risponde al solito schema del conflitto permanente. E anche quando, caso più unico che raro, la contrapposizione viene messa tra parentesi – come è stato nel caso del plauso unanime per la liberazione di Cecilia Sala – si commette l’errore opposto, annegare nel conformismo quegli elementi di valutazione critica che invece sarebbe essenziali considerare (nello specifico il prezzo che dovremo pagare al via libera di Trump alla non estradizione, e poi alla scarcerazione, dell’iraniano Mohammad Abedini, l’uomo che custodisce i segreti dei droni kamikaze di Teheran, evidente contropartita del rilascio della giornalista italiana).
Anche perché, in questa analisi, andrebbero considerati i pro e i contro dell’altra faccia della medaglia del rapporto privilegiato con la Casa Bianca: il rapporto ancor più privilegiato con Elon Musk.
È ormai evidente che Giorgia Meloni abbia affidato al controverso uomo più ricco del mondo le sorti del rapporto con Trump e di conseguenza del suo ruolo di “pontiera”. È stata abile, ma usando più la furbizia che l’intelligenza rischia di commettere due opposti errori. Il primo è di sopravalutazione del ketaminico imprenditore, che genialmente Dagospia ha ribattezzato “Musk-alzone”, circa gli equilibri che si vanno formando tra lui e il presidente. In questo senso, se già non lo ha fatto, le andrebbe consigliato di leggere l’intervista rilasciata al Corriere della Sera da Steve Bannon, il trumpista della prima ora (fedele fino al punto di finire in carcere) ora megafono del movimento Maga (Make America Great Again), che la presidente del Consiglio conosce bene per averlo voluto ospite alla festa di Atreju di Fratelli d'Italia del 2018. “Musk pensa solo ai suoi affari, va tenuto fuori dalla Casa Bianca e va respinto il suo tecno-feudalesimo globale”. Parole come pietre quelle di Bannon: non sappiamo se Trump le ascolterà e fino a che punto – comunque si susseguono le indiscrezioni giornalistiche americane circa una crescente irritazione del presidente per l’invadenza di Musk – ma certo aver messo tutte le fiches sull’inventore della Tesla rischia di rivelarsi azzardato. Perché a Trump certo non piace dividere potere e prerogative con chicchessia, e perché da giocatore d’azzardo qual è, sa bene che i vantaggi li ha già intascati (il mega finanziamento della sua campagna elettorale) e ora nel rapporto con il magnate è solo il momento degli svantaggi. Nello stesso tempo da parte di Meloni andrebbe evitato un parallelo errore di sottovalutazione delle conseguenze che l’offensiva politica lanciata su scala globale da Musk attraverso il suo social media X – specie l’endorsement a favore dei neo-nazisti di Afd nella campagna elettorale tedesca – è destinata a produrre. Se ne è avuto un assaggio giovedì 9 gennaio alla prima riunione dei 27 paesi europei sotto la presidenza di turno polacca, mentre cresce la diffidenza della Commissione Ue e delle principali cancellerie continentali verso il movimentismo atlantico meloniano del tutto scollegato da una condivisione comunitaria, che invece sarebbe indispensabile costruire mentre si va alla rinegoziazione delle regole d’ingaggio del rapporto Usa-Ue. E peraltro, Meloni non può vantare quarti di nobiltà quanto ad europeismo.
Il passaggio è tanto delicato quanto complesso. Meloni leader politica della destra italiana ed europea ha interesse a praticare il trumpismo, anche se sarebbe più coerente con il suo passato sovranista che con il suo presente, tempo in cui si sforza – non sempre riuscendoci – di apparire se non di essere moderata, in marcia verso il Ppe e disposta, seppure tardivamente, a votare von der Leyen. Ma Meloni presidente del Consiglio – ed è la dimensione che interessa tutti – deve ragionare nell’ottica dell’interesse del Paese, il quale non può che essere quello di favorire l’integrazione europea, unica nostra via di salvezza. Capisco che si tratti di un lavoro faticoso, tanto più in una fase in cui sono in crisi Francia e Germania e di conseguenza l’asse franco-tedesco. Anche perché fin qui agli europei non è sembrato vero pensarsi minorenni per godere dei vantaggi di una generosa patria potestà. Ma barattare l’integrazione comunitaria per una “alleanza speciale” con l’America imperiale di Trump, peraltro presunta, proprio mentre viene meno l’ordine internazionale nel quale ci siamo accoccolati negli ultimi 80 anni, sarebbe un errore esiziale per l’Italia.
Spero che il nascente 2025 non ci porti in dote questa sventura. Incrociamo le dita e buon anno.
L'EDITORIALE
DI TERZA REPUBBLICA
Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.