ultimora
Public Policy

L'editoriale di TerzaRepubblica

Guerra in Medio Oriente e noi

IL CONFLITTO SI ALIMENTA SE NOI CI DIVIDIAMO TRA NEMICI DI ISRAELE (QUANDO NON DEGLI EBREI) E ACRITICI FANS DI NETANYAHU

di Enrico Cisnetto - 28 settembre 2024

Si può essere profondamente amici di Israele e dissentire in tutto o in parte sull’azione del governo Netanyahu? Sì. Si può volere sinceramente la pace in Medio Oriente e mettere sullo stesso piano l’azione terroristica di Hamas del 7 ottobre 2023 e le successive reazioni israeliane o considerare equivalenti la democrazia di Tel Aviv e la teocrazia di Teheran? No. Mentre il Medio Oriente è sull’orlo di una guerra totale, che potrebbe diventare mondiale se si dovesse saldare con quella scatenata da Putin in Ucraina – e ce ne sono tutti i presupposti, a cominciare dal legame sempre più stretto tra Iran e Russia – l’approccio alla questione che hanno molti governi e larga parte delle opinioni pubbliche occidentali è di natura morale quando non ideologica, cosa che non aiuta a formulare un giudizio privo di pregiudizi. Ed è questa realtà deformata che ha prodotto un clima di ostilità “a prescindere” verso Israele, che si è subito trasformata in una pericolosissima ondata di antisionismo e antisemitismo (la distinzione ha ormai perso significato), investendo gli ebrei in ogni angolo del mondo.

Se si vuole essere laici nel guardare a quanto succede tra la striscia di Gaza e il Libano, non si può che partire (almeno) dal 7 ottobre dell’anno scorso, cioè dalla terribile carneficina, con tanto di sequestro di ostaggi, perpetrata da Hamas nel cuore di un’Israele colpevolmente impreparata. Attacco, ricordiamolo, deciso proprio quando si stava chiudendo un patto, figlio dei cosiddetti Accordi di Abramo, che avrebbe normalizzato le relazioni diplomatiche tra Arabia Saudita e Israele, da allora entrato in crisi, che avrebbe messo con le spalle al muro l’Iran e i suoi bracci armati.

Ed è inaccettabile la rapida rimozione che è stata fatta di questo punto di partenza, spesso considerandolo non un atto terroristico ma di difesa, legittimato da una arbitraria riscrittura della storia, dall’insediamento ebraico in Palestina fino ai giorni nostri. Rimozione la cui conseguenza è stata porre l’attenzione esclusivamente sulla reazione del governo di Tel Aviv, con ciò arrivando e negarne la liceità a prescindere dal giudizio di merito su come si è dipanata. Cosa che ha poi spianato la strada alla giustificazione, magari tacita ma pur sempre tale, agli attacchi di Hezbollah – come ha giustamente ricordato l’ambasciatore Massolo in un’intervista, i loro razzi cadono ininterrottamente sul nord di Israele dall’8 ottobre 2023, causando l’esodo di 70 mila israeliani – e del gruppo yemenita degli Houthi nel Mar Rosso che ha costretto il trasporto via mare mondiale a battere nuove rotte (poi sospesi quando la Cina si è accorta che venivano danneggiati i suoi traffici commerciali).

È evidente che se il metro di giudizio è quello usato da quel “dittatore” di Erdogan (espressione usata da Draghi quando era presidente del Consiglio) che all’Onu ha definito Netanyahu “killer”, “criminale” e “l’Hitler di oggi”, allora svanisce ogni possibilità di entrare nel merito della reazione messa in campo da Tel Aviv in questo anno che è ormai trascorso dal 7 ottobre. Un pregiudizio inaccettabile ma che, paradossalmente, ha favorito Netanyahu e i gruppi di estrema destra e di radicalismo religioso che sorreggono, condizionandolo fortemente, il suo governo. A questo si aggiunga la debolezza di quella che una volta era la leadership americana. Biden, all’Assemblea generale dell’Onu, ha rivendicato il ruolo svolto dalla sua amministrazione nella crisi mediorientale, prima a Gaza e ora in Libano. Ma mentre la Casa Bianca ha fatto bene ad assicurare a Israele tutte le armi e il sostegno internazionale di cui aveva bisogno, nello stesso tempo male ha fatto ad inscenare una plateale avversione alle sue tattiche militari accettando che Netanyahu ignorasse bellamente le critiche e addirittura si facesse gioco di Biden. Il ruolo degli Stati Uniti non poteva e non doveva essere quello di un segretario di Stato, Blinken, volenteroso ma inconcludente, che evoca continuamente un cessate il fuoco che non ottiene, esponendo un punto di vista umanitario comprensibile ma che spetta ad altri attori. Ai tempi di Kissinger non sarebbe successo.

La verità è che tutto questo, il prevalere dei pregiudizi anti-israeliani e la debolezza americana, ha finito per soffocare i ragionamenti di merito. Già complicati di per sé. Perché la tattica di Netanyahu, rispondente al principio “colpisci il nemico prima che esso colpisca te” e avente come obiettivo l’azzeramento totale di Hamas prima e di Hezbollah poi, tra coloro che hanno a cuore le sorti di Israele dà adito a due opposte valutazioni, entrambe con dei pro e dei contro. Chi sostiene questi attacchi preventivi contro i terroristi dice che, in fondo, evitano il conflitto diretto tra Tel Aviv e Teheran perché il regime degli Ayatollah ne esce indebolito e viene resa palese la sua incapacità di contrattacco. Una tesi confermata dal fatto che, nonostante i molti minacciosi annunci, l’Iran ha sempre reagito in modo più scenico che concreto, segno che lo Stato islamico non voleva e tuttora non vuole una guerra aperta, sapendo di non potersela permettere. Tra l’altro, indebolire l’asse sciita degli Ayatollah può rappresentare un favore fatto a tutti i sunniti del Medio Oriente. C’è però l’altra faccia della medaglia di questa strategia della deterrenza, e cioè che l’aggressività di Israele finisce per alimentare l’odio antiebraico, in loco e nel mondo. Inoltre, la guerra di Netanyahu può rivelarsi un favore agli estremisti islamici, perché li mette in condizione di sobillare la propria gente, impedendole di capire che, invece, sono i vertici delle organizzazioni terroristiche a usare palestinesi e libanesi come carne da macello mentre loro vivono (o vivevano, visto che molti sono stati fatti fuori) negli agi delle coperture fornite dai paesi sodali. Insomma, come capite ci sono ragioni che militano a favore di entrambe le tesi, ma non riuscire a imporre questa linea di discussione favorisce sempre di più l’avvicinarsi alla guerra totale. E Dio non voglia che abbia fondamento il timore espresso da uno dei più lucidi analisti della crisi mediorientale, Bernard-Henri Lévy, quando dice che se la guerra totale si facesse davvero e se Israele la dovesse perdere, per lo Stato ebraico sarebbe peggio dell’Olocausto.

Credo che avessero ragione gli ospiti della mia War Room di martedì 24 settembre, Claudio Bertolotti, Guido Olimpio e Riccardo Sessa (qui il link), quando hanno spiegato come sia stato velleitario e controproducente il tentativo israeliano di annientare Hamas puntando alla distruzione o alla conquista dei cunicoli scavati sotto Gaza, sottovalutandone l’ampiezza, e come sia invece efficace la tattica degli attacchi mirati verso la dirigenza delle organizzazioni terroristiche usata ultimamente, a cominciare dalle brillanti operazioni di intelligence con cui in progressione sono state fatte saltare prima le comunicazioni telefoniche tra Hezbollah e Teheran, poi i cercapersone e gli walkie-talkie con cui quelle comunicazioni erano state sostituite, impedendo così ai miliziani di riorganizzarsi. Ma, soprattutto, i miei interlocutori avevano ragione nell’imputare a Netanyahu l’assenza di una strategia per “il dopo”, la mancanza di un punto di caduta che non fosse quello di una guerra allargata, cui Israele non ha interesse tanto quanto l’Iran. Il potere teocratico di Teheran andava, e andrebbe, attaccato aiutando con tutti i mezzi possibili la rivolta popolare, a cominciare da quella delle donne e dei giovani ma senza dimenticare quella degli operai e di chi soffre la crisi economica mentre il paese spende per dotarsi dell’atomica e per armare persino la Russia dell’amico Putin. Invece questo non è stato fatto per nulla, tanto che uno dei più gravi peccati che l’Occidente ha sulla coscienza, a cominciare da quella dei tanti paci-finti che bruciano sulle piazze e nelle università le bandiere di Israele, è di infischiarsene delle tante ragazze che vengono arrestate e malmenate, quando non uccise, perché ree di non mettere il velo o di vestirsi e di comportarsi secondo un principio di libertà. Peccato che fa il paio con il disinteresse per le donne afghane, cui i talebani impediscono persino di cantare, recitare e leggere ad alta voce in pubblico.

Tornando da dove sono partito, mi pare che si possa dire che criticare la politica di Netanyahu o, peggio, considerare il premier israeliano un pericolo per la democrazia dell’unico paese dell’area che è democratico (e non solo perché ci sono libere elezioni) non confligga con l’assunto che la guerra che Tel Aviv sta combattendo derivi dal pogrom del 7 ottobre 2023 e sia una risposta necessaria. E che la responsabilità della mancanza di una pace vera e duratura con i palestinesi sia da ricondurre a chi ha deliberatamente fatto saltare gli accordi di Abramo – i terroristi esecutori materiali, l’Iran mandante – che avrebbero portato ad una svolta storica, non a una fragile tregua che ora si imputa ad Israele di non volere. 

Se si dovessero rivelare esatte le informazioni della nostra intelligence, che accredita come altamente probabile un attacco di terra israeliano in Libano prima del voto americano del 5 novembre, che inevitabilmente porterebbe ad un massacro di civili e quasi certamente genererebbe quella tanto temuta escalation, il quadro si farebbe ancora più difficile. Tanto più se si considera che la guerra totale mediorientale si salderebbe con il reiterato ricorso alla minaccia nucleare da parte di Putin, come prosecuzione con altri mezzi e altri obiettivi dell’invasione in Ucraina, e alla pericolosa penetrazione della Russia in Africa, che ora sta conquistando quella culla del jihadismo che è il Sahel occidentale (Mali, Niger, Burkina Faso), dopo che Stati Uniti e Francia hanno lasciato che si instaurassero, a suon di golpe, regimi militari corrotti. Se Netanyahu davvero lo facesse, è perché scommetterebbe su una reazione iraniana ancora una volta simbolica. Un azzardo che, se anche dovesse rivelarsi vincente, non riempierebbe quel vuoto di strategia sul dopo che resta, a mio avviso, il vero motivo di accusa nei suoi confronti. Un capo di imputazione politico, però, non morale. Perché resta il fatto che la guerra l’ha scatenata l’Iran per il tramite di Hamas, e tutto quello che è venuto dopo, eccessi e crimini compresi, fanno parte delle atrocità che qualunque guerra produce. 

p.s. L’Italia finora è riuscita in un esercizio di equilibrismo, che peraltro viene da lontano, che le ha consentito di essere, o forse sarebbe meglio dire apparire, amica di Israele senza sembrare nemica dei nemici di Israele, e di recitare le giaculatorie pacifiste, in questo agevolata dalla vicina presenza del Papato, che lavano coscienza e fanno tanto politicamente corretto. Ma se il conflitto dovesse varcare l’attuale perimetro, e se poi questo si dovesse combinare – facciamo i debiti scongiuri – con una vittoria di Trump, allora il doppiogiochismo verrebbe spazzato via e Roma si troverebbe nella complicata situazione di dover fare delle scelte di campo. Sarebbe d’uopo che dalle parti del governo comincino a fare qualche riflessione.

Social feed




documenti

Test

chi siamo

Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.