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L'editoriale di TerzaRepubblica

Manovra di galleggiamento

LA TERZA FINANZIARIA DI MELONI NON FA SALTARE I CONTI, MA MANCANO INVESTIMENTI PER LA CRESCITA E NON AGGREDISCE IL DEBITO

di Enrico Cisnetto - 19 ottobre 2024

Non essendo stolti, da queste parti, evitiamo di guardare il dito anziché la luna. Tradotto, per giudicare lo schema della legge finanziaria appena varato in Consiglio dei ministri, tralasciamo i dettagli su come è composta la manovra da 30 miliardi per il 2025 e concentriamoci su due questioni decisamente più strutturali. La prima riguarda il Documento programmatico, che contiene sia gli elementi del bilancio 2024 che quelli delle due manovre precedenti realizzate dal governo Meloni, cosa che consente di valutare a tutto tondo la linea di politica economica di questo esecutivo. La seconda attiene al Piano strutturale di bilancio relativo ai prossimi sette anni, richiesto da Bruxelles, da cui si può dedurre il profilo di medio termine in cui il Paese si muoverà. Dico questo perché subito dopo la presentazione della manovra è partito – anzi, era già iniziato in precedenza con la pioggia delle indiscrezioni – il solito dibattito inutile su questa o quella misura. Oltretutto all’interno dell’altrettanto solita contrapposizione degli “opposti populismi”, per cui chi è al governo è un affamatore del popolo e chi sta all’opposizione sciorina un lungo elenco di provvedimenti senza indicarne le coperture di spesa (e che quando era maggioranza non ha mai preso). Senza contare il brutto spettacolo di un Ministro dell’economia che annuncia “sacrifici per tutti” e una Presidente del Consiglio che ribatte piccata che il suo governo “le tasse le riduce”. Una solfa stucchevole, che tutto fa meno che rendere agli italiani la verità di come stanno veramente le cose. 

L’impianto della manovra prevede interventi per circa 30 miliardi nel 2025 – di cui la metà servono a confermare i provvedimenti presi l’anno scorso e solo 15 miliardi, cioè lo 0,7% del pil, riguardano misure aggiuntive – poi 35 nel 2026 e oltre 40 nel 2027. Viene confermato e reso strutturale il taglio del cuneo fiscale per i lavoratori dipendenti sotto i 40 mila euro. È confermata l’Irpef a 3 aliquote. Sono poi previsti tagli del 5% per i Ministeri, cosa più facile a dirsi che a farsi, con l’eccezione della Sanità, che invece riceve 900 milioni per il 2025. C’è poi il bonus nascite: 1000 euro che andranno ai genitori sotto la soglia Isee di 40 mila euro. Ci sarà un restyling delle detrazioni che terrà conto dei familiari a carico per andare verso il “quoziente familiare”. Vengono rivisti al ribasso gli sgravi per le ristrutturazioni, ci sono risorse per rinnovo dei contratti pubblici, c’è il tetto agli stipendi dei manager pubblici e molte altre misure di dettaglio. Quanto al reperimento delle risorse, in parte avviene grazie ad un tesoretto di maggiori entrare fiscali stimato in una cinquantina di miliardi di qui al 2027 (ci crediamo sulla parola), in parte in deficit e in parte con nuove tasse, anche se il governo non vuole chiamarle così. C’è infatti un prelievo per banche e assicurazioni, che verseranno circa 3,5 miliardi in due anni. Non una replica della fallimentare tassa sugli extraprofitti dello scorso anno, ma un anticipo di cassa attraverso il rinvio delle deduzioni sulle imposte. Pur sempre una pratica di stampo illiberale, e per di più per ottenere un risultato temporaneo. Non solo: riguardando settori con forte potere di mercato, c’è il rischio che la misura si scarichi, almeno in parte, sui clienti, sotto forme di minore credito e di rincari.

In sintesi, siamo di fronte a tradizionalissimi tagli lineari, un po’ di deficit consentito dal recente incremento delle entrate fiscali, qualche bonus che non manca mai, la conferma del taglio del cuneo fiscale. Dunque, si tratta di un insieme di operazioni di piccolo cabotaggio, di puro e semplice galleggiamento, una manovra vecchio stile che non scassa i conti ma neppure interviene in modo strategico, e tantomeno innovativo. Così come è old style l’accordo con la Ue per l’estensione a 7 anni del tempo in cui rientrare nei parametri europei, premessa per poi chiedere l’estensione dei tempi di realizzazione del Pnrr, visto che siamo ben lontani da quelli previsti dalla tabella di marcia (abbiamo speso 18 miliardi su 44 programmati, neppure la metà).

Ma quel che più conta è che, essendo questa la terza manovra del governo Meloni, par di capire che neppure in questa legislatura assisteremo a una seria rivisitazione della spesa pubblica, arrivata ormai a 1200 miliardi, e a un taglio strutturale del debito, ormai a pochi spiccioli dai 3 mila miliardi. Come ha ben spiegato Mario Baldassarri nella War Room di mercoledì 16 ottobre (qui il link), il Parlamento sarà chiamato ad approvare non i 30 miliardi, ma un bilancio che reca entrate per 1.100 miliardi e uscite per 1.200, dentro cui ci sono le misure di scostamento per il 2025. Ma nessuno, né il governo che propone la legge di Bilancio, né la maggioranza che lo sostiene – che pure è divisa su tutto – né l’opposizione che si limita a chiedere di spendere di più, si sogna di ragionare su quelle due cifre mostruose. Peccato che là dentro ci siano 100 miliardi di interessi passivi sul debito pubblico, 180 miliardi di agevolazioni fiscali di ogni genere e 150 miliardi di spesa “cattiva”, inutile se non oggetto di sprechi e malversazioni. Nello stesso tempo mancano 90-100 miliardi di evasione fiscale, cioè giusto la differenza tra entrate e uscite. Ora è vero che pochi capitoli di spesa – previdenza, sanità, istruzione, sicurezza, ecc. – assorbono il grosso di quei 1.200 miliardi, e anzi alcuni, come la spesa sanitaria e quella per la formazione scolastica e professionale, andrebbero espansi, ma resta il fatto che gli spazi per intervenire ci sono, eccome se ci sono. E non si tratta di agire secondo una logica di pura riduzione del perimetro pubblico, ma semmai di riconversione della spesa: riduzione di quella corrente, incremento di quella in conto capitale per investimenti strategici.

Già, perché l’altra faccia della medaglia di questo squilibrio a favore della spesa improduttiva è l’andamento del prodotto interno lordo. Già quest’anno la crescita si fermerà a +0,8% (stima Bankitalia) anziché al +1% previsto dal governo, il che rende meno probabile che si realizzi il +1,2% stimato per il 2025 dal Piano strutturale di bilancio, anche perché mi permetto di dubitare che un quarto di quella futura crescita possa derivare, come annunciato, dalla manovra di cui abbiamo parlato finora. Ma la cosa che più stupisce è che nel Piano a lungo termine è previsto un costante rallentamento dei tassi di crescita, fino ad arrivare al +0,6% del 2029. Dunque, noi stessi ipotizziamo di non arrivare all’1% di incremento annuale del pil per i prossimi sette anni, compreso, si badi bene, l’effetto benefico del Pnrr. È vero che la crescita mondiale è rallentata, che le difficoltà della Germania si riflettono sulle nostre filiere industriali e che le crisi geopolitiche non solo incidono nel presente ma proiettano pesanti incognite sul futuro. Tuttavia, nel medio termine non porsi un obiettivo di sviluppo almeno del 2% all’anno, anche considerato il gap accumulato dall’Italia negli ultimi tre decenni, significa rinunciare a porsi traguardi significativi e nello stesso tempo ammettere che si tira a campare, barattando gli investimenti con spesa che serve a comprare tempo e consenso. E lo stesso discorso vale per il debito: si spera che la curva dei tassi consenta di risparmiare qualche miliardo di interessi, si lavora per generare attivi primari (differenza tra entrate e uscite al netto della spesa per interessi) consistenti – ed è cosa buona e giusta – ma non si prende neppure in considerazione l’idea di intervenire sullo stock di debito nonostante che da tempo circolino ottime idee in proposito (ne ho parlato, per l’ennesima volta, nella TerzaRepubblica del 5 ottobre, qui il link). Cosa, questa, tanto più grave se si considera che la classe politica ha trovato il modo di spendere a debito prima 70 miliardi per i sussidi per pagare le bollette di luce e gas in seguito alla crisi energetica innescata dall’invasione russa dell’Ucraina, e poi 220 miliardi per i bonus edilizi.

Il fatto è che per risanare la finanza pubblica e per investire sullo sviluppo occorre avere volontà politica, coraggio, lungimiranza, competenza. Tutte qualità – lo dico senza che mi faccia velo la possibilità di essere scambiato per un qualunquista – che non fanno più parte del codice genetico della nostra classe politica. Il sistema produce soltanto decisioni di piccolo cabotaggio, quando non rinvii. D’altra parte, sono decenni che la politica italiana è diventata un “distribuificio”. Ogni attenzione è riservata solo alla distribuzione di benefici (veri e presunti), siano essi sotto forma di “dare” (bonus, incentivi, sussidi, sovvenzioni, ecc.) o di “non avere” (riduzioni di aliquote, sgravi, deduzioni, gratuità, ecc.). Ogni discussione e motivo di scontro politico verte solo su questo, in una continua rincorsa a chi offre di più. E vale tanto per chi è momentaneamente al governo, che ha solo il vincolo esterno, l’occhiuta vigilanza europea, di non eccedere nel creare deficit e aumentare il debito, e a maggior ragione per chi sta all’opposizione, che considera quello dei conti pubblici un problema non suo. Nessuno, o quasi, che ragioni sia sulla quantità e qualità delle entrate e delle uscite pubbliche, dello Stato come degli enti locali, che sulle ragioni sulla crescita, tema che al massimo viene declinato in termini di conservazione dell’esistente, mai di sviluppo e innovazione.

Così tocca accontentarsi del fatto che non si faccia danno, o che se ne faccia il meno possibile. Come nel caso delle tre manovre di bilancio targate Meloni, a cui si finisce per dare una forzata sufficienza solo perché non producono i disastri dei governi Conte e perché annullano o riducono ai minimi termini le tante sciocchezze e promesse – si pensi, per esempio, all’idea salvianiana di rasare al suolo la legge Fornero – che erano nei programmi delle forze di maggioranza e sulla base delle quali hanno raccolto i voti che le hanno portate al governo. Ma anche curare i sintomi e non le cause è comunque un errore che alla lunga aggrava la malattia. Giorgia Meloni è arrivata a palazzo Chigi alimentando la speranza che le cose sarebbero profondamente cambiate, e non difettando di autostima sostiene che il suo governo “ha avuto più coraggio di quello che ha avuto la sinistra quando era al governo”, che poi è la stessa affermazione che faceva la sinistra quando le è toccato di succedere al centro-destra nella guida del Paese.

Ma in questi due anni, Meloni ha mostrato di non avere un disegno di politica economica. Si è affidata al buon senso e alla moderazione, si è fatta apprezzare per quelle che ho chiamato “positive contraddizioni” – dal rifiuto dell’euro in giù, sono tante le cose che, per fortuna, da presidente del Consiglio si è rimangiata – ma il tutto senza la cornice di un’idea di società e di un bagaglio programmatico conseguente. E non è sfuggita all’imperante “momentismo”, di cui è affetta la politica priva di solidi ancoraggi culturali e legata più ai leader che alle idee. Come ha efficacemente spiegato il professor Gianfranco Pasquino, i difetti di Meloni, purtroppo, sono però attribuibili in egual misura alle opposizioni, incapaci di controproposte che diano il segno di un disegno di respiro, di un’idea di società. Pasquino invoca la necessità di cogliere l’occasione della legge di bilancio per l’elaborazione da parte di tutte le forze che estranee alla maggioranza, di una “contro finanziaria” comune che certifichi preventivamente quali scelte faranno quando dovessero vincere le elezioni. Io vado oltre. È giunto il momento che la rivisitazione del bilancio dello Stato la facciano, insieme, tanto le forze di maggioranza che di opposizione. Lo impone un fatto tecnico, la durata settennale del Piano strutturale di bilancio, che scavalla le legislature e dunque richiede una fase di gestione comune. E lo impone la condizione del Paese, se lo si vuole finalmente sottrarre al declino e (ri)accompagnare sulla strada dello sviluppo e della modernità. 

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