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L'editoriale di TerzaRepubblica

Il centro è una chimera?

AUTONOMO DA DESTRA E SINISTRA. IL FALLIMENTO DEL BIPOLARISMO E I TANTI ASTENUTI CONSAPEVOLI GLI OFFRONO UNO SPAZIO ENORME. MA…

di Enrico Cisnetto - 07 dicembre 2024

Mentre il Censis ci conferma che siamo affetti da una “sindrome da galleggiamento” che ci rende impotenti, non a caso si moltiplicano gli interrogativi sul Centro, inteso come forza non schierata né con la destra né con la sinistra che potrebbe ridare speranza ad un paese sfiduciato la cui unica reazione sembra essere l’astensione elettorale. Ma parimenti sembra crescere lo scetticismo circa la possibilità che una forza capace di sparigliare il sistema politico prenda forma. In particolare, c’è chi considera la pratica archiviata a seguito del fallimento del Terzo Polo, e chi invece pensa che si tratti di una chimera, vuoi perché il “moderatismo” è una piattaforma troppo fragile per poterci costruire sopra una forza che non sia destinata alla marginalità, vuoi perché la componente maggioritaria della legge elettorale, anche se pesa solo per un terzo del totale, impedisce ad una forza non collocata nello schema bipolare di giocare ad armi pari con chi invece fa parte di uno dei due poli. L’ultimo ad esprimere questo scetticismo è stato il mio amico Stefano Folli, cui certo per storia e pensiero non manca la simpatia per il “terzismo” e a cui non sfuggono i motivi di critica verso le storture del bipolarismo all’italiana (degenerato in bipopulismo) e la forzosa radicalizzazione verso sinistra e verso destra del sistema politico. E prima di lui si era arreso all’ineluttabilità del bipolarismo, schierandosi a sinistra, il direttore de Linkiesta, Christian Rocca, deluso dai due galli nel pollaio, Calenda e Renzi. E molti altri che preferiscono provare a rafforzare chi il centro del centro-sinistra, chi il centro del centro-destra.

Capisco le ragioni di tale diffidenza e pessimismo, ma credo che difettino di un presupposto di partenza. Di solito si discute se il bipolarismo sia o meno un dato di fatto, e chi pensa che lo sia – il giudizio è condensato nella frase: “è entrato nella testa degli italiani, che si sono abituati a stare o di qua o di là e non accettano chi non si schiera” – ne prende atto, magari a malavoglia, e considera ineluttabile adeguarvisi. Io penso, invece, che occorra fare un passo indietro e partire dalla condizione di declino strutturale del Paese. Inquadrandolo storicamente, si evince che esso ha preso corpo tra la fine degli 80 e l’inizio degli anni 90 del secolo scorso, cioè in un momento caratterizzato dalla caduta del Muro di Berlino e la fine del comunismo organizzato (1989), dalla nascita dell’Unione Europea a seguito della firma del Patto di Maastricht (febbraio 1992), dall’avvento della globalizzazione e della prima fase della rivoluzione tecnologica (Internet diventa liberamente accessibile a tutti nell’aprile 1993) ma soprattutto dalla non casuale caduta della Prima Repubblica (1992) e l’avvento della Seconda (1994). Da quel momento tutti i principali indicatori che misurano lo stato di salute del Paese hanno cominciato a segnalare un progressivo decadimento, sia nei confronti di noi stessi rispetto ai decenni precedenti sia in relazione all’andamento degli altri paesi a noi comparabili, europei e occidentali. Dunque, è storicamente accertato che il sistema bipolare, generato dalla scelta di passare dal proporzionale al maggioritario sancito con il referendum Segni (giugno 1991), porti la responsabilità del declino italiano, che in parte ha generato e in parte non ha saputo fermare.

Dunque, una forza che si dichiari terza ha senso nella misura in cui basa la sua esistenza sull’analisi che vi ho appena proposto e sulla conseguente denuncia del fallimento del bipolarismo. Ma partendo da questo assunto è del tutto evidente che, salvo contraddirsi, non può fare da stampella all’uno o all’altro dei due poli per il solo fatto che la legge elettorale la penalizza. Nello stesso tempo, questa forza deve lavorare per costringere i riformisti del centro-sinistra e i moderati europeisti del centro-destra a confrontarsi ed incontrarsi, cosa che si può fare muovendosi sul terreno dei contenuti per dimostrare che su questi la loro convergenza è assai più alta di quella che si realizza nelle rispettive coalizioni, tenute insieme (male) solo sul piano degli schieramenti.

E qui, di solito, scatta l’obiezione in nome del realismo: non c’è il consenso sufficiente. Non sono d’accordo. Partiamo col dire che lo spazio politico c’è, eccome se c’è. Una prateria. Chiaramente va occupato e trasformato in voti, e non è così automatico. Ma il segreto sta nell’evitare di tentare di rubacchiare qualche voto alle altre forze politiche, quelle che si dividono il consenso degli italiani che ancora vanno a votare, e che ormai sono scesi al 50%, e di concentrarsi fondamentalmente sull’altra metà, quelli che si astengono, e segnatamente chi non vota perché non si riconosce nell’offerta politica esistente, non perché affetto da qualunquismo e indifferenza. Perchè rifiuta di sostenere partiti (faccio fatica a chiamarli così) privi di idee, di retroterra culturale, di bagaglio programmatico, di classe dirigente all’altezza della complessità dei problemi; perché considera insopportabile la polarizzazione forzosa e il linguaggio che la anima, insieme causa e conseguenza di quella indigeribile contrapposizione estrema che viene messa in scena quotidianamente. È quella che io chiamo “astensione consapevole” e ne è protagonista l’Italia migliore, non la peggiore. Quanto vale? Non esagero se dico oltre la metà del popolo degli astenuti, tra il 25% e il 30%.

È questi italiani che occorre (ri)coinvolgere, parlando loro con il linguaggio della cruda verità nel raccontare le cose come stanno e del coraggio nel proporre soluzioni. Partendo dall’assunto che il maledetto bipopulismo di cui siamo diventati prigionieri è la causa del loro astensionismo, a questo popolo di scoraggiati e disillusi va presentata una proposta politico-programmatica originale e coraggiosa, come deve essere la terapia del medico che non si limita a curare i sintomi. Quale? Non vorrei sembrarvi presuntuoso, ma basta sfogliare la collezione di TerzaRepubblica, che ha ormai raggiunto i 30 anni, per distillarne una efficace. Qui, per brevità e per non ripetermi, vado solo per titoli.

Partendo dalla premessa che prima di tutto vanno affrontati la crisi del sistema politico e il deterioramento degli assetti istituzionali, la prima e prioritaria idea forte di un nuovo soggetto politico liberal-riformista è la convocazione di una nuova Assemblea Costituente, con la quale ridisegnare l’architettura istituzionale della Repubblica. A cominciare dalla semplificazione del decentramento amministrativo: si prenda atto del fallimento delle Regioni e dell’oblio delle vecchie Province, abolendole a favore di macro-province (la Società Geografica Italiana ne propone 36), con il trasferimento della sanità allo stato centrale; si istituisca un tetto minimo di 5 mila abitanti per i Comuni (oggi il 70% è sotto) e si riveda totalmente mappa e funzioni delle istituzioni di grado inferiore. Insomma, la prima cosa è controriformare il titolo V, altro che avventurarsi nella folle autonomia regionale di cui si vagheggia.

Inoltre, occorre costituzionalizzare la legge elettorale, rendendo compatibile la rappresentanza, che richiede il proporzionale, con la governabilità, che si realizza con lo sbarramento (5% e diritto di tribuna) e non i premi di maggioranza, che sono un’aberrazione. E armonizzando le modalità di voto per le politiche con quelle per le amministrative (oggi c’è una babele che persino i cittadini delle diverse Regioni votano in modo differente). L’obiettivo deve essere quello di costruire un sistema politico che sia ancorato al centro e non sulle estreme, come invece è ora. Poi, nella nostra Carta va inserita l’Europa, che all’epoca non era materia per i padri costituenti. Nel farlo va chiarito che la stella polare deve essere la costruzione degli Stati Uniti d’Europa. Un’Europa che nel suo insieme manifesti la solidarietà atlantica senza subalternità e nella speranza che anche al di là dell’oceano ci sia altrettanto interesse. Nella consapevolezza che le democrazie occidentali devono saper ridefinire un nuovo ordine internazionale, devono ritrovare il senso dei valori che le rendono differenti dalle autocrazie – colmando il gap chela verticalizzazione dei processi decisionali tipica dei sistemi illiberali produce rispetto a chi deve mediare con le opinioni pubbliche – e devono ridare prestigio e credibilità alle istituzioni rappresentative e ai corpi intermedi, il cui declino riduce e mortifica la partecipazione dei cittadini alla vita politica e sociale.

In economia, una forza che sia insieme liberale e riformatrice non può che ancorarsi ad una visione liberal-keynesiana dello sviluppo – e tra i due termini di questa liaison non c’è affatto contraddizione, anzi – sapendo che l’obiettivo numero uno, la crescita del trinomio pil-produttività-competitività, può essere centrato solo alle seguenti condizioni: maggiore libertà del e nel mercato (concorrenza); piena adesione, culturale e pratica, alla rivoluzione tecnologica in atto, con la conseguente modernizzazione dell’intero sistema paese; riduzione del debito pubblico non inseguendo la chimera della gradualità ma in modo strutturale, attraverso la valorizzazione del patrimonio mobiliare e immobiliare dello Stato e degli enti locali; riqualificazione della spesa pubblica, con una riduzione della spesa corrente improduttiva a favore di investimenti in conto capitale, messi al servizio di una politica industriale per settori e non solo per fattori e un gigantesco piano di ammodernamento infrastrutturale.

Ci sarebbero da aggiungere tanti altri capitoli al libro di proposte che va scritto, a cominciare da una vera riforma della giustizia in senso pienamente garantista, ma mi dilungherei troppo. Quello che deve essere chiaro è che va scritto un manifesto politico-programmatico che riscuota l’adesione delle tante personalità che animano la società civile ma che la politica della rissa tiene lontane dall’impegno attivo, intorno a cui articolare una forza politica plurale, moderna, senza padroni. Riuscirci non è cosa semplice, anche perché qualcuno ha già buttato via l’occasione. Per esempio, i due galletti Calenda e Renzi, che hanno sbagliato non solo e non tanto perché non hanno voluto condividere il pollaio, ma prima di tutto perché entrambi vogliono il loro partitino personale, senza capire che proprio questa deriva è una delle ragioni della crisi della politica. Altri ci stanno genuinamente provando, come l’amico Marattin e il suo tentativo di creare un partito liberaldemocratico, anche se con qualche compagno di strada e qualche eccesso liberista di troppo. Ma di una cosa sono assolutamente convinto: senza un manifesto di idee, valori e programmi e senza una grande mobilitazione delle coscienze migliori non si va da nessuna parte, e il Centro è destinato a restare una chimera.

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Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.