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L'editoriale di TerzaRepubblica

Regionali, vince l'astensione

L’ASTENSIONISMO VINCE E RENDE MALATA LA DEMOCRAZIA. MELONI E SCHLEIN NE PRENDANO ATTO E SUPERINO IL BIPOPULISMO

di Enrico Cisnetto - 23 novembre 2024

Premessa: se fossi un cittadino emiliano-romagnolo alle elezioni regionali di una settimana fa avrei votato senza indugio alcuno il candidato del centro-sinistra Michele De Pascale, eletto con il 56,7%, mentre se fossi umbro mi sarei astenuto, evitando di dare la preferenza sia a Stefania Proietti, che è stata eletta con il 51,1%, sia alla presidente uscente di centro-destra Donatella Tesei. Faccio questo outing per dire che con il mio comportamento avrei azzeccato entrambi i veri risultati di questa tornata amministrativa: l’indubitabile vittoria del centro-sinistra, confermatosi in Emilia-Romagna e tornato ad affermarsi in Umbria; la più che riconfermata posizione maggioritaria del partito dell’astensione.

L’ormai ex sindaco di Ravenna, De Pascale, come gli ho detto personalmente nel complimentarmi per la sua elezione, è un esempio – purtroppo raro e per questo ancor più prezioso – di riformista pragmatico, mai incline sia alla vulgata populista che a quella massimalista. Ha gestito la questione del rigassificatore ubicato dalle sue parti, e più in generale degli insediamenti energetici, trivellazioni comprese, scevro da ogni indulgenza nei confronti dell’ideologismo ambientalista. Ha sposato da garantista e da amministratore locale che conosce le storture dello stato di diritto, la riforma Nordio dell’abuso d’ufficio, senza timore di apparire eretico agli occhi dei vertici del suo partito. Ha invocato, come linea di partito, e praticato, per quel che gli competeva, la politica dello sviluppo guardando alle imprese e al mercato, difendendo le ragioni dei lavoratori senza dar retta alle parole d’ordine del suo corregionale Landini, dall’avversione al Job Act – che lui, contrariamente a Elly Schlein, ha sempre difeso – alla chiamata alla “rivolta sociale”. Insomma, quello che un tempo avremmo definito un socialdemocratico. E di cui il Pd avrebbe disperatamente bisogno. Tutto il contrario, per esempio, della candidata piddina alla regione Umbria, che si caratterizza per una posizione ultraconservatrice sui diritti civili e ha un profilo politico sovrapponibile a quello del neo eletto parlamentare europeo, il pacifista (a senso unico) Marco Tarquinio. Hanno vinto entrambi, ma per il Pd fa una bella differenza disporre di una classe dirigente somigliante all’uno o all’altra.

In entrambi i casi, i due nuovi presidenti regionali hanno vinto male. Nel senso che in Emilia-Romagna ha votato il 46,4% degli aventi diritto, con un calo di 21 punti rispetto al 2020, quando si arrivò al 67,2%. Questo vuol dire che su 3 milioni e 570 mila aventi diritto, si sono recati alle urne solo 1 milione e 600 mila cittadini, per cui De Pascale stravince percentualmente, ma con soltanto 922 mila schede a suo favore, cioè appena un quarto dei voti potenziali. Un numero troppo basso per godere appieno della spinta del consenso popolare, come lui stesso ha subito ammesso, mostrandosene giustamente preoccupato. In Umbria stessa storia: ha votato poco più del 52% degli aventi diritto, mentre alle regionali precedenti l’affluenza era stata del 64,74%. Un calo di oltre 12 punti percentuali che, tradotto in numeri assoluti, ci dice che la Proietti è diventata presidente con 182.396 voti su 701.367 possibili, cioè appena il 26%, ben 73 mila in meno rispetto al consenso con cui la Tesei fu eletta nel 2019. In entrambi i casi il Pd è risultato di gran lunga il primo partito, e per questo è subito partita la fanfara, ma rispetto a 4 anni fa in Emilia-Romagna ha perso ben 110 mila voti e in Umbria si è fermato a 93 mila voti, 62 mila in meno. Peggio ancora è andata alla Lega, che stavolta ha preso meno di 25 mila voti, l’84% in meno dei 155 mila con cui 5 anni fa si affermò come primo partito. Ma tutti i partiti hanno perso voti, chi più chi meno. Come era già accaduto a febbraio 2023 nelle due elezioni regionali più importanti, quando l’affluenza era miseramente crollata al 41,6% in Lombardia e al 37,2% nel Lazio, rispetto al 73,8% e al 66,5% di cinque anni prima.

Sia chiaro, non si tratta di un problema di legittimità – i risultati ottenuti sono ineccepibili sul piano della forma – ma di rappresentatività reale. Si può governare con questi numeri? Sì, è perfettamente legittimo. Si può governare bene con un grado così basso di rappresentatività? Diciamo che il dubbio è altrettanto legittimo, perché avere la maggioranza nei consigli regionali è condizione necessaria ma non sufficiente, se poi la stragrande maggioranza dei cittadini del territorio che amministri sono indifferenti, quando non ostili. A maggior ragione questo vale quando si sale alla rappresentanza nazionale ed europea. Insomma, l’asticella della legittimazione democratica si è drasticamente abbassata, e rende gli eletti politicamente orfani di un elettorato che non sente più il bisogno di recarsi alle urne, probabilmente perché lo ritiene un esercizio inutile. Ed è un fatto preoccupante, non fosse altro perché il trend dura da un paio di decenni, di cui maggioranze e minoranze dovrebbero occuparsi in egual misura, anziché lanciarsi nelle solite stucchevole dichiarazioni di circostanza.

Invece, ad ogni elezione l’attenzione sul livello dell’astensionismo di solito dura il tempo che intercorre tra il primo exit poll e i risultati finali, poi si passa al “io ho vinto, tu hai perso” e dell’affluenza ci si dimentica. E anche quando si va oltre, il dibattito sfocia in una ricerca di cause decisamente marginali quando non autoconsolatorie: elezioni poco competitive con risultati scontati; candidati di scarso appeal; campagna elettorale moscia; circostanze specifiche disincentivanti (come l’alluvione in Romagna); tendenza non dissimile anche in altri paesi, della serie mal comune mezzo gaudio. Questioni anche fondate, ma che non mettono a fuoco la vera ragione di fondo della decrescente partecipazione degli italiani: il fallimento del sistema politico, che genera disaffezione e disillusione. Cui, per lo specifico delle elezioni regionali, che hanno il primato della minore affluenza rispetto a tutte le altre consultazioni, si aggiunge un altro motivo strutturale: la sonora e inappellabile bocciatura da parte dei cittadini delle Regioni, un livello di decentramento amministrativo di cui si potrebbe fare a meno e ci si vorrebbe liberare.

Inoltre, ho l’impressione che si ignori il profilo dell’astenuto tipo. Sono convinto che con l’affermazione grillina del 2013 il serbatoio del non voto si sia svuotato della storica componente qualunquista, che solleticata dal “vaffa” è corsa alle urne per votare i 5stelle di Grillo e Casaleggio, e via via si sia riempita di una massa di persone che non si riconosce nell’offerta politica non per disinteresse ma un preciso e ragionato rifiuto dei partiti personali privi di classe dirigente all’altezza della complessità dei problemi, della polarizzazione forzosa che essi generano e del linguaggio che viene usato, insieme causa e conseguenza di una insopportabile contrapposizione estrema. È quella che io chiamo “astensione consapevole” dell’Italia migliore, e che contrariamente al prof Salvatore Vassallo, direttore dell’Istituto Cattaneo, io considero assolutamente maggioritaria all’interno di quella metà di aventi diritto al voto che restano a casa. Ma Vassallo ha ragione quando paventa il rischio che l’astensione possa favorire l’emergere di leader illiberali. Ma non perché gli astenuti possano diventare la base elettorale di queste proposte – è successo con i 5stelle, è vero, ma ora per fortuna mi pare che quella bolla si stia velocemente sgonfiando – quanto perché nell’altra metà dei cittadini, quella dei votanti, trovano spazio le suggestioni populiste più estreme. Ferruccio De Bortoli rileva la contraddizione tra una discussione infinita su possibili soglie di maggioranza oltre le quali far scattare un premio che si presume assicuri maggiore governabilità, e il silenzio che circonda il tema di un’eventuale soglia minima di partecipazione al voto, al di sotto della quale considerare inefficace la rappresentatività. Francamente non credo si possa immaginare di andare al di là dell’articolo 48 della Costituzione, secondo il quale “il voto è dovere civico”, né tantomeno si debba ripristinare la sanzionabilità del non voto come nel secolo scorso, quando peraltro non ce n’era alcun bisogno perché l’esistenza dei partiti di massa assicurava un’affluenza elevatissima.

Detto tutto questo, Giorgia Meloni farebbe un grave errore a consolarsi con il risultato della Liguria, favorevole al centro-destra, così come lo farebbe Elly Schlein a considerare le due vittorie della settimana scorsa come il segnale che il centro-sinistra ha imboccato la strada giusta per ribaltare gli equilibri politici nazionali. I problemi di entrambi gli schieramenti erano e restano evidenti, e queste consultazioni di medio termine – siamo ormai prossimi alla metà della legislatura – li lasciano inalterati. La maggioranza continua ad essere divisa e priva di una strategia che non sia quella del tirare a campare, con la Lega che prima o poi dovrà pur regolare i conti interni e Fratelli d’Italia che non può illudersi di diventare un moderno partito conservatore semplicemente togliendo dal simbolo l’evocativa fiamma (ammesso e non concesso che lo faccia davvero). Le riforme istituzionali – per fortuna – sono impantanate. L’autonomia regionale è stata azzoppata dai 7 rilievi (su 12 articoli della legge) della Corte Costituzionale, e il fatto che l’intervento censorio blocchi un referendum che si profilava perdente per il governo non è un vantaggio politico sufficientemente compensativo (forse per Meloni sì, che all’autonomia non ha mai creduto, ma bisogna considerare cosa le chiederà in cambio Salvini). Il premierato è da tempo entrato nel porto delle nebbie, probabilmente perché si vuole evitare un referendum confermativo ad alto tasso di rischio bocciatura. Mentre sulla riforma della giustizia i primi a dissentire dal ministro Nordio sono proprio i meloniani. La politica economica ha il merito di non produrre troppi guai al bilancio ma il demerito di non affrontare alcuno dei nodi strutturali che rappresentano la nostra palla al piede. E sul piano delle relazioni internazionali presto i nodi verranno al pettine, quando con il ritorno di Trump alla Casa Bianca toccherà decidere se difendere le ragioni e gli interessi dell’Europa o provare a elemosinare con gli Stati Uniti qualche vantaggio (o meglio, minor svantaggio), con la coperta che in entrambi i casi si farà maledettamente corta.

Quanto all’opposizione, deve essere chiaro che il nodo dell’alternativa al centro-destra non è affatto sciolto. Intanto perché il recupero di consensi riscossi dal Pd non risolve le sue contraddizioni interne, relative sia alla qualità politica della leadership sia alle differenze abissali su temi fondamentali che ci sono tra le diverse componenti del partito, e che l’indeterminatezza della linea della segreteria non consente si confrontino al fine di scegliere quali debbano prevalere. Poi perché è irrisolto il rapporto con i 5stelle, e di qui la tiritera sul campo largo. Una leadership autorevole avrebbe già da tempo chiarito che tanto nell’avvocato Conte quanto nel saltimbanco Grillo non c’è assolutamente nulla di sinistra, costringendo i 5stelle ad un’equidistanza tra destra e sinistra che, una volta terminato l’effetto del “vaffa”, non può reggere per mancanza di contenuti. E infine perché resta senza risposta la domanda, sempre più forte se s’interpreta bene il senso del crescente astensionismo, di dare una significativa rappresentanza ad una componente che possa essere definita di centro. Suicidatisi Calenda e Renzi, ogni tanto salta fuori qualche nome, come se non fosse chiaro che la questione non sono i quarti di moderatismo del possibile leader ma la linea politico-programmatica di una forza che sappia ancorare al centro la sinistra. O, ancor meglio, che costringa ad incontrarsi i riformisti del centro-sinistra e i moderati europeisti del centro-destra, in vista di un superamento del sistema bipopulista nel quale viviamo. Sì, proprio quello che tiene lontani dalle urne la metà e più degli italiani.

Lo so, per portare il Paese fuori dal declino e riaccendere in noi la fiammella dell’impegno civile ci vorrebbero uomini della statura morale e politica come quelli che Guido Carli cita nelle sue memorie – De Gasperi, Einaudi, Merzagora, La Malfa, Menichella, Malagodi – per aver “impedito che l’Italia imboccasse la strada del peronismo, riuscendo invece a diventare uno dei maggiori paesi industriali del mondo”; parole che il presidente dell’Abi Antonio Patuelli ha fatto molto bene a ricordare in un evento della Fondazione Ugo La Malfa. E so anche che, nella fase storica in cui viviamo, di personalità così disgraziatamente non disponiamo, né noi né gli altri paesi occidentali. Ma questa constatazione, dettata dal pessimismo della ragione, non ci esime, anzi ci obbliga, a ricorrere a tutto l’ottimismo della volontà di cui disponiamo. E anche di più.

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