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Public Policy

L'editoriale di TerzaRepubblica

Trump, Musk e l'Europa

DONALD HA VINTO IL REFERENDUM SU SÉ STESSO, ELON È L’UOMO FORTE. QUALI SCELTE (DIFFICILI) È MESSA DI FRONTE L’EUROPA

di Enrico Cisnetto - 09 novembre 2024

Come ho pronosticato – la rielezione di Donald Trump produrrà in Europa effetti profondi e addirittura devastanti – ecco la prima conseguenza a neppure 48 ore dall’esito delle presidenziali americane: la crisi di governo in Germania. Il tifone sovranista arrivato da oltreoceano si è abbattuto sul cancelliere socialista Olaf Scholz, che ha rotto con il ministro liberale Christian Lindner, già pronto a fare il trumpiano e allearsi con la destra. Per fortuna Emmanuel Macron ha fatto in tempo a mettere una pezza alla crisi di casa sua, anche se è lecito dubitare che sia durevole, e non a caso è del presidente francese il commento tanto lapidario quanto più efficace che sia stato emesso sulle conseguenze delle elezioni americane, che mettono il pianeta nelle mani di quattro potenti – Trump, Xi, Putin, Modi – diversi ma accumunabili dalla definizione di “autocrati”: “Il mondo è fatto di carnivori ed erbivori, se decidiamo di restare erbivori i carnivori ci mangeranno. Diventare onnivori non sarebbe male”.

La crisi tedesca – di cui sbaglieremmo a compiacerci (della serie “vedete, l’Italia va meglio della Germania”) ma anche solo a non considerarla un problema per tutta il Vecchio Continente – è la conferma che il mondo, e l’Europa in particolare, devono fare i conti con Trump. Il suo ritorno alla Casa Bianca cambia le storiche regole d’ingaggio dell’alleanza euro-atlantica a cui ci eravamo indulgentemente abituati. Ma per capire cosa potrà accadere, occorre prima ragionare, senza pregiudizio alcuno, su quanto è accaduto il 5 novembre negli Stati Uniti.

A guardar bene, per come si erano messe le cose gli americani non erano chiamati a scegliere tra due candidati presidenti, ma ad esprimersi in un referendum sulla controversa e ingombrante figura di Donald Trump. Certo, Kamala Harris poteva contare sul consenso del tradizionale elettorato democratico, ma la differenza la faceva il giudizio sul tycoon: avrebbe vinto lei, o meglio avrebbe perso lui, se fosse prevalso il vento della riprovazione sui connotati del candidato repubblicano – definito e definibile eversivo, violento, razzista, machista, sguaiato ma soprattutto incline al disprezzo per lo spirito e la lettera della Costituzione – in caso contrario le cose sarebbero andate come poi è effettivamente accaduto. Così, su 244 milioni di aventi diritto di voto, oltre cento milioni sono rimasti a casa, evidentemente indifferenti al “pericolo Trump”, e oltre 72 milioni hanno votato a suo favore, poco meno di 5 milioni in più di chi ha votato contro scegliendo Harris. Questo significa che soltanto il 27% dei cittadini statunitensi ha sentito il dovere, o quantomeno il bisogno, di opporsi al ritorno di Trump alla Casa Bianca nonostante i suoi problemi giudiziari, le sue inclinazioni illiberali e autocratiche, le sue sparate millenaristiche. E che ben il 73% non lo ha vissuto come un pericolo per la democrazia e per il ruolo dell’Occidente negli equilibri geopolitici planetari. E infatti Trump non solo ha conquistato la maggioranza dei grandi elettori, vincendo in tutti e sette gli stati chiave, ed è prevalso nel voto popolare (l’ultimo repubblicano a riuscirci fu Bush Jr nel 2004), ma ha anche ottenuto il controllo del Senato e, forse, della Camera dei Rappresentanti (i conteggi non sono ancora terminati). Se ci aggiungete che nel frattempo aveva già allungato le mani sulla Corte Suprema, ora Trump concentra nelle sue mani un grande potere esecutivo e istituzionale, con buona pace del sistema di checks and balances che finora ha assicurato agli Stati Uniti un ragionevole equilibrio delle forze. Certo il Deep State americano è pieno di personalità e anche di semplici dirigenti e funzionari che detestano il rieletto presidente, ma proprio la resistenza che le tecnocrazie metteranno in atto potrebbe spingere Trump a praticare le estremizzazioni da campagna elettorale che invece in molti pronosticano (sperano) finirà per dimenticare. Per approfondire, si veda la War Room di mercoledì 6 novembre con Marta Dassù, Angelo Panebianco e Francesco Semprini (qui il link).

Ora sono tre le domande che dobbiamo porci. La prima è: perché le cose sono andate così? La seconda: come si comporterà Trump, quale impronta darà ai suoi atti di governo e con quale squadra? E infine la terza: quali saranno le conseguenze su scala planetaria del ritorno di Trump alla Casa Bianca? Proviamo a rispondere a ciascuna.

La scelta degli americani è riconducibile a tre ragioni, che probabilmente hanno avuto un peso equivalente: l’adesione, la sottovalutazione, la reazione. Una parte, il popolo dell’America profonda, l’ha votato perché si riconosce nel personaggio, che assume come modello, e considera un plus le cose che dice ed evoca e il linguaggio con cui le porge, laddove la semplificazione estrema fa premio sulla complessità, considerata un fastidio e una fregatura. Sono coloro che considerano un po’ di “democrazia illiberale” quel che ci vuole, e dunque non votano il partito repubblicano, che infatti rischia l’estinzione, ma il movimento trumpiano, che non a caso lo stesso Trump ha esalto nel discorso con cui ha celebrato la vittoria. Ed è nelle componenti più estreme di questo mondo che quattro anni fa è nata la rivolta di Capitol Hill e probabilmente sarebbe scaturito qualcosa di analogo se anche stavolta Trump avesse perso. Un’altra parte l’ha votato, o non andando a votare ha consentito che vincesse, perché ha sottovalutato il “pericolo Trump”, non comprendendone la portata o considerando propaganda le ragioni di chi evocava “l’allarme democratico”. Infine, una terza componente è composta da coloro in cui è prevalsa la ripulsa verso l’altra parte dell’America. Il rifiuto del politicamente corretto e dell’ideologia woke – che ha assunto toni parossistici, è inutile negarlo – e l’astio verso le élite, specie quelle globaliste che vengono considerate responsabili di aver barattato i propri interessi economici e politici a spese delle popolazioni favorendo bassi salari e immigrazione. Ma anche l’avversione verso il far prevalere i diritti civili su quelli sociali, verso l’ottusa sottovalutazione della rabbia di un ceto medio in parte impoverito dall’inflazione e in parte che tale si vive perché la crescita economica, che pure è un must dell’amministrazione Biden, sembra essere andata a favore solo dei super ricchi e dei ceti più abbienti.

Se ci pensate, queste ragioni – in parte fondate, in parte conseguenza di un deficit di analisi sul tempo che viviamo che nello stesso tempo è causa e conseguenza di quella corrente di pensiero che potremmo definire di “autoflagellazione occidentale”, e in parte figlie di mancate risposte da parte delle forze democratiche, sia moderate che progressiste – le ritroviamo anche in altre parti del mondo, e in particolare le nostre, che hanno già vissuto e stanno vivendo la forza travolgente del populismo e del sovranismo. Si tratta di un impasto di insoddisfazioni che fanno venir meno la fiducia nella politica e nelle istituzioni e aprono la strada all’affermazione di individui che cavalcano quei sentimenti carichi di pessimismo e nichilismo. Salvo bruciare con crescente celerità le leadership che si sono affermate in questo modo, quando risulta evidente lo scarto tra quanto promesso, di solito irrealizzabile (per fortuna), e quanto messo in pratica.

E qui veniamo al profilo che da gennaio avrà la seconda amministrazione Trump. Due cose mi sembrano certe fin d’ora. La prima è che sarà un governo Trump-Musk, nonostante il vicepresidente, J.D. Vance, sia un politico fatto e finito. Parlo di potere sostanziale, per cui l’uomo più ricco del mondo potrà anche non ricoprire alcun ruolo formale, ma avrà non solo una grande influenza ma anche una capacità decisionale assoluta. Trump, definendilo un genio assoluto, lo già incoronata, il resto lo faranno il business e le relazioni internazionali. Spazzate via le vecchie strutture del partito che fu dei Bush, di Reagan, Ford, Nixon e Eisenhower, il movimento personale di Trump che ne ha preso il posto – privo com’è di una connotazione istituzionale, di tradizione, di dibattito democratico interno –guarderà a Musk come uomo forte, infischiandosene delle sue tante contraddizioni, dall’uso costante di droghe (per sua stessa ammissione) al fatto che sia produttore di auto elettriche invise all’elettore repubblicano tipo, e appartenga ad una cultura radical come quella della Silicon Valley. L’uso spregiudicato degli strumenti di comunicazione (X, fu Twitter) e telecomunicazioni (Starlink), l’attestarsi sulla frontiera dell’innovazione tecnologica dai risvolti planetari, fanno di Musk se non l’uomo più potente del mondo di certo l’americano con maggiore potere, più dello stesso Trump, che in fondo è più avvezzo ai soldi e alle donne che alle complesse dinamiche del vero potere (non fu così anche per Berlusconi, forse?).

La seconda cosa certa è che una volta evocata e usata senza freni, l’estremizzazione si rivela una bestia difficile da domare. Intendo dire che si illudono coloro che credono (sperano) che Trump si normalizzi, archiviando le tante sciocchezze cui ha fatto ricorso per conquistare il consenso degli americani. Un po’ perché lui è davvero fatto così, anche se temperato dalla sua inclinazione allo “scambio”, che non lo porta a mediare ma a trattare sì. E un po’ perché ha imparato la lezione e questa volta farà molto più sul serio di quanto non accadde con il suo primo mandato. Ergo, come ho già detto la settimana scorsa prima del voto, è da mettere nel conto che intenda recuperare i 140 miliardi di deficit commerciale che gli Stati Uniti hanno maturato con la Germania e i 60 con l’Italia, applicando dazi sulle merci importate. E lo farà parlando con le singole cancellerie, non con Bruxelles, non riconoscendo un interlocutore nell’Unione Europea e le sue istituzioni comunitarie. Inoltre, in sede Nato porrà con forza il tema della partecipazione di tutti i paesi aderenti alle spese militari, indicando quel 2% del pil da investire in armamenti e contingenti non più il tetto massimo, ma quello minimo. In ossequio alla sua filosofia per cui l’America non deve più fare da ombrello protettivo al Vecchio Continente, cui deve spettare il compito di rendersi autonomo sul piano della sicurezza. Con ciò mettendo in gravissima difficoltà i paesi, come l’Italia, che sono ben lontani da quella soglia e che per di più hanno vincoli di bilancio. Potete star certi che di questo Trump se ne fregherà altamente – con buona pace di coloro che si illudono di poter ottenere sconti e indulgenze, direttamente o via Musk – anche perché il suo obiettivo è ridimensionare l’Europa e la stessa Nato, ritenuti inutili e ingombranti nella dinamica delle relazioni con Russia e Cina. Lo constateremo non appena Trump prenderà in mano il dossier Ucraina cercando di chiudere il conflitto aperto da Mosca, senza troppo badare ai dettagli a danno di Kiev.

Come ho già scritto e come hanno ben chiarito Marco Buti, Sergio Fabbrini e Giuliano Noci nella War Room di giovedì 6 novembre (qui il link), questo scenario pone l’Europa di fronte ad una scelta epocale. Di fronte a Trump, è destinata a dividersi fino a disintegrarsi come entità sovranazionale o, quantomeno per eterogenesi dei fini, è spinta ad integrarsi diventando gli Stati Uniti d’Europa? Il fatto che finora l’unica consapevolezza della sfida che abbiamo davanti sia quella mostrata da Mario Draghi con il suo” piano di rinascita” e ribadita con forza alla riunione straordinaria del Consiglio Europeo di Budapest (“ci sono grandi cambiamenti in vista e quello che l’Europa non può più fare è posporre le decisioni”), non induce all’ottimismo. Ma forse può valere quello che in Italia negli anni ci siamo abituati a chiamare “vincolo esterno”: Trump, mettendoci paura, potrebbe indurci a fare tutte quelle scelte che finora abbiamo, appunto, “posposto”. A cominciare da quella che rappresenta la precondizione per fare tutte le altre: cancellare il diritto di veto, rinunciando all’unanimità decisionale. Facciamolo, fintanto che i sovranisti e i putiniani, quelli espliciti alla Orban e quelli che sono accomodanti verso Mosca nei fatti, sono ancora minoranza. I paurosi scricchiolii di Berlino, le difficoltà di Parigi e ora anche di Madrid (vedi il disastro di Valencia), le divisioni che imperversano a Roma (Salvini e “Giuseppi” Conte che spaccano entrambi i poli) ci dicono che il tempo stringe. Maledettamente.

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Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.