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L'editoriale di TerzaRepeubblica

La proposta (che manca) sul debito

ERRORE EVOCARE “SACRIFICI” SENZA SPIEGARNE RAGIONI E OBIETTIVI. MA DESTRA E SINISTRA LANCIANO ANATEMI SENZA UNO STRACCIO DI INIZIATIVA.

di Enrico Cisnetto - 05 ottobre 2024

Vade retro, spettro di Mario Monti. Gronda ipocrisia populista la stizzita reazione, politica e mediatica, alle parole usate dal ministro Giancarlo Giorgetti – “sacrifici per tutti” – per farci sapere che le manovre di bilancio che si appresta a fare, quella per il 2025 e il piano settennale preteso dall’Europa, dovranno essere particolarmente rigorose. È vero, la tempistica è stata infelice – non si parla di cose market sensitive a Borsa aperta – e la modalità è apparsa poco opportuna, perché di queste cose si parla o nelle sedi istituzionali o in quelle strettamente politiche (ma mi rendo conto della vacuità delle prime e dell’inesistenza delle seconde). E se si è subito pronti alla retromarcia, come ha fatto Giorgetti, che cuor di leone non è mai stato, meglio tacere. Tuttavia, l’uscita del ministro dell’Economia ha almeno tre pregi. Il primo è che la provocazione – la definisco in questo modo non perché la creda tale, ma perché così si è limitata ad essere, purtroppo – riporta meritoriamente l’attenzione sul tema, sempre accantonato, del risanamento delle finanze pubbliche. Certo, la parola “sacrifici” andrebbe pronunciata dopo aver detto la verità sulle reali condizioni del Paese e accompagnata da proposte che spieghino l’obiettivo virtuoso degli sforzi che si chiedono. Ma chi l’ha subito rigettata, non ha fatto queste osservazioni, ha solo lanciato un anatema. Il secondo pregio è che stana il governo, a cominciare dalla presidente del consiglio, e la maggioranza che lo sostiene, costringendo tutti ad uscire allo scoperto su un tema tabù, su cui si preferisce stendere un velo pietoso, come dimostrano le prime repliche alle parole di Giorgetti. Infine, l’evocato rigore mette con le spalle al muro le opposizioni che, come al solito, si muovono lungo una linea di perfetta ambiguità. Vediamo in dettaglio.

Abbiamo un debito pubblico che avrebbe già superato i 3 mila miliardi se l’Istat non fosse intervenuta a rettificare le cifre del recente passato, e a politiche invariate potrebbe salire fino al 168% del pil in 10 anni. Per effetto del nuovo Patto di Stabilità europeo, siamo ufficialmente in procedura di infrazione per deficit eccessivo, che va ricondotto stabilmente sotto la soglia del 3% (ergo fino al 2031 circa 13 miliardi di riduzione strutturale, cioè al netto di una tantum e fattori passeggeri), con il monito per una vulnerabilità relativa al debito che comporta un contenimento e una rimodulazione della spesa netta primaria entro 4 anni, tale da permettere una riduzione del debito pubblico in un arco temporale di 10 anni per almeno un punto all’anno. E quanto può reggere un sistema previdenziale che vede aumentare sia il numero dei pensionati – perché pur avendo fissato la quiescenza a 67 anni, nella realtà con le uscite anticipate concede l’età pensionabile a 64 anni – sia la lunghezza del trattamento per effetto dell’incremento dell’attesa di vita, mentre si restringe la platea dei contributori, cioè i lavoratori attivi, che peraltro nella fascia under 30 prendono stipendi da fame? (per saperne di più, partendo dalla recente fotografia del pianeta pensioni fatta dall’Inps, si veda la War Room di venerdì 4 ottobre, condotta da Alessandro Barbano, con Luciano Capone, Giuliano Cazzola ed Elsa Fornero, qui il link). Inoltre, siamo il paese che dagli anni Novanta ad oggi ha visto crescere la propria ricchezza nazionale meno di tutti i competitor e di tutte le aree emergenti del mondo. Un “male oscuro”, quello della crescita anemica, che si nutre di un altro tumore, la bassa produttività, dovuta soprattutto allo scarso livello di innovazione, tecnologica e di processo: dal 1995 è rimasta sostanzialmente flat, relegandoci all’ultimo posto tra i paesi Ocse.

Ora, trovandoci in una situazione del genere, sarebbe ragionevole che la classe dirigente del paese si spaccasse il cervello per trovare il giusto modo per quadrare il cerchio del risanamento finanziario e del rilancio dello sviluppo. Che poi, basterebbe andarsi a studiare le diverse proposte che da anni sono state avanzate per venirne a capo. Invece, ecco che se il ministro che porta sulle sue spalle la responsabilità di mettere nero su bianco le politiche di cura del bilancio e dell’economia, si permette di evocare, peraltro genericamente, la necessità di fare sul serio, partono immediatamente gli stop e i distinguo. Giorgia Meloni, dopo aver passato la vita (all’opposizione) a predicare tagli di tasse, spesa pubblica a gogò, età pensionabile ridotta, uscita dall’euro e quant’altro l’armamentario populista e sovranista offriva, pur sapendo che avesse ragione non ha per nulla apprezzato l’uscita di Giorgetti. Pur non rilasciando dichiarazioni, non ha mancato di far trapelare il suo disappunto per non essere stata informata preventivamente e per via di quella caduta di un punto e mezzo dell’indice della Borsa. In realtà, l’ira meloniana è per l’uso di quella parola, “sacrifici”, che viene considerata il modo più sicuro per perdere voti, essendo il consenso la vera ossessione che anima la presidente del Consiglio come tutta l’attuale classe politica. Come scrive Francesco Cundari nella sua imperdibile nota quotidiana, quasi che si fosse vista trasformata in una novella Mario Monti. Ma tutto il centrodestra ha girato le spalle al ministro. Mentre è in corso il tentativo di farsi dare “spontaneamente” da banche, compagnie di assicurazione e grandi imprese quella una tantum che col nome sbagliato di tassi sugli extraprofitti (chi e con quale criterio stabilisce ciò che è ordinario e ciò che è straordinario negli utili di qualunque impresa?) si è imposta l’anno scorso fallendo miseramente, Forza Italia è impegnata a difendere il fortino delle banche e la Lega quello delle imprese diffuse, e ciò spiega perché l’irritazione di Tajani e Salvini non è stata inferiore a quella di Meloni.

Ci fosse però qualcuno che si prende la briga di dire agli italiani che non è più possibile la convivenza con questo livello di debito, che ogni anno produce oltre un centinaio di miliardi di interessi passivi (per il cosiddetto “servizio del debito” nel 2022, ultimo dato disponibile, il Tesoro ha pagato in media il 4,4%, spendendo più di quanto l’Italia destini alla spesa per l’istruzione). No, si preferisce raccontare balle. Come quella che quest’anno non avremmo più assunto la droga dei bonus, salvo inventarsi il bonus di Natale e accapigliarsi per definire quale platea possa riguardare, coppie di fatto comprese. O pensare di risolvere la crisi demografica con il bonus mamme da 800 euro, già sperimentato quest’anno. E a proposito della manovra scorsa, il principale obiettivo del governo è confermare tutte le misure presenti nell’ultima legge di bilancio, che nel solo 2024 hanno procurato benefici alle famiglie per un totale di 55 miliardi, nonostante che manchino all’appello tra i 20 e i 30 miliardi.

In tutto questo dal fronte delle opposizioni, invece che incalzare il governo denunciando che non basta essere prudenti rispetto alle promesse elettorali, come è stato fin qui, per far uscire il paese dal declino, cerca di strappargli la bandiera della demagogia facendogli concorrenza sullo stesso terreno, facendo credere che sia possibile perseguire contemporaneamente l’aumento dei consumi e gli investimenti pubblici, invocando distribuzione di reddito che non c’è o avanzando proposte impraticabili come la riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario. Un atteggiamento che da un populista di professione come Conte, da Landini, dalla sinistra radicale e dal Pd privo di retroterra politico-culturale che si riconosce nella Schlein, te lo aspetti e non stupisce, mentre lascia attoniti che non una voce si levi dal campo riformista.

Ma sul tema del fardello del debito pubblico e della necessità di affrontarlo una volta per tutte, prima che il bubbone ci scoppi in mano, si può fare un ragionamento serio, sgombro da luoghi comuni e asservimenti ideologici? Io dico di sì. Partiamo da un dato: nel loro complesso le famiglie italiane possiedono una ricchezza lorda valutabile in 10.500 miliardi, 5 volte il pil (20 anni fa era 6 volte). Di questo patrimonio, un po’ meno del 65% è rappresentato da immobili e beni reali, e un po’ più del 35% da attività finanziarie. Insomma, teniamo il capitale immobilizzato. La seconda considerazione è che l’Italia ha da tempo spostato il proprio baricentro dalla produzione del reddito alla gestione del patrimonio. Viviamo di rendite, anche se non di rendita, e così siamo diventati un “paese cammello”, che consuma le sue riserve senza riuscire a produrne di nuove. Una classe dirigente assennata questa valutazione dovrebbe farla. Ponendosi due domande: dove troviamo le risorse per gli investimenti che servono a rendere possibile un nuovo modello di sviluppo, basato sul profitto e sul lavoro anziché sulla rendita? E come facciamo a crescere se prima non ci liberiamo di una parte significativa del debito che ci zavorra? E se nel rispondere a questi interrogativi si dovesse arrivare alla conclusione che entrambi gli obiettivi devono giocoforza essere finanziati dal patrimonio, pubblico e privato, io non credo che ci sarebbe nulla di scandaloso. Si tratta però di vedere come si realizza questa sorta di grande conversione. Quella di tassare i grandi patrimoni immobiliari e finanziari è la via più facile, ma anche la più ruvida e punitiva. Viceversa, provare a riconvertire quei patrimoni in attività produttive, usando il doppio pedale degli incentivi e dei disincentivi, sarebbe la strada più complicata ma anche quella maggiormente virtuosa.

Da tempo molte componenti pensanti della nostra società, e io mi annovero immodestamente tra queste, hanno avanzato proposte precise. La più convincente, ai miei occhi, è la seguente: si crei una società veicolo da quotare in Borsa in cui mettere quegli asset, prevalentemente immobiliari ma anche mobiliari, che il Tesoro asserisce essere la parte più facilmente valorizzabile dei 1800 miliardi totali di patrimonio pubblico (si va da 400 a 800 miliardi, a seconda delle valutazioni); il patrimonio non sia venduto tutto e subito, correndo così il rischio di essere svenduto, ma venga utilizzato solo dopo essere stato valorizzato e messo sul mercato a singoli pezzi; con il ricavato si riduca il debito (e quindi anche il deficit per via di minori oneri passivi), portandolo sotto la soglia del 100% più vicino possibile alla media Ue del 91%, e si finanzi la ripresa con investimenti in conto capitale, nella misura rispettivamente di due terzi e un terzo; ad essa si leghi una “patrimoniale light”, sotto forma di acquisto forzoso di titoli (azioni e/o obbligazioni convertibili) della medesima società quotanda il cui ricavato sia utilizzato come sopra. Light perché della patrimoniale ha l’elemento coercitivo (come tutte le tasse), ma nello stesso tempo mette in condizioni chi paga di avere in cambio un valore, cioè un titolo capace di generare un rendimento e negoziabile sul mercato secondario. Una differenza davvero non da poco rispetto ad una tassa “vuoto a perdere”. E non ci si venga a dire che così si farebbe concorrenza alle emissioni di nuovi titoli di Stato, perché se alle aste la domanda supera di addirittura dieci volte l’offerta, non ci sarebbe alcun problema a soddisfare entrambe le esigenze.

Naturalmente, questa “manovrona liberal-keynesiana”, che potremmo definire la versione nazionale del piano europeo proposto da Mario Draghi, con cui si raggiungerebbe il sempre agognato e mai centrato obiettivo di rendere compatibili rigore di bilancio e politiche di crescita, dovrebbe essere accompagnata da quelle riforme strutturali che non solo non abbiamo fatto, ma che in qualche caso sono state addirittura vanificate da vere e proprie “controriforme”. La prima delle quali è la riforma del sistema politico, indispensabile perché è chiaro che oggi le condizioni politiche per realizzare un disegno strategico di questa portata, che richiede un alto tasso di credibilità da parte di chi lo propone, non ci sono.

Difficile? Difficilissimo, al limite della temerarietà, vista la distanza siderale che separa questa ambizione dall’agenda che ci viene quotidianamente propinata. Ma l’alternativa è soccombere.

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Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.