Il grullo, l'arrampicatrice e i problemi veri
DOPO LA SOAP ESTIVA E L'ANNESSO DEGRADO POLITICO, ORA ARRIVANO LE QUESTIONI SERIE E NON CI SARÀ NIENTE DA RIDERE
di Enrico Cisnetto - 14 settembre 2024
Cari lettori, ben ritrovati. Avevo programmato di riprendere a scrivere questa newsletter già la scorsa settimana, ma non ce l’ho fatta. Lo schifo provato per la soap pompeiana, ultima di una lunga serie di meschine vicende che durante l’estate hanno tenuto banco dentro e intorno alla nostra politica, mi ha letteralmente paralizzato. Ma come, mi sono detto, siamo in guerra – seppure immersi in un’insopportabile ipocrisia – e dalle guerre siamo circondati. L’Europa è di fronte a scelte epocali dalle quali dipende la sua stessa esistenza, e l’Italia è chiamata a predisporre una manovra finanziaria proprio mentre il contatore del debito pubblico ci dice che stiamo per varcare la fatidica soglia dei 3 mila miliardi, e noi per settimane blocchiamo l’attenzione dell’intero Paese, a cominciare dai suoi vertici, intorno ad una miserevole vicenda i cui protagonisti sono un ministro grullo e palesemente inadeguato e una arrampicatrice sociale (è più elegante dire così) senza scrupoli? E per di più dividendoci tra difensori del merlo maschio e del suo privato da tutelare (sic!) e paladini politicamente corretti delle virtù femminili. Come se le due cose, la grullaggine e la paraculaggine, non potessero coesistere. Con l’aggiunta dell’immancabile partito degli “a-noi-non-la-date-a-bere” che pontificano su un intrigo ordito da menti sofisticate che avrebbero individuato nelle mutande di Sangiuliano lo strumento per far cadere il governo.
Se poi ci aggiungete le carte bollate in casa grillina e le vicende familiari delle Meloni sisters, tra una separazione a mezzo stampa e un surreale dibattito sulle loro vacanze, corredate dalla continua evocazione di complotti e macchinazioni a loro danno, a cominciare da una presunta indagine su Arianna e finendo con grandi manovre a tutela della privacy a palazzo Chigi, ben capirete, cari lettori, perché al cospetto del computer mi si sono atrofizzate le dita. Non che ora che finalmente sto mettendo in fila i pensieri, il clima sia migliorato. Sempre mefitico, è. Ma, almeno, la forza dirompente delle cose davvero importanti è sperabile che riprenda il sopravvento. Non fosse altro perché le sfide che ci attendono in autunno sono da far tremare le vene ai polsi. E non è un modo di dire.
La più importante, e pericolosa, è quella che come occidentali ed europei ci vede dover fronteggiare le autocrazie, almeno quelle, come la Russia di Putin, che si sono apertamente messe contro di noi. Quale sia il nostro dovere ce lo ricorda con parole inequivoche Tony Blair: “l’Ucraina non si sta battendo soltanto per sé stessa, ma anche per scoraggiare altre aggressioni. Se ci tirassimo indietro oggi, finiremmo per pagare un prezzo incomparabilmente più alto domani”. Peccato però che l’Italia, dopo aver assunto una posizione impeccabile di sostegno a Kiev, questa estate abbia cambiato idea: con l’Ungheria di Orban siamo gli unici ad esserci schierati contro l’uso delle armi per colpire le basi di Putin in territorio russo. Ci è stato raccontato che nella maggioranza si è ricondotto a più miti consigli il filo-putiniano Salvini, evitando che formalizzasse la proposta di sospendere tout court le forniture militari all’Ucraina. E che a sinistra il Pd abbia neutralizzato le posizioni “pacifinte” di Conte e del duo Bonelli-Fratoianni. Ma si tratta di pura ipocrisia, come quella che mira a distinguere l’uso difensivo da quello offensivo delle armi fornite. La realtà è che, come paese, diciamo di essere solidali con il martoriato popolo ucraino, magari dando anche un po’ di pacche sulle spalle a Zelensky come è successo a Cernobbio, ma poi gli neghiamo l’unico strumento che hanno per evitare di soccombere di fronte ad un aggressore che non si fa certo alcun scrupolo. Non si tratta di invadere la Russia, ma di colpire la sua struttura militare laddove è basata, per evitare che sia usata oggi ulteriormente contro l’Ucraina e domani contro altri paesi occidentali, dalla Polonia alla Finlandia. Invece un fronte quasi unico di Chamberlain all’italiana – con qualche rara quanto lodevolissima eccezione nel Pd, a cominciare dall’ex ministro della Difesa, Guerini, e nessuna nella maggioranza (che delusione Forza Italia!) – si è macchiato di un’insopportabile ambiguità, per non dire viltà, nei confronti di Kiev.
Una posizione, questa, che accentua la già accentuata marginalizzazione dell’Italia in Europa – vedi gli strali che ci lancia il commissario uscente Borrell – e che fa a pugni con uno dei cardini del piano per la competitività (ma in realtà per la rinascita) dell’Europa presentato nei giorni scorsi da Mario Draghi; quello relativo ai mega investimenti necessari per rendere l’Unione europea autonoma sul piano militare. Pur al netto di una certa autoreferenzialità e un filino di narcisismo, il report dell’ex presidente della Bce va al cuore dei problemi esistenziali della Comunità europea e rappresenta un colpo mortale assestato alle suggestioni sovraniste. E anche solo per questo è davvero molto importante. Non fatevi però ingannare da certi endorsement posticci che gli sono arrivati da anti e finto europeisti, della serie “Draghi dicendo che l’Europa è da rivoltare come un calzino ripropone le nostre critiche a Bruxelles”, perché la sua analisi e le sue copiose proposte (170) sono di tutt’altra pasta. Tant’è vero che l’asino casca quando Draghi sostiene che per rendere realizzabile il super piano Marshall da lui proposto va abolito il diritto di veto in seno alla Ue, anche a costo di creare un’Europa a più velocità. Su questo il sovranismo italico, quello esplicito e quello soffocato per ragioni di realpolitik, è insorto accusando Draghi di voler creare un Super-Stato che spoglierebbe le nazioni europee della loro autodeterminazione. Come a dire che l’europeismo, è un’altra cosa.
Considerato che neanche negli altri paesi si sono spellati le mani per applaudire Draghi – per esempio, il ministro tedesco Lindner ha subito impallinato la proposta di fare nuovo debito comune – e che la stessa Ursula von der Leyen, che pure dovrebbe far suo il piano, è parsa cauta, sembra dunque evidente che la linea di discrimine della posizione dell’Italia in Europa non passa tanto per Draghi, che tutto è considerato meno che un rappresentante degli interessi italiani, ma per l’assetto che sarà dato alla nuova Commissione Ue. E su questo fronte la partita è ancora apertissima. La riconfermata presidente sta infatti giocando due parti in commedia: da un lato, ha interesse a evitare una connotazione eccessivamente di sinistra della sua squadra, e dunque guarda con sincera disponibilità all’ipotesi di assegnare a Fitto – formalmente come italiano, in realtà come esponente della destra moderata – un incarico importante nonostante il voto contrario a lei arrivato da Meloni; dall’altro, sa di non poter tirare troppo la corda con gli alleati (socialisti, verdi, liberali e parte del Ppe) contrari a concedere posizioni rilevanti a esponenti di Ecr, e quindi può sempre riservarsi o di mandare un messaggio a palazzo Chigi dicendo “cara Giorgia, mi spiace, io ci ho provato ma se ti accontento salta tutto”. Oppure, ancor più perfidamente, incaricare Fitto come richiesto ma poi lasciarlo impallinare in sede di voto parlamentare. Vedremo.
Comunque sia, fin da ora sono chiare due cose. La prima: che Fitto diventi commissario di serie A o di serie B, in entrambi i casi sarà stata Ursula a usare a suo piacimento Giorgia, e non viceversa. Ergo, quello di Meloni di votare contro è stato e resta un grave errore politico, non fosse altro perché al contrario avrebbe messo in imbarazzo e in difficoltà sia von der Leyen sia l’area di centro-sinistra che l’ha appoggiata. E l’idea di poter giocare contemporaneamente la partita europeista e quella sovranista si è rivelato un atto di presunzione che rischia di farle perdere entrambe. La seconda cosa chiara è questa: se Fitto avrà la delega all’Economia, e tanto più se in essa sarà ricompresa la responsabilità sul Next Generation Eu (e quindi sul Pnrr italiano), egli sarà chiamato ad esercitare il massimo del rigore sia nell’applicazione del nuovo Patto di stabilità, sia nei controlli su quanto e come siano stati spesi i fondi europei. Insomma, Fitto non solo non sarà in grado di essere “un amico a Bruxelles”, ma rischia di dover calzare i panni di “un intransigente a Bruxelles”, con tutto quello che ne consegue. Poi, certo, uno può consolarsi pensando agli enormi problemi che albergano a Parigi (da sostenitore di Macron francamente mi sarei atteso una soluzione della crisi politica diversa da quella che si sta profilando, ma spero che l’Eliseo riesca ancora ad arginare l’influenza e la crescita della Le Pen), ma soprattutto a Berlino (dove solo il ritorno ad una rinnovata Grosse Koalition può impedire che una parte dei popolari commetta l’errore di aprire un fronte di dialogo con l’Afd dopo la vittoria dei neo-nazisti in Turingia e la forte affermazione in Sassonia). Ma solo gli stolti – e purtroppo ce ne sono tanti – possono credere che alle difficoltà di Francia e Germania corrisponda un vantaggio per l’Italia.
In conclusione, mentre “l’estate sta finendo e un anno se ne va”, per dirla con il tormentone canoro degli anni Ottanta, torna puntuale la domanda di sempre: quanti panettoni e quante colombe mangerà l’attuale presidente del Consiglio? Non mi sottraggo, anche se il vero quesito da porsi è: quanto potrà ancora resistere l’Italia ad affidarsi ad un sistema politico fallimentare e ad una classe dirigente inesistente? Circa la “resistenza” della Meloni, una cosa è certa: non dipende dalle alternative. E non solo perché non esistono, nonostante gli sforzi della povera (di contenuto) Schlein e del paraculo Renzi di rabberciare un campo più o meno largo. Ma perché, come è sempre accaduto nel nostro bipolarismo malato, a Roma i governi cadono per implosione. Insomma, il destino della Meloni è legato alla sua tenuta psico-fisica, la quale a sua volta dipende dalla forza con cui è in grado di sopperire alla totale mancanza di personale politico che riguarda il suo partito e di personalità che riguarda il suo inner circle, dalla abilità nel fronteggiare e limitare il logoramento cui la sottopongono gli alleati e, last but not least, dalla capacità, fin qui rivelatasi a dir poco scarsa, di evitare di finire preda della tensione emotiva generata dalla paranoia di essere vittima di trame occulte e complotti orditi da chissà quali mandanti. Poi, certo, ci sono anche i problemi veri da affrontare, a cominciare da quelli che troveranno risposta, o meno, nella prossima manovra di bilancio. Ma, paradossalmente, a logorare sono più i problemi che non esistono di quelli reali. Il fatto che si vadano accantonando, seppure sotto forma di semplice traslazione temporale, ambizioni sbagliate come le riforme istituzionali (premierato e autonomia regionale differenziata), è confortante. Ma non basta. Perché il Paese attende (da troppo tempo) che gli venga prospettato un grande progetto per il futuro basato su coraggiose riforme strutturali, un po’ come ha fatto Draghi per l’Europa. E di questo salto di qualità non si vede neppure l’ombra.
Consiglio a Giorgia Meloni, così come a tutte le altre comparse che si muovono sulla scena politica, di leggere il libro di Blair appena uscito “On leadership. L’arte di governare”. E in particolare di riflettere su questo concetto blairiano: “È il destino di ogni leader: all’inizio sei meno capace e più popolare. Con il tempo diventi molto più capace, e molto più impopolare”. Ma, aggiungo io, se temi l’impopolarità e di conseguenza la tua unica bussola è la ricerca ossessiva del consenso, più capace non lo diventi. E prima o poi, anzi più prima che poi, diventerai vittima della tua inadeguatezza.
L'EDITORIALE
DI TERZA REPUBBLICA
Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.