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L'editoriale di TerzaRepubblica

L'ora dei riformisti

LE DIVERGENZE A DESTRA, DIVISIONI E  INCOMPATIBILITÀ A SINISTRA. I RIFORMISTI FACCIANO SENTIRE LA LORO VOCE

di Enrico Cisnetto - 30 novembre 2024

Le frane iniziano con una pietra che cade, cui ne seguono altre sempre più grosse fino a procurare un vero e proprio smottamento. È quel che accade nella dissestata politica italiana, su tutti i fronti. Naturalmente fanno più scalpore i sassi che quotidianamente si staccano dalla coalizione di maggioranza, non così granitica come pretende di far credere. Una slavina continua accompagnata da un rumore di fondo sempre più fastidioso, che ha persino indotto il presidente della Repubblica, in un pranzo al Quirinale con la presidente del Consiglio, a invocare “toni più bassi”. L’elenco delle divergenze, delle fughe in avanti, delle ripicche e delle ingiurie si è fatto lungo, fino al voto di Forza Italia insieme con il Pd contro la mossa sul canone Rai ad opera di Salvini, definito “paraculetto” dai forzisti.

Ora, ha ragione (come sempre) il mio amico Marco Follini quando sostiene che la dialettica è il sale della democrazia e che le coalizioni non sono caserme. Ma ne ha ancora di più quando aggiunge che si dovrebbe evitare di dividersi sulle cose cruciali, in primis la politica estera, e su tutto il resto tollerare – o addirittura considerare segno di ricchezza democratica – i distinguo. Notando che, invece, accade proprio il contrario: si fa finta di niente su divergenze inaccettabili e si pretende la consonanza su questioni marginali ma di bandiera. Così ci si ritrova una maggioranza di governo al cui interno convivono una linea sinceramente europeista e occidentale con una euroscettica, sovranista e più o meno apertamente filo-putiniana, talmente inconciliabili che fanno spazio ad una area grigia in cui nidifica una terza posizione, quella dell’ambiguità. Ma qui non siamo alle accuse e vendette reciproche sullo ius scholae piuttosto che sull’uso del golden power per bloccare l’operazione Unicredit-Bpm, per dire solo degli ultimi screzi. No, sul terreno del posizionamento internazionale del Paese non è lecito andare ciascuno per conto proprio. Meloni ha accusato il Pd di non appoggiare con sufficiente chiarezza la nomina di Fitto a vicepresidente esecutivo della Commissione Ue, ma che dire degli europarlamentari leghisti che al “governo Von der Leyen”, e quindi anche a Fitto, hanno votato contro? Come si possono tollerare i distinguo sull’appoggio all’Ucraina, seppure mascherati sotto le mentite spoglie del “noi vogliamo la pace” – perché, c’è qualcuno che non la desidera? – o le fughe in avanti su Trump prima ancora che fosse rieletto?

La verità è che la tanto sbandierata “compattezza del centro-destra” nasconde non solo e non tanto sensibilità e ambizioni diverse – che sono del tutto fisiologiche e per certi versi salutari – ma visioni inconciliabili su questioni cruciali e dirimenti, che rappresentano invece una patologia. Che diventa sistemica quando a soffrire della stessa malattia è anche l’altro polo del nostro sgangherato bipolarismo. Perché se Atene piange, Sparta non ride. Il centro-sinistra, infatti, è da sempre un passo oltre la linea che segna il confine tra una dialettica fisiologica in una coalizione plurale, e una patologica che marca differenze su questioni che non dovrebbero essere negoziabili. Con un’aggravante: che la frattura divide lo stesso partito guida della coalizione. Come se non bastasse quanto il Pd ci ha fatto vedere nel corso del tempo, il voto di giovedì sull’Ucraina, a Strasburgo, certifica che le spaccature nel mondo dem non sono né accettabili né ricomponibili, se solo si ha un minimo di dignità politica. Su una mozione, approvata dall’Europarlamento con il decisivo voto del gruppo dei Socialisti e Democratici (di cui il Pd è la delegazione più numerosa), che prevede il sì all’uso delle armi a lunga gittata fornite a Kiev anche in territorio russo contro le basi militari da cui partono gli attacchi agli ucraini, il partito di Elly Schlein è riuscito ad esprimere ben tre posizioni: il voto favorevole dei riformisti doc, quello contrario dei “pacifinti” e quello cerchiobottista della maggioranza schleiniana guidata dai “riformisti intermittenti” Zingaretti e Bonaccini, che hanno alternato i no e sì sui singoli articoli della mozione, guardandosi bene dal votare i punti più qualificanti.

Ma questa stessa differenziazione di posizioni, con l’aggravante che in questo caso, per acquiescenza passiva, Schlein e i massimalisti stanno dalla stessa parte senza significative distinzioni, si produce anche di fronte alle intollerabili forzature di Maurizio Landini, di linea e nei toni. Prima il segretario della Cgil ha chiamato la piazza alla “rivolta sociale” – possibile che dagli anni di piombo non si sia imparato che le parole vanno soppesate? – poi in occasione dell’inutile e inopportuno sciopero generale, indetto prima ancora che il Parlamento voti la manovra di bilancio oggetto degli strali sindacali, ha promesso di voler “rivoltare il Paese come un guanto”. Avete forse ascoltato qualche voce dissenziente proveniente dai Democrat di fronte a queste forzature massimaliste? No. Così, nel vuoto pneumatico di proposte che non siano una lista della spesa (pubblica) senza mai indicarne la copertura, il Pd consegna a Landini la leadership di fatto della sinistra, riducendo la politica economica alla sola questione sociale. E la cosa non è di poco conto, se si considera che nella gerarchia delle questioni non negoziabili, la politica economica viene solo un’incollatura dopo la politica estera e di difesa. Se poi i temi discriminanti si sommano, allora ci riconsegnano un Pd sostanzialmente populista, seppure con modalità più composte rispetto ai pentastellati e meno radicali se confrontate con quelle del duo Bonelli-Fratoianni.

E in tutto questo i riformisti? Giorgio Gori in un dibattitto all’interno del sempre interessante Festival de Linkiesta, ha ammesso che la loro voce è troppo flebile e che ci vuole più coraggio. E l’ottimo Lorenzo Guerini nella stessa circostanza ha lasciato intendere che non tollererà un ulteriore scivolamento a sinistra del Pd sui temi discriminanti. Bene, ma quando vi decidete a far sentire la vostra voce, ad aprire un dibattito interno al partito, a chiedere un congresso a tesi sulla linea politica e su una vera proposta di governo? Se Schlein è ormai più vicina a Marco Tarquinio e Cecilia Strada invece che ai socialisti europei, cosa aspettate a contrapporre in modo non occasionale ma organizzato una posizione più “occidentale” sui temi internazionali e più liberal-keynesiana su quelli economico-sociali? Certo, oggi la segretaria armocromatica sembra essersi rafforzata, tanto che attrae a sé anche chi non l’aveva sostenuta alle primarie o che addirittura chi è fuori dal partito, come il manovriero Matteo Renzi. Ma tutto questo, semmai, a maggior ragione deve indurre la minoranza a organizzarsi come vera e propria componente, con tanto di struttura e leadership. Per fare tre cose: lanciare un programma di governo che riempia i vuoti (enormi) lasciati dal gruppo dirigente che guida il partito; fare da sponda alle forze esterne al Pd, il tanto evocato e poco praticato “centro” del centro-sinistra; interloquire con i moderati del centro-destra, aiutandoli nel loro fronteggiare le componenti nazional-populiste, specie sul terreno europeo. Aprire un dialogo serrato con Forza Italia taglierebbe la strada a quello che Schlein ha aperto con Conte, da cui il Pd ha tutto da perdere e niente da guadagnare, anche nella versione in cui l’avvocato del popolo sia costretto ad una posizione subordinata.

A proposito, va assolutamente colta l’occasione offerta dalla fine del grillismo. Non perché il non ancora partito 5stelle in mano a Conte sia politicamente più maneggevole del fu movimento fondato da Beppe Grillo, quello del limite dei due mandati che garantiva che il quoziente di intelligenza politica dei parlamentari grillini si mantenesse il più possibile vicino alla zero in nome dell’uno vale uno e del fatto che competenza ed esperienza sono un disvalore. Ma perché si certifica la fine della stagione del vaffa, quella che ha consentito ai 5stelle di arrivare al 33% e diventare partito di maggioranza relativa. Questo significa che la qualunquista pulsione anti-politica che ha pervaso il Paese si è finalmente afflosciata, per la sua inconcludenza ma soprattutto per la rapida conversione ai privilegi di chi l’ha cavalcata, che ha provocato un salutare crollo dei consensi. Ma se, come ha scritto Stefano Folli, non può esistere un “grillismo” senza Grillo, è tutto da dimostrare che possa avere successo un “contismo” sotto lo scettro di un avvocato di cui si fatica a percepire il pensiero, ieri “avvocato del popolo” populista e sovranista per sua stessa ammissione, e oggi progressista che si pretende alla sinistra del Pd ma guarda a Trump e strizza l’occhio a Putin. Eppure, a sinistra, quella del campo largo che più largo non si può, è subito partita la stesura dei tappeti rossi. È bastato che Conte dicesse “è ora di sporcarsi le mani”, cioè possiamo e dobbiamo fare alleanze, che Fratoianni ha lanciato l’idea di un patto, non si capisce se addirittura federativo, con Alleanza Verdi-Sinistra, mentre nel Pd è tornata in auge la linea che vede in Conte “il fortissimo punto di riferimento dei progressisti”. Una linea urticante per i riformisti, appunto, mentre basterebbe far emergere tutte le ambiguità di Conte per costringerlo ad un’equidistanza tra destra e sinistra che ne decreterebbe la fine per mancanza di contenuti (su questo si veda la War Room di martedì 26 novembre, qui il link).

Ce la faranno i riformisti a spingere il Pd a fare a meno di Conte? Per rafforzarne lo spirito, consiglio loro, ma a chiunque voglia fare una lettura interessante, l’ultimo libro di uno degli intellettuali più rigorosi della sinistra italiana, l’88enne Massimo L. Salvadori: “Se socialdemocrazia è una malaparola. Le sei Caporetto della Sinistra italiana (1919-2022)”, pubblicato da Donzelli editore. Egli sostiene che nelle sue molteplici incarnazioni la sinistra è stata invariabilmente respinta dalla guida del Paese per via di una costante “separatezza” dalla maggioranza degli italiani, superabile solo se si deciderà ad assumere la fisionomia di una forza riformista autenticamente socialdemocratica. Già. Peccato che il quadro sia assai diverso. Dopo le elezioni regionali in Emilia-Romagna e Umbria, si è detto con tanto di uso di fanfara che il Pd è in crescita – percentualmente sì, in termini assoluti no – e che i rovesci elettorali dei 5stelle uniti alla spaccatura tra Conte e Grillo prodottasi al loro interno, ne fanno un alleato agnellino e non più lupo come fino a poco tempo fa. Deducendone che finalmente l’alternativa al centro-destra c’è ed è in grado di competere per la conquista di palazzo Chigi. Ammesso e non concesso che sia così – il rischio è un’altra delle Caporetto evocate da Salvadori – comunque mi domando quale vantaggio avrebbero gli italiani a togliersi dai piedi un polo disastrosamente e insopportabilmente disomogeneo per sostituirlo con un altro portatore degli stessi difetti congeniti. Un ragionamento che in molti hanno fatto, se è vero, come io credo sia profondamente vero, che nel 50% di astenuti diventato ormai il benchmark delle elezioni più recenti si annidino tanti cittadini tutt’affatto qualunquisti, ma che sono stanchi di questa polarizzazione sbagliata e di conseguenza rifiutano un’offerta politica che ritengono incongrua.

Ecco perché il vero nodo da sciogliere è il superamento di questo sistema politico trappola, ed ecco perché una terza forza che lo disarticoli è indispensabile. Ma di questo parliamo nella TerzaRepubblica di sabato prossimo.

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Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.