ultimora
Public Policy

L'editoriale di TerzaRepubblica

Coalizioni incoerenti e bipolarismo fallito

DA FITTO SENZA POTERI IN EUROPA ALL'IPOCRISIA BIPARTISAN SULL’USO DELLE ARMI FORNITE ALL’UCRAINA

di Enrico Cisnetto - 21 settembre 2024

C’è un filo che lega saldamente la postura assunta dal governo Meloni in sede europea, e di cui la candidatura di Raffaele Fitto a rappresentante italiano in seno alla Commissione Ue ne è la conseguenza, e la scelta “neutralista” di palazzo Chigi, di fatto condivisa da tutte o quasi le forze politiche senza distinzioni tra destra e sinistra, di mancata approvazione della mozione con cui l’europarlamento ha dato il via libera a Kiev per l’uso delle armi fornite dai paesi occidentali per colpire le basi russe da cui partono gli attacchi verso l’Ucraina. E ce n’è un altro, filo, che collega la riconferma di Ursula von der Leyen e la formazione della sua squadra con la scelta di sostegno incondizionato a Zelensky, ed è rappresentato dalla sostanziale tenuta, salvo qualche eccezione (italiana), della maggioranza di centro-sinistra che si appresta, in continuità con la precedente legislatura, a governare l’Europa. Vediamo logiche e conseguenze di entrambi questi fili, partendo dalla nomina – in attesa di ratifica parlamentare – di Fitto (a supporto si vedano la War Room di martedì 17, qui il link, e di mercoledì 18, qui il link).

Trovo sbagliate e fuorvianti il grosso delle reazioni all’annuncio dei gradi assegnati dalla presidente von der Leyen al commissario italiano. Esse sono frutto di un errore, credere che forma e sostanza si equivalgano, e di una doppia commistione, quella tra la rappresentanza del paese, del governo e di una parte politica, tre cose profondamente diverse che non vanno confuse. La nomina di Fitto ha un valore positivo se si pensa che all’Italia è stato riconosciuto il rango di nazione cui spetta una vicepresidenza esecutiva, ma negativo se si valuta il peso delle deleghe che gli sono state assegnate in quanto esponente di una forza politica che si è opposta alla riconferma di Ursula von der Leyen e di un governo che su un punto così importante si è spaccato, con i parlamentari di Fratelli d’Italia e Lega contro e Forza Italia a favore. Esultare per il primo aspetto, ignorando il secondo, significa considerare gli italiani come un branco di allocchi. La vicepresidenza è un titolo onorifico, visto che ce l’hanno in sei e per di più in un contesto in cui si è rafforzato, nei fatti, il ruolo della presidente, la quale, facendo leva sulla debolezza politica di Macron e Scholz, ha realizzato il “premierato europeo”, per dirla all’italiana, senza neanche una legge che lo preveda. Dunque, le mostrine da vicepresidente non compensano un portafoglio di seconda categoria, ben lontano da quello, chiave, che negli ultimi 5 anni ha avuto Paolo Gentiloni. Infatti, i fondi di coesione sono già assegnati fino al 2028, quando il mandato sarà in scadenza, e quindi il buon Fitto avrà poco o niente da decidere. E il Next Generation Ue finisce invece nel 2026 e per di più si tratta di una responsabilità condivisa con il nuovo Commissario all’Economia, il rigorista lettone Dombrovskis, che ha appunto preso il posto di Gentiloni.

Ergo, a Bruxelles, Fitto – che comunque resta la miglior scelta che il governo Meloni poteva fare – conterà relativamente poco, e chi spera che Fitto possa essere in grado di ammorbidire la posizione della Ue sui conti italiani, rimarrà deluso. Anzi, ora, con von der Leyen che ha messo nero su bianco che sarà Dombrovskis a “garantire l’implementazione efficace del nuovo Patto di Stabilità”, si rischia che accada l’opposto. Il che dà la misura di quanto impervia sarà la strada del risanamento economico per il nostro Paese che quella che per taluni è una virata a destra di von der Leyen, in realtà significa che dopo cinque anni di “colombe”, adesso è tornato il tempo dei “falchi”. Per questo, Fitto – ammesso che superi il non facile ostacolo dell’approvazione parlamentare, che piazza l’asticella a due terzi del plenum – avrà di fronte a sé due strade ben poco piacevoli da imboccare: stare ai margini, in quanto esponente di una destra non propriamente amica dell’Europa, oppure scalare posizioni a Bruxelles, ma a patto di calzare i panni di un “intransigente” sul controllo della spesa dei fondi del Next Generation Eu, con tutto quello che ne consegue per il Pnrr italiano.

Tutto questo per effetto di un patto Ursula-Giorgia, neanche tanto segreto. Con il quale la prima si è assicurata la riconferma potendo fare a meno dei politicamente compromettenti voti meloniani, ma senza l’ostilità che le altre destre europee le hanno manifestato, per di più dando a Fitto il vantaggio della forma a discapito della sostanza. Mentre la seconda ha evitato i danni elettorali (presunti) e di isolamento rispetto alle destre continentali che il voto a favore avrebbe comportato (sicuri), e nello stesso tempo sul piano interno è stata messa nella condizione di sbandierare la nomina di Fitto potendo dire “avete visto, cari disfattisti, l’hanno fatto vicepresidente, cosa che Gentiloni non era”. Peccato che si tratti di magra consolazione, forse – e sottolineo il condizionale – utile ai fini del consenso di breve momento, ma di sicuro dannoso per gli interessi strutturali del Paese, che si ritrova privo di leve nella gestione della complessa macchina comunitaria, mentre se Meloni avesse votato a favore avrebbe potuto chiedere un ruolo ben più significativo in seno alla Commissione, a tutto vantaggio del Paese. Insomma, a dispetto di certe dichiarazioni e analisi, resta in tutta la sua gravità l’errore commesso con il voto di luglio, frutto della scelta di far prevalere gli interessi di partito su quelli nazionali. Speriamo che adesso lo stesso errore non lo commetta anche il Pd di Elly Schlein votando contro Fitto o anche solo astenendosi, con ciò subordinando l’interesse nazionale a quello di partito d’opposizione, magari nell’illusione che inseguire Conte, che si è già messo sulle barricate, favorisca la creazione del “campo largo”. Perché una cosa deve essere chiara: se Fitto non dovesse passare l’esame, il successivo commissario italiano avrebbe poteri ancora minori. E comunque qualcuno ricordi a Schlein che nel 2019 il gruppo meloniano di Ecr, allora presieduto proprio da Fitto, in sede di audizione parlamentare diede il via libera a Gentiloni.

Ma l’Italia esce da questa tornata europea più marginale di quanto già non fosse anche per un altro motivo: ha dato il peggio di sé nel voto su una risoluzione di popolari, socialisti e liberali per il sostegno all’Ucraina che contiene la richiesta di “revocare immediatamente le restrizioni sull’uso di armi occidentali contro obiettivi militari russi”. Da un lato, la maggioranza si è spaccata, con la Lega contraria a tutto mentre Fratelli d’Italia e Forza Italia si sono espresse a favore nel voto finale, ma hanno votato contro sia al paragrafo che cancella le restrizioni sia a quello che denuncia come “le consegne insufficienti di munizioni e armi e le restrizioni al loro utilizzo rischino di vanificare gli sforzi finora compiuti” (salvo tre benemerite eccezioni azzurre). Sull’altro fronte, mentre i 5stelle hanno confermato la loro vocazione filoputiniana votando contro a 360 gradi, il Pd si è frantumato tra astenuti, contrari e favorevoli sia sui paragrafi più contestati che nel voto finale, con bizantini distinguo anche nella pattuglia riformista, tra chi non ha proprio partecipato alla votazione per non mettere in difficoltà la segreteria piddina e chi invece è stato coerente infischiandosene delle alchimie interne al partito.

Ma l’altra faccia della frantumazione è anche peggio. Infatti, la quasi totalità dei parlamentari italiani a Strasburgo, unendo senza distinzioni destra e sinistra in una sorta di “solidarietà nazionale” malriposta, si è resa colpevole di aver esercitato l’ipocrita distinzione tra un’arma che colpisce i russi in territorio ucraino, considerandola “difensiva”, e una che colpisce laddove sono le basi russe da cui partono gli attacchi di cui sopra, considerandola “offensiva”. Con il risultato che tutti i principali partiti italiani si sono discostati dalla linea espressa dai loro gruppi europei di riferimento, A livello di paese, poi, oltre all’Italia solo l’Ungheria di Orban si è fregiata del titolo di finto amico dell’Ucraina. Né vale, anzi peggiora le cose, il fatto che, a quanto sembra, quel divieto di colpire in territorio russo con le armi fornite da noi sarebbe solo verbale, ma non sostanziale, in assenza di controlli e senza che l’eventuale uso vietato sia sanzionabile. Tanto più se questa “paraculata” non fosse frutto della sola volontà unilaterale di Kiev, ma di un tacito accordo con Roma (celebrato con l’abbraccio tra Zelensky e Meloni a Cernobbio?).

Guardate che qui non stiamo parlando di uno dei tanti temi su cui è normale e lecito che dentro un partito o all’interno di un’alleanza ci siano opinioni e sensibilità diverse. No, questa del supporto militare all’Ucraina è questione dirimente, perché attiene al tema imprescindibile della democrazia e della libertà, e di come debba essere difesa, e richiede che siano del tutto azzerati i margini di equivoco e di ambiguità. Per questo, come vado ripetendo da tempo, non è pensabile che dentro la maggioranza di governo non vi sia un chiarimento sulla politica estera, tanto più in vista del risultato, quale che esso sia, delle elezioni americane del 5 novembre, decisive per le sorti degli equilibri geopolitici mondiali (sul punto si veda la War Room di giovedì 19, qui il link). E pazienza se la frattura si dimostrasse insanabile, non si può governare un paese potenzialmente strategico come l’Italia nascondendo le divisioni sotto il tappeto come se fosse polvere. Ma, sia chiaro, lo stesso vale anche per il costituendo fronte che intende proporsi come alternativa al destra-centro, che certo non è credibile se sulla politica estera e sul posizionamento internazionale dell’Italia appare come una scatola di coriandoli. In particolare, caro Tajani e cara Schlein, che razza di leadership pensate di poter esercitare nelle vostre rispettive coalizioni se non siete neppure capaci di allinearvi rispettivamente al Ppe e al Pse e apparite succubi delle posizioni più estreme dei Salvini e Conte?

La verità è che il nostro sistema politico è articolato su due fronti che quotidianamente si delegittimano l’un l’altro mettendo mano, con violenza verbale, ad accuse pressoché definitive, ma poi le vere linee di faglia, quelle sostanziali, sono dentro i due poli. Le “incoerenti coalizioni”, le ha chiamate Panebianco (chissà se il mio amico Angelo, che ha sempre detto di preferire alla politica proporzionale quella maggioritaria anche se ha prodotto un bipolarismo bastardo, si è finalmente arreso all’evidenza). Sta di fatto che l’aver consentito il venir meno della pregiudiziale riguardante la collocazione internazionale del Paese, nella coalizione di governo come nell’alleanza di opposizione che aspira a sostituirla, ha significato e significa penalizzare in modo grave l’affidabilità strategica dell’Italia e di conseguenza compromettere la nostra capacità di affrontare le sfide, già di per sé complicate, che il riassetto multipolare del pianeta ci sta mettendo di fronte. Anche sotto forma di conflitto militare, 80 anni dopo la fine della seconda guerra mondiale. Tanto più che in entrambe le coalizioni albergano forze che hanno con la Russia di Putin, che ha mosso all’Europa e all’intero Occidente, un rapporto perfino più organico e funzionale di quello che durante la Guerra Fredda il Pci aveva con il Pcus, l’Unione Sovietica e il Patto di Varsavia, che pure gli valse la “conventio ad excludendum”.

Avviso ai naviganti: chi vuole salvare il Paese dal declino e dargli una prospettiva non può che partire da questa constatazione; chi ne prescinde fa piccolo cabotaggio di breve respiro, e sarà spazzato via dalla forza degli eventi.

Social feed




documenti

Test

chi siamo

Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.