Corte Costituzionale, una pagina nera
NON SI TRATTA COSÌ LA DEMOCRAZIA. DOPO LE FORZATURE BIPARTISAN SULLA CONSULTA C’È IL RISCHIO SPARTIZIONE
di Enrico Cisnetto - 12 ottobre 2024
Il governo e la maggioranza si muovono per forzature. Le opposizioni preferiscono gridare allo scandalo piuttosto che fare proposte. Dopodiché tutti si rifugiano sull’Aventino, per evitare di palesare nel segreto dell’urna le loro divisioni interne. Così la Corte Costituzionale resta ancora una volta senza uno dei suoi 15 membri, o meglio uno dei 5 che spetta alle Camere eleggere (gli altri sono 5 ciascuno nominati dal Presidente della Repubblica e dalle magistrature), dopo 31 tentativi in ben 11 mesi. E così il Parlamento è ancora una volta mortificato, ridotto a ring dove va in scena la contrapposizione permanente tra forze che si sforzano di apparire incompatibili ma che in realtà sono accomunate da un uguale (e intollerabile) tasso di incultura istituzionale e di becero populismo. Il tentato, e mancato, blitz parlamentare per eleggere alla Consulta il consigliere giuridico di Giorgia Meloni, Francesco Saverio Marini, scelto perché estensore materiale del testo sul premierato più che per i suoi titoli giuridici, che pure ci sono e legittimerebbero la sua candidatura, ci restituisce un quadro avvilente prima ancora che preoccupante della condizione della nostra democrazia rappresentativa. Non è tollerabile che un organo dell’importanza, pratica e simbolica, come quella che ha la Consulta, resti per un anno senza un suo membro e il Parlamento non trovi il modo, nonostante i richiami del Capo dello Stato, di costruire un’intesa su un nome condiviso, sapendo, peraltro, che quell’uno non potrà spostare più di tanto gli equilibri decisionali dei giudici supremi.
Sia chiaro, è ipocrita chi dice che la Corte deve essere apolitica, perché chi ha l’incarico di sovraintendere alla costituzionalità delle leggi fa parte integrante del sistema politico-istituzionale del Paese. Ma, come ha ottimamente spiegato Stefano Folli, la nostra Consulta non è la Corte Suprema federale degli Stati Uniti, dove i nove giudici (a vita) sono nominati dal Presidente, e poi passati al vaglio del Congresso, e si divide tra giudici conservatori e progressisti come si è visto nel caso del processo federale a Trump per aver cercato di rovesciare l’esito delle presidenziali del 2020 estendendo a suo favore (6 a 3 il voto) l’immunità penale dei presidenti statunitensi, una decisione che Biden ha definito un “pericoloso precedente”. No, la nostra Corte è stata pensata dai padri costituenti come un organo di equilibrio istituzionale, difficilmente conquistabile e dunque non piegabile al volere partitico. Ed è per questo che per i 5 membri di nomina parlamentare (Camere in seduta congiunta) è richiesta la maggioranza dei due terzi nei primi tre scrutini (403 voti su 605) e dei tre quinti (363 voti) dal quarto scrutinio in poi, cioè soglie tali da escludere che i prescelti non siano ad appannaggio esclusivo della maggioranza di governo. Numeri di cui la presidente del Consiglio non dispone. Per questo la sua decisione di fare “prove tecniche di premierato” (copyright Linkiesta) forzando la mano su un candidato così targato come Marini – autore di una pessima legge, sul piano tecnico, al di là di quello che si pensi sul premierato – invece di aprire un dialogo con le opposizioni, o almeno una parte di esse, è stata un errore politico autolesionistico, oltre che un atto di arroganza istituzionale. E non si parli di atto precluso per ragioni ideologiche, perché il padre di Francesco Saverio Marini, Annibale, a suo tempo divenne presidente della Consulta nonostante fosse un giurista di esplicito orientamento missino. Tra l’altro Meloni ha ripetuto lo stesso errore di calcolo politico commesso per la Rai: era convinta di aver messo il piede in mezzo alla porta che collega 5stelle e Pd, visto che i grillini e il duo Verdi-Sinistra avevano votato ed eletto i propri rappresentanti nel cda al contrario del Pd, ma Conte al momento buono si è dimostrato inaffidabile (c’era bisogno della controprova?) e la candidata alla presidenza, Simona Agnes, è rimasta fregata. Una forzatura, quella studiata a palazzo Chigi, che spiega l’irritazione di Meloni quando l’indicazione di scuderia fatta girare nella chat di FdI per mobilitare le truppe al voto è finita sui giornali, dando la stura all’ennesima evocazione di complotti ai danni suoi, della sua famiglia e del suo disegno politico. Confondendo la fisiologia – la politica è fatta di trame e popolata anche di talpe e spie – con la patologia. Il fatto che il governo abbia fatto sapere che andrà avanti ad oltranza con un voto a settimana sulla sua proposta, ci dice che la vicenda non ha insegnato niente e quanto sia scarsa la consapevolezza dell’opportunità di cambiare registro.
Purtroppo, sulla vicenda della Consulta, non meno riprovevole è stato il comportamento delle opposizioni, che si sono mostrate incapaci di proporre in alternativa un nome autorevole che potesse mettere in imbarazzo almeno una parte (per esempio Forza Italia) della maggioranza. E si sono rifugiate sull’Aventino, unico modo per evitare che qualcuno, specie dalle parti di 5stelle e Azione, si facesse venire la voglia di approfittare del voto segreto, come era stato nel caso dell’elezione di La Russa alla presidenza del Senato. Lo stesso motivo per cui la maggioranza ha optato per la scheda bianca: sottrarsi al voto “cifrato” (nome e cognome, solo cognome, iniziali dei nomi di battesimo, ecc.) e quindi riconoscibile. E questo perché tanto dalle parti della coalizione di governo – vedi la fronda di Salvini, i distinguo di Tajani, i mal di pancia dentro FdI – quanto da quelle delle opposizioni – nelle ultime settimane sono volati ripetuti schiaffi da Conte a Schlein – il livello di scontro è fortissimo, molto di più di quanto non sia tra i due fronti.
Ma non è detto che il peggio sia già passato sotto i nostri occhi. Per due ordini di motivi. Primo, perché prossimamente la Corte dovrà occuparsi della costituzionalità della legge Calderoli sull’autonomia regionale e sulla ammissibilità del referendum che intende bloccarla. Questione scottante, perché dietro l’apparente unità della maggioranza, si nascondono le diffidenze (a dir poco) di Meloni e Tajani. Per cui nei desiderata di palazzo Chigi c’è lo stop tanto alla consultazione popolare, per tener buona la Lega, quanto alla normativa medesima, rinviabile sine die con la scusa della mancata approvazione dei Lep, i livelli essenziali delle prestazioni e dei servizi che devono essere garantiti in modo uniforme sull’intero territorio nazionale (è dal 2001 che la Costituzione ne prevede la creazione, ma in 23 anni nessun governo ha provveduto). E, ingenuamente, si spera che il giudice subentrante possa fare la differenza. E così altrettanto quando la Consulta si dovrà occupare della separazione delle carriere dei magistrati e del referendum promosso da +Europa sullo ius soli. In attesa che poi giunga il turno del premierato.
Il secondo motivo per temere il peggio è dato dal fatto che a dicembre scadranno altri tre giudici della Corte di nomina parlamentare, tra cui il presidente Augusto Barbera. E c’è chi pensa che si debba attendere quel momento per eleggerne quattro secondo una logica di spartizione, e mentre uno non è spartibile, quattro sì. Ma attenzione: la “spartizione” non ha propriamente lo stesso significato della “condivisione”. E poco importa se nel passato (più prossimo che remoto) si è praticata la prima e non la seconda, perché perseverare è diabolico e perché, se non ricordo male, la destra ha conquistato il governo asserendo che avrebbe tolto di mezzo tutte le worst practices della sinistra. Mentre lettera e spirito della Costituzione vogliono che i candidati alla Corte vengano scelti con metodo bipartisan, proprio per assicurare loro il massimo di autonomia e autorevolezza. Come capite bene, un conto è spartirsi i posti e ciascuno si sceglie i suoi, assicurandosi reciprocamente il quorum, e un altro è condividere le scelte, evitando attribuzioni e marchiature.
Non c’è bisogno di aver studiato per sapere che, da un lato, la sovranità del Parlamento, l’autonomia di deputati e senatori, non a caso privi di vincolo di mandato, e la terzietà di un organo come la Consulta, siano principi sacri, e dall’altro che il dialogo, la mediazione, persino il compromesso, siano il sale della dinamica democratica. Peccato che proprio a tutto questo sia stata resa violenza. Dall’intero sistema politico. Offrendo uno spettacolo indecoroso, avvilente, deprimente. Ma la spiegazione non sta solo nell’infima qualità della classe politica, dotata di un senso delle istituzioni pari a zero. Alla base c’è soprattutto un sistema politico, il cosiddetto bipolarismo, che non solo non funziona – come è ormai evidente da troppi anni per tollerarne un’ulteriore prosecuzione – ma che, nella versione italica, ha nel dna un maledetto malinteso: l’idea che chi vince prende tutto e a chi perde non rimanga altro che attendere la prossima occasione. Senza che alcuna relazione politica possa mettere in contatto i due poli, visto che la cultura dell’antipolitica ci ha fatto credere che, nel caso, saremmo di fronte a quella mercimoniosa pratica dell’inciucio o, nel migliore dei casi, a quella deplorevole del consociativismo. Si tratta di una concezione malata della democrazia rappresentativa, resa ancora peggiore nei suoi effetti deleteri dal fatto che ormai storicamente le nostre coalizioni si formano solo per vincere le elezioni, e prive come sono di un minimo di omogeneità programmatica o vivono in una perenne conflittualità che impedisce di prendere decisioni (il centro-destra) o sono destinate a sfaldarsi (il centro-sinistra). Aggravante, questa, che richiederebbe a maggior ragione la creazione di canali di dialogo tra i due fronti, la cui mancanza – certificata dalle ripetute scelte aventiniane – finisce per paralizzare il sistema.
Dunque, non basta deprecare e auspicare. Serve la consapevolezza che a dover essere cambiato, radicalmente, è il sistema politico nel suo insieme. Premessa indispensabile per invertire la tendenza orientata al dilettantismo del personale politico. Chi di questa consapevolezza è dotato alzi la mano e faccia un passo avanti.
L'EDITORIALE
DI TERZA REPUBBLICA
Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.