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L'editoriale di TerzaRepubblica

Italia fuori dalla partita Ue

CHE ERRORE ESCLUDERSI DALLE ALLEANZE EUROPEE L’ITALIA DEL MEGA DEBITO NON SE LO PUÒ PERMETTERE

di Enrico Cisnetto - 30 giugno 2024

“L’Europa non può prescindere dall’Italia”, dice il presidente Mattarella. Ha ragione: siamo un paese troppo grande, importante e strategico sul piano industriale e geopolitico per stare ai margini. Ma a maggior motivo vale il principio opposto, perché l’Italia non solo non deve ma non può permettersi di prescindere dall’Europa. Senza la quale banalmente noi non saremmo ancora in piedi, non fosse altro perché il nostro debito pubblico sarebbe diventato insostenibile. E della quale continuiamo a non poter fare a meno, se vogliamo sopravvivere e avere un futuro. Dunque, considerare solo la prima di queste due verità, ignorando o sottovalutando l’altra, è errore assai grave. Tanto più se all’Europa ci si appella con spocchia e acredine – della serie “come osano tagliarci fuori” – dopo aver predicato per anni che di Bruxelles si poteva e si doveva fare a meno, e sapendo che se anche ora non si dicono più certe corbellerie, ciò non di meno si è a capo di una coalizione arlecchino in cui c’è chi continua a pronunciare il verbo anti-europeista e si proclama sovranista menandone vanto. 

Purtroppo, Giorgia Meloni questo errore l’ha commesso – per ragioni culturali, politiche e caratteriali – votando contro le nomine di Antonio Costa e Kaja Kallas e astenendosi su quella di von der Leyen, ma prima ancora autoescludendosi da un contesto, quello nel quale si sono decisi i nuovi assetti comunitari, dove nessuno avrebbe steso tappeti rossi per accoglierla trionfalmente, dove qualcuno ha lavorato perché non ci fosse ma dove i più non avevano intenzione di escluderla, se solo si fosse presentata come capo del governo italiano (pur con tutti i limiti e le contraddizioni che ha) e non come leader di un partito e di un raggruppamento europeo divisivi e con un pedigree europeo a dir poco sbiadito. 

Lei ha scelto di fare il contrario: ha anteposto il suo ruolo di leader dell’ultradestra alla sua funzione istituzionale nazionale. Ne pagherà un prezzo la sua credibilità personale e quindi la sua carriera politica, ma sono fatti suoi. Ma ne pagherà un prezzo salato l’Italia, e questi sono fatti nostri. Non solo avremo meno di quel che avremmo potuto, ma soprattutto vivremo una pericolosa marginalità nei processi decisionali comunitari proprio mentre siamo chiamati a fare i conti con la condizione della finanza pubblica, la nostra maggiore fragilità strutturale. Ci aspetta un autunno difficilissimo, dovremo predisporre una manovra di bilancio sotto “dettatura” – e naturalmente non mancherà chi nel governo non resisterà alla tentazione di chiamarla “dittatura” – e al cospetto degli altri paesi ci presentiamo come coloro che, non ratificandolo, impediscono l’uso del Mes in caso di nuove crisi.

Per questo, se anche il prosieguo della vicenda comunitaria dovesse ridarle qualche chance di recupero – per fortuna Meloni l’errore non l’ha commesso fino in fondo e, contrariamente al suo amico Orban, con l’astensione sulla presidenza della Commissione s’è lasciata una porticina aperta nel caso von der Leyen fosse oggetto di cecchinaggio di franchi tiratori nel voto del Parlamento che la deve confermare – ciò avverrebbe pur sempre nel segreto dell’urna all’ombra di un accordo sottobanco non confessabile. In questo modo potremmo anche ottenere una vicepresidenza o un commissario di qualche peso, ma non avremmo recuperato la credibilità che ci serve per affrontare i passaggi stretti che ci aspettano.

Vedete, cari lettori, ci sono due modi, opposti, per rapportarsi alla realtà. Uno, sano, è guardarla in faccia per quella che è, piaccia o non piaccia. Senza filtri, infingimenti, aggiustamenti. L’altro, apparentemente furbo ma in realtà autolesionistico, è girare la testa dall’altra parte, ignorandola o, peggio, distorcendola. In Italia, la secondo modalità è quella di gran lunga più praticata. Un po’ da tutta la società, ma in testa alla classifica dei praticanti di questo sport c’è senz’altro il ceto politico, e in particolare di quello cui a turno tocca il governo del Paese. È infatti invalsa l’idea che rimuovere o deformare la realtà faccia parte integrante del fare politica, tanto che chi invece si sottrae al vezzo – preferendo pensare che fare politica consista nel confrontare le diverse idee su come gestire ed eventualmente cambiare la realtà (strategia) e nel mettere in campo azioni per avere il potere di far prevalere le proprie tesi (tattica) – viene definito “cassandra”.

Ora, il modo “irreale” con il quale è stato valutato l’esito del voto europeo e di conseguenza approcciato il tema del patto politico finalizzato al rinnovo dei vertici istituzionali dell’Unione Europea, appartiene proprio a questa concezione malata della politica. Di fronte ad un passaggio ancor più cruciale del solito per le partite che l’Europa è chiamata a giocare in questa fase storica, non fosse altro perché per la prima volta dopo 80 anni di pace e prosperità lo spettro di una guerra mondiale è tornato pericolosamente ad aleggiare sul Vecchio Continente, si è preferito inforcare occhiali distorcenti. Come si capisce quando la presidente del Consiglio bolla come “sbagliata nel metodo e nel merito” la proposta formulata da popolari, socialisti e liberali per i nuovi vertici europei. “Ho deciso di non sostenerla per rispetto dei cittadini e delle indicazioni che da quei cittadini sono arrivate con le elezioni”, sostiene Meloni. Ma di quali indicazioni parla? L’aritmetica elettorale prevede solo due modi per giudicare politicamente il consenso dei cittadini: contare i voti e contare i seggi parlamentari che hanno prodotto. Il resto è “percentualcrazia” (copyright Luigi Tivelli), che è una patologia grave della democrazia malata.

Noi siamo i campioni mondiali di questa devianza, che ci spinge a immaginare parabole politiche che non esistono. Così, per esempio, le forze di governo, dopo aver rivendicato di aver vinto – naturalmente in chiave nazionale, pur essendo elezioni europee – perdendo oltre un milione di voti complessivi, hanno preso a imputare ai governi francesi e tedeschi di avere subito una sonora sconfitta elettorale e dunque di non essere legittimati a indirizzare le scelte in seno al Consiglio Ue. Peccato che in Francia la politica europea e internazionale sia in capo al Presidente della Repubblica, che è uscito dal voto indebolito ma non certo delegittimato, e quello stesso odiato Macron abbia immediatamente sciolto il Parlamento e convocato elezioni anticipate (che vedremo come andranno, la partita è più aperta di quanto si creda). E che in Germania i popolari non stiano brigando per far cadere il governo Scholz, non fosse altro perché con lui e i socialisti europei devono costruire l’alleanza di governo per guidare la Commissione Ue. Ma soprattutto, come si fa a sostenere che non si tiene conto della volontà dei cittadini europei quando in seno al Parlamento europeo, le stesse forze che cinque anni fa si allearono per eleggere Ursula von der Leyen hanno la maggioranza con una quarantina di voti di scarto? Meloni contesta di essere stata esclusa dai summit finalizzati a trovare l’accordo: ma ha forse detto con chiarezza che avrebbe fatto parte di quella maggioranza Ursula che è l’unica da cui non si può prescindere perché non ce ne sono altre alternative? No, ha flirtato sottobanco con la presidente uscente – cosa del tutto normale, ma leggermente in contrasto con la rivendicazione di verginità politica messa a contrasto con l’impudicizia altrui – senza peraltro sciogliere il doppio nodo politico da cui è soffocata.

Da un lato, Meloni – vittima della sindrome della contrapposizione bipolare che, come per Elly Schlein, è l’unica dimensione con cui riempie il vuoto pneumatico di proposta politico-programmatica – ha negato ogni possibile convivenza con i socialisti, cosa del tutto inutile vista la loro imprescindibilità quale seconda forza continentale. Mentre dall’altro lato, rivendica il posto che spetta all’Italia, con ciò commettendo l’errore fatale di confondere il Consiglio europeo con la Commissione, Bruxelles con Strasburgo. Nella prima sede siedono le cancellerie, ed è giusto che in quel consesso fatto di capi di stato e di governo si rivendichi il peso del proprio paese. Peso è che dato, anche, dalla credibilità di chi lo rappresenta (do you remember Draghi?), dalle sue condizioni economico-finanziarie (il cartellino giallo per deficit eccessivo con cui siamo stati sanzionati non è cosa di poco conto) e dai comportamenti tenuti in sede comunitaria (la stupida impuntatura sul Mes la paghiamo cara). E tutto si può fare in quel contesto, meno che ragionare da capo partito. Nella seconda sede, invece, c’è il Parlamento che si organizza in gruppi per appartenenze politiche e vota i vertici della Commissione secondo le logiche politiche delle diverse famiglie continentali. Dove, dunque, si fanno scelte di schieramento e tutto è lecito fare meno che vestire i panni istituzionali nazionali. Si vuole stare in maggioranza? E allora si tentino di costruirne le condizioni. Può riuscire o meno, perché la politica è fatta di equilibri che nascono dal concorso di forze diverse e non si può essere per il bipolarismo armato a Roma e frignare a Bruxelles perché a qualcuno non piace la tua identità politico-culturale, ma bisogna essere politicamente limpidi.

Tanto più questa doppiezza di voler essere nello stesso tempo la leader della destra sovranista e illiberale continentale che flirta con Orban e inneggia a Vox e statista che pretende di confrontarsi con le storiche intese che hanno fatto e governano l’Unione Europea, non ti può essere concessa – né te la dovresti concedere – quando in Italia al governo convivono forze non solo appartenenti a gruppi europei diversi (e fin qui è normale) ma che in un caso (Forza Italia nel Ppe) stanno in maggioranza e in due casi (Fdi con Ecr e Lega con gli euroscettici di Identità e Democrazia) sono all’opposizione (e qui la cosa si fa anomala). E quando le stesse destre europee sono tra loro e al loro interno fortemente divise, e su questioni non di poco conto come la collocazione atlantica e il rapporto da tenere nei confronti di Ucraina e Russia. 

Anche per questi motivi, oltre al fatto che significa non aver capito nulla delle tendenze di quegli stessi cittadini in nome dei quali pretendi di parlare anche se non ti hanno votato, era del tutto infondato immaginare un ribaltone elettorale che mettesse le destre europee in condizione di dare le carte. Si dirà che si trattava di propaganda elettorale e che la stessa Meloni, come è logico pensare visto che si tratta di persona intelligente, non ci credeva minimamente. Bene, ma a maggior ragione intessi rapporti, predisponi percorsi e costruisci alleanze che partono dalla realtà delle cose, non da fantasiosi desiderata. Prima o poi Meloni e (soprattutto) Tajani la questione della presenza nel governo di sovranisti anti-europei e filo-putiniani tifosi di Trump, dovranno pur porsela. Tanto più che il vicepresidente del Consiglio Salvini a proposito delle nomine Ue è arrivato a parlare di “colpo di Stato” (poi non si venga a dire che c’è un pregiudizio anti-italiano!). E se invece si tacerà per quieto (si fa per dire) vivere, allora è inutile e infantile frignare rivendicando “le posizioni di prestigio che spettano all’Italia” nella squadra di comando di Bruxelles: il nazionalismo è il nemico numero uno dell’Unione Europea, fatevene una ragione.

È vero, l’Europa, pur avendo fatto enormi passi avanti e affrontato crisi epocali come il Covid e i rivolgimenti geopolitici innescati dall’attacco della Russia all’Ucraina, è a meta del guado. Ma questo significa che non può affrontare le sfide immani che l’attendono – militari, economiche, tecnologiche, sociali – senza procedere lungo la strada dell’integrazione politico-istituzionale. Obiettivo che si farà ancor più stringente se Putin dovesse andare oltre l’Ucraina, magari saldando ancor di più di quanto già non sia la sua strategia ai conflitti che si svolgono nel Mediterraneo, e se Trump tornasse alla Casa Bianca. Tutto questo richiede un alto tasso di coesione e di lungimiranza, non spaccature che poggiano su inconsistenti riserve ideologiche e su isterismi incompatibili con vere leadership. E siccome l’Italia, a causa delle sue fragilità, dovrebbe essere la prima a volere che ciò accada, chi rema in un’altra direzione ben presto sarà chiamato a risponderne. Prima di quanto non si creda.

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