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L'editoriale di TerzaRepubblica

Ursula in Germania e Draghi in Europa

CONSIGLIO (ARDITO) NON RICHIESTO: VON DER LEYEN CANCELLIERA E DRAGHI ALLA GUIDA DELL’UE CHE DEVE AFFRONTARE TRUMP

di Enrico Cisnetto - 16 settembre 2024

Non tutto il male vien per nuocere. La crisi di governo in Germania, che porterà ad elezioni anticipate il prossimo 23 febbraio, e l’impasse nel varo della Commissione Europea, che potrebbe persino far saltare l’accordo tra le forze di maggioranza e quindi la stessa presidente Ursula von der Leyen, sono due passaggi politici tra loro interconnessi estremamente delicati e altamente pericolosi per l’intero Vecchio Continente, ma un vecchio proverbio ci può aiutare a scorgerne anche le potenzialità positive. Cerchiamo di capire il perché.

Quella tedesca è una crisi strutturale. Come è emerso nella War Room di martedì 12 novembre (qui il link), si tratta di un mix tra forte deficit di leadership che comporta instabilità politica, inusuale per un paese tradizionalmente solido, la consunzione del vecchio modello di sviluppo, che prevedeva acquisto di energia a basso costo dalla Russia ed esportazione di beni in Cina, la debolezza del sistema finanziario (vedi le difficoltà di Commerzbank e la paura di aprirsi persino a capitale europeo, come quello di Unicredit). Da qui lo choc provocato dalla crisi dell’automotive, con Volkswagen per la prima volta nella sua storia chiude stabilimenti in patria facendo venir meno una storica certezza, punta dell’iceberg di un più vasto processo di declino industriale. E da qui lo sfaldarsi della coalizione cosiddetta “semaforo”, andata in frantumi sull’invio di nuovi aiuti all’Ucraina, con i Liberali che, in contrasto con Socialisti e Verdi, hanno votato no, predisponendosi a fare i trumpiani tedeschi. Così il cancelliere Olaf Scholz affronterà il voto di fiducia al Bundestag il 16 dicembre, sapendo già che cadrà, tanto che tra i partiti c’è già l’accordo sulla data delle elezioni. Ma i tedeschi non sono abituati come noi italiani alla turbolenza politica, e questo passaggio accentuerà le loro crescenti inquietudini – il 47% teme di non poter mantenere il proprio tenore di vita – ripercuotendosi inevitabilmente nelle urne. Con quasi un tedesco su tre che ha già votato per l’ultradestra – si veda la impetuosa avanzata di Afd in Sassonia, Turingia e Brandeburgo – quale assetto politico si potrà formare dopo le elezioni? I liberali ma soprattutto i cristianodemocratici arriveranno al punto di allearsi con i neonazisti? 

La mia impressione coincide con quella di un germanista doc come Angelo Bolaffi: l’unico sbocco dopo il voto sarà una riedizione della Große Koalition basata sull’asse tra Cdu-Csu e Spd, con i Verdi e i liberali se non faranno follie. È stato un grave errore aver abbandonato questo schema di gioco, tanto più che lo si è fatto solo due mesi e mezzo prima dell’invasione russa in Ucraina (il governo Scholz entra in carica l’8 dicembre 2021, Putin muove contro Kiev il 24 febbraio 2022), ma lo sarebbe decuplicato se socialdemocratici e cristianodemocratici lo ripetessero in una contingenza così difficile come questa. Ora, il candidato cancelliere è, inevitabilmente, Friedrich Merz, diventato leader della Cdu dopo l’uscita di scena di Angela Merkel, sua storica nemica dentro il partito. Ma sarebbe, appunto, un cancelliere inevitabile, non ideale nella situazione data. Intanto perché ha sempre tenuto una linea di destra, temperata solo di recente da una timida apertura verso la possibilità che l’Europa faccia debito comune. Poi perché l’anno prossimo compirà 70 anni, un’età in cui non è bene affrontare per la prima volta la consumante esperienza di guidare un governo. Ma soprattutto, perché Merz ha un profilo che pare inadeguato rispetto alla immane dimensione dei problemi che la Germania deve affrontare. E con essa tutta l’Europa, visto che quello tedesco è un rischio che scuote le fondamenta stesse della Ue, tanto più in una fase di revisione della storica alleanza euro-atlantica.

Ma qui la “questione tedesca” s’interseca con quella che si deve affrontare a Bruxelles (sulla quale vi invito a vedere la War Room di mercoledì 13 novembre, qui il link). Intanto, il punto di contatto tra le due vicende è la comune origine: il ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca. Così come solo 48 ore dopo, la scossa americana ha fatto cadere il governo Scholz, così ha messo in discussione i patti di luglio che, dopo le elezioni europee, avevano portato alla riedizione della “maggioranza Ursula”. Il nostro provincialismo e la deformazione mentale che ci costringe a ragionare esclusivamente in termini di “amici-nemici”, ci induce a credere che il nocciolo della questione si chiami Raffaele Fitto, che i socialisti europei si rifiutano di votare come uno dei sei vicepresidenti esecutivi della riconfermata presidente. Ma non è così. Prima di tutto perché il vero nodo è la commissaria spagnola Teresa Ribera, come Fitto candidata ad una vicepresidenza esecutiva. Socialista, Ribera è accusata dai Popolari iberici di essere la principale responsabile delle tragiche conseguenze dell’alluvione di Valencia, in quanto ministro della Transizione ecologica. All’interno del Ppe, la componente spagnola vuol far saltare la nomina di Ribera, mentre il capogruppo Manfred Weber si mostra tollerante verso Fitto. Ecco perché, per tutta risposta, il gruppo socialista europeo difende Ribera e attacca Fitto. Ma non è solo un batti e ribatti, peraltro giocato non su contenuti europei ma su questioni di posizionamento politico e per di più nazionali. Dietro tutto questo si staglia la questione Trump, e cioè l’idea che le ragioni che avevano portato a riconfermare von der Leyen e la sua vecchia maggioranza siano venute meno, cioè che siano cambiati i parametri politici continentali. Così la virata di Giorgia Meloni, che dopo aver negato per ben due volte il voto favorevole della sua componente (Ecr) alla presidente della Commissione ora con il solo obiettivo di favorire la nomina di Fitto preannuncia di voler fare il contrario, diventa un casus belli, l’occasione per accusare von der Leyen di voler “virare a destra” e rimettere tutto in discussione: per ora con un rinvio del voto sulla Commissione, ma domani fino al punto di far saltare l’accordo di luglio. Come fa pensare la scelta del Ppe di votare con le destre il rinvio della norma sulla deforestazione, voluta da verdi e socialisti, che ha fatto dire a questi ultimi che la maggioranza tra Ppe, Pse e Renew, cui a luglio si erano aggiunti i Verdi, “non esiste più”.

Ma qui casca due volte l’asino. Primo, perché l’unica alternativa alla alleanza Ursula è sommare tutte le destre con il Ppe, e considerando che sarebbe una maggioranza risicata, anche almeno una parte dei liberaldemocratici di Renew Europe. Operazione politica che, ammesso che passi dentro il Ppe e c’è da ritenere che una componente consistente (per esempio Forza Italia) la rifiuterebbe, consegnerebbe l’Europa a Trump, con tutto quel che ne conseguirebbe. Ma c’è una seconda ragione per credere che non sia praticabile un rovesciamento delle alleanze, ed è proprio la situazione della Germania. Perché il Ppe è prima di tutto a trazione tedesca, e questo significherebbe che quel che stiamo immaginando (temendo) per Bruxelles valga anche per Berlino, e viceversa. Insomma, i popolari europei non possono stare con le destre se i loro colleghi tedeschi vanno verso la grande alleanza con i socialisti in Germania. E se invece scegliessero di allearsi con Afd – cosa altamente improbabile e comunque al prezzo di una sanguinosa spaccatura – sarebbe impossibile mantenere l’asse popolari-socialisti in Europa. 

Come si vede, siamo ben oltre Fitto e il camaleontismo meloniano. Se fosse solo questo, l’arte del compromesso ben conosciuta a Bruxelles avrebbe già sistemato tutto. Non è detto che non riesca comunque, ma è bene sapere che se anche si riuscisse a metterci una pezza, la solidità degli assetti comunitari sarebbe davvero precaria. Per questo occorrerebbe un deciso colpo di reni, uno scatto di fantasia. In questo senso, mi permetto di fornire un consiglio non richiesto. Partiamo dalla Germania. È evidente che Merz non è la Merkel, e non solo perché la pensavano molto diversamente e si detestavano cordialmente. E non c’è dubbio che la personalità tedesca di maggior spessore politico e di maggiore esperienza istituzionale, in assoluto e a maggior ragione dentro il perimetro Cdu-Csu, sia Ursula von der Leyen. Dunque, premesso che ciò che è bene per la Germania è bene per l’intera Europa, non sarebbe più utile che si mettesse al servizio del suo paese candidandosi alle elezioni di febbraio indicata dal sua partito come la futura cancelliera alla guida di un esecutivo sorretto dalla stessa maggioranza che ha costruito a Bruxelles? E se così facesse – con uno slancio di generosità ma anche di furbizia politica, perché non conviene avere le redini dell’Unione europea sapendo che quelle della principale cancelleria continentale non sono nelle mani giuste – non sarebbe logico e opportuno che alla testa di una rinnovata Commissione Ue vada la personalità che in questo frangente ha messo in campo l’unico progetto per l’Europa del futuro, e cioè Mario Draghi?

Se ciò che aspetta all’Europa è un duro confronto con la nuova amministrazione americana – la cui composizione, tra l’altro, si sta prospettando di rottura più di quanto già non sia il rieletto presidente – e la capacità di far fronte ad un radicale cambiamento di scenario che ci vedrà costretti, per evitare di soccombere miseramente, a renderci indipendenti nella capacità di difesa militare, ad arginare l’impatto dei dazi e a non finire schiacciati nella morsa della competizione commerciale Usa-Cina, a realizzare una società e un’economia digitalizzata cercando di recuperare il gap tecnologico che abbiamo accumulato, a perseguire il più alto tasso possibile di autonomia nell’approvvigionamento energetico e di decarbonizzazione. Tutte sfide epocali, per far fronte alle quali l’ex presidente della Bce stima ci vogliano qualcosa come 800 miliardi l’anno di investimenti aggiuntivi, il doppio del Piano Marshall. Cosa che richiede, propedeuticamente, l’eliminazione del diritto di veto, e quindi una governance europea non più basata sull’unanimità. “Vaste programme”, direbbe il Generale de Gaulle. Ma ineludibile, perché si tratta, come ha chiarito Draghi, di “una sfida esistenziale”. “Se l'Europa non può diventare più produttiva saremo costretti a scegliere. Non saremo in grado di diventare, allo stesso tempo, un leader nelle nuove tecnologie, un faro di responsabilità climatica e un attore indipendente sulla scena mondiale. Non saremo in grado di finanziare il nostro modello sociale. Dovremo ridimensionare alcune, se non tutte, le nostre ambizioni”, è stata la sua dura ma assai realistica profezia.

Certo, Draghi è italiano, è stato presidente del Consiglio, e sarebbe bello se a proporre il suo nome fosse l’Italia, con un’espressione corale capace di superare le barriere, peraltro fasulle, che dividono destra e sinistra, maggioranza e opposizioni. Difficile? In effetti, con la classe politica che in un momento topico come questo è impegnata a riesumare gli opposti estremismi degli anni Settanta, a insultarsi a suon di “zecche rosse” e “camicie nere”, a discettare se la gauche sia caviar o una bersaniana pasta al ragù, a inseguire o a demonizzare l’uomo più ricco del mondo, che in un anno e mezzo non è stata capace di nominare con il vasto consenso che è necessario (e opportuno) un membro della Corte Costituzionale, ci vuole una gigantesca dose di ottimismo per credere che possa essere capace di un simile gesto. Eppure, non sarebbe così difficile. Persino Berlusconi, padre del nostro miserabile bipolarismo, fu capace di mandare in Europa figure come Emma Bonino e Mario Monti…

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