La pacchia atlantica è finita
HARRIS (MEGLIO) O TRUMP (PEGGIO), IN TUTTI I CASI PER L’EUROPA LA PACCHIA ATLANTICA È FINITA
di Enrico Cisnetto - 02 novembre 2024
Peccato non sia affatto vero che in cinese la parola “crisi” (wēijī, o 危機 in cinese tradizionale e 危机 in cinese semplificato) significhi anche “opportunità”. Peccato perché quella credenza, autorevolmente iniziata con un famoso discorso che John F. Kennedy tenne a Indianapolis nell’aprile del 1959, avrebbe potuto tacitare la nostra ansia nell’attesa del voto americano di martedì 5 novembre, che tutto il mondo aspetta con trepidazione. Già, sia che vinca Kamala Harris, che risulta in lieve vantaggio a livello nazionale ma sfavorita nei sette Stati determinanti (Arizona, Georgia, Michigan Nevada, North Carolina, Pennsylvania e Wisconsin), sia a maggior ragione che Donald Trump ce la faccia a tornare alla Casa Bianca, per noi – noi italiani, noi europei e in una certa misura tutti noi occidentali – si creeranno difficoltà sconosciute. Che vorrei tanto si tramutassero in opportunità, ma temo invece che, come nel caso della pseudo etimologia della parola cinese, si tratti di un caso di wishful thinking.
Sia chiaro, non intendo dire che Harris e Trump per me pari sono. Anzi, non ho difficoltà a dire che se avessi la facoltà di votare, lo farei a favore della vicepresidente di Joe Biden. Anche se non per convinzione, ma per sbarrare la strada ad un candidato che considero pericoloso per la democrazia americana (vedi la forzatura sulla Corte Suprema o la reazione alla sconfitta messa in atto con l’attacco a Capitol Hill) ma soprattutto per gli equilibri mondiali già sottoposti a scosse telluriche senza precedenti. Intendo invece sostenere che non c’è alcun bisogno di attendere l’esito del voto per prepararsi a un dopo che avrà alcune conseguenze simili, anche se ovviamente si presenteranno ai nostri occhi in modo assai diverso. È una valutazione, questa, che vado maturando da tempo, ma della quale mi sono definitivamente convinto dopo la War Room di giovedì 31 ottobre, con Paolo Magri dell’Ispi e Maurizio Molinari. Se non l’aveste vista vi consiglio vivamente di farlo (qui il link), non fosse altro perché la considero una delle più interessanti delle mille (non è un numero a caso, nei giorni scorsi abbiamo superato le mille puntate) che abbiamo fatto da quando, nel marzo 2020 in pieno Covid, mi sono inventato questo nuovo media. Da quella War Room è emerso che, dopo il voto americano, le storiche regole d’ingaggio dell’alleanza euro-atlantica sono destinate a cambiare. In modo violento e rapido con Trump presidente, in maniera più soft nei modi e nei tempi con Harris. Ma in entrambi i casi non saranno più le stesse. Tuttavia, in Europa l’unica personalità che sembra averlo capito è Mario Draghi. Non Ursula von de Leyen, troppo impegnata a puntellare il suo potere personale di capo di una Commissione Ue che andrebbe invece trasformata in un vero e proprio governo comunitario. Non Olaf Scholz né Emmanuel Macron, troppo politicamente deboli a casa loro per avere la forza di alzare lo sguardo e troppo mediocri per avere il coraggio dello spariglio. Di Roma dirò dopo. Dunque, Draghi. Provate a rileggere il piano che ha offerto all’attenzione distratta e preoccupata dell’Unione Europea, e ci troverete la consapevolezza del cambiamento, sotto il profilo economico e della sicurezza, che queste elezioni americane metteranno in moto e che ci aspetta.
Partiamo da quanto è immaginabile farà Trump se fosse eletto, perché essendo più strong rende maggiormente l’idea. Sgombrando il campo dall’idea, o meglio dall’illusione, assai diffusa tra coloro che simpatizzano per The Donald ma un po’ se ne vergognano, che alla fine farà poco o nulla delle cose tremende di cui ha farfugliato nella sua campagna elettorale. Come ha ben spiegato Molinari, la prima cosa che farà Trump è chiedere conto dei 200 miliardi di deficit commerciale con l’Europa che secondo lui gli Stati Uniti hanno maturato fin qui, e che attribuisce per 140 alla Germania e per 60 all’Italia. Non negozierà con Bruxelles, che tenderà a non riconoscere come potere sovrano, ma comunicherà alle singole cancellerie l’entità dei dazi che imporrà sui prodotti tedeschi e italiani che gli americani comprano. Ora, è vero che ormai l’uso delle gabelle doganali è stato sdoganato, per usare un gioco di parole, e l’Italia ne ha appena fatto uso nei confronti delle auto elettriche cinesi. Ma un ricorso massiccio e diffuso dei dazi in un mercato fondamentale per le nostre esportazioni e per quelle tedesche rappresenterebbe un colpo mortale per due economie che sono già in difficoltà. Pensate forse che Roma sarà risparmiata, o quantomeno le sarà riservato un occhio di riguardo, solo perché esprime un governo di destra-centro? Pie illusioni. E non sarà perché Meloni nei suoi primi due anni a palazzo Chigi ha avuto buone relazioni con Biden, tanto da riceverne un affettuoso bacio in fronte a favore di fotografi e telecamere, o perché vuole aiutare il suo amico (si fa per dire) “Giuseppi” che è all’opposizione, ma perché Trump dovrà subito dimostrare ai suoi elettori di voler applicare sul serio il dogma “America first”, senza guardare in faccia nessuno.
Poi Trump passerà alla fase due, quella della spesa militare, mettendo in discussione la prassi fin qui consolidata che debba essere l’America a pagare di più, sia sui fronti aperti come l’Ucraina – che vorrà chiudere senza troppo badare ai dettagli – sia in generale negli equilibri dentro la Nato. Con lui di nuovo presidente l’Europa deve dunque prepararsi all’eventualità che l’ombrello protettivo di cui ha goduto fin qui si chiuda, o comunque non ripari più come prima. E se con ciò si metterà fine a quell’unità euro-atlantica a cui siamo stati abituati, direi troppo comodamente abituati, per 80 anni, che sono stati decenni di pace e benessere, Trump non se farà scrupolo. Anche perché nella concezione trumpiana, l’Europa non è un pericolo, mentre lo è la Cina, e per fronteggiare quella minaccia serve avere a fianco Mosca, non Bruxelles. Considerato che il vero obiettivo del Cremlino non è mai stato la conquista dell’Ucraina, tutta o in parte, ma lo scardinamento degli assetti geopolitici mondiali, a partire dalla messa in crisi dell’Europa, vi lascio immaginare cosa potrebbe accadere se Putin e Trump dovessero sedersi amabilmente al tavolo di un negoziato da cui non solo la Ue sarebbe esclusa, ma ne sarebbe vittima non meno del povero Zelensky.
Si dirà: tutto questo accadrebbe con il ritorno di Trump alla Casa Bianca, non se Harris lasciasse la sua stanza di vice per insediarsi nello Studio ovale. Vero, ma solo fino ad un certo punto. Se Kamala Harris vincesse accadrebbe per un pugno di voti e con una parte consistente di elettori che l’avrebbe scelta per evitare “il puzzone” e non perché la considerano la scelta migliore possibile. Inoltre, è facile immaginare che si troverebbe a dover fronteggiare un’altra rivolta stile Capitol Hill. Ergo, Harris non potrà più di tanto discostarsi dalle due scelte che Trump farebbe al suo posto, cioè non potrà non chiedere un riequilibrio dei rapporti commerciali con l’Europa e non potrà non pretendere dai paesi Nato che troppo poco hanno speso in sicurezza di mettere pesantemente mano al portafoglio. Certo, lo farà con ben altro stile e senza mai mettere in discussione i principi della solidarietà euro-atlantica: riconoscendo gli interlocutori e negoziando civilmente con essi, dando loro più tempo e più margini. Ma pur sempre andando in quella direzione.
Per questo l’Europa, intesa nel suo insieme e come singoli Stati, sbaglia a non porsi con anticipo nella condizione di dover affrontare queste circostanze. Sbaglia, per esempio, nell’aver di fatto già archiviato il piano Draghi, che proprio sugli investimenti a favore di un maggior grado di autonomia nel campo della difesa e dell’energia puntava, attraverso debito comune (su cui i tedeschi hanno già alzato le barricate). Sbaglia a non affrontare di petto il tema delle decisioni a maggioranza e non più all’unanimità, meccanismo, questo del diritto di veto, che altro non è se non una pistola carica messa in mano ai sovranisti che stanno in Europa con l’intento di affossarla. Sbaglia, come hanno detto Magri e Molinari nella War Room, a non porsi il tema di una profonda revisione delle proprie regole di antitrust, se vuole costruire campioni continentali in grado di affrontare i giganti americani e asiatici, tanto più che sconta un gap tecnologico complessivo che i più ottimisti calcolano in 5 anni e quelli più pessimisti in 15. Sbaglia a dividersi tra chi da Putin si sente minacciato – come i paesi baltici e dell’Est, con l’eccezione dell’Ungheria di Orban – chi è accomodante nei fatti (come l’Italia quando non vota la risoluzione per consentire che le armi fornite a Kiev siano usate anche per colpire le basi militari russe oltreconfine) e chi tifa per Mosca. Ma ancor più sbaglierebbe, ora, se si dividesse tra chi con l’Amministrazione americana, a prescindere da chi la guiderà, intende confrontarsi e negoziare come Unione Europea, e chi si metterà in fila con il cappello in mano per tentare di portare a casa qualcosetta per il proprio paese, senza capire che così facendo noi continentali saremo tutti perdenti, senza eccezione alcuna.
In questo quadro, e in conclusione, non posso esimermi dall’esprimere scoramento e preoccupazione per l’atteggiamento dell’Italia, che da un lato sottovaluta quanto avviene nel mondo e non bada a quanto potrebbe avvenire, lasciando che le beghe di cortile facciano sempre premio, e dall’altro si lascia sopraffare dalla sua grande ingenuità credendo possibile stabilire con Washington basati su una furbizia da quattro soldi. E questo vale per quei due, Salvini e Conte, che attendono il ritorno di Trump nella tragicomica illusione che sia in grado e abbia voglia di rimetterli in gioco. Vale per Meloni, che pensa di poter offrire la sua fronte al bacio di Harris in continuità con Biden e a Trump in discontinuità come se niente fosse. E Vale per Schlein, che è così capace di leggere i fatti politici che le tocca sentirsi spiegare da Travaglio che Pd e 5stelle è opportuno che camminino su strade diverse e neppure parallele. Scommettete che dal 6 novembre i voli per Washington saranno pieni di politici italiani che andranno negli States con lo stesso spirito di un viaggio a Lourdes?
L'EDITORIALE
DI TERZA REPUBBLICA
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