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L'editoriale di TerzaRepubblica

Illusioni premierato e autonomia

IL PAESE HA BISOGNO DI BEN ALTRO DEI CONFLITTI TRA PRESIDENZIALISMO E RAFFORZAMENTO DI REGIONI, CHE ANDREBBERO ABOLITE

di Enrico Cisnetto - 22 giugno 2024

La politica italiana è profondamente malata. Lo è la sua capacità di rappresentanza, lo sono i suoi meccanismi di (non) funzionamento. Il sistema istituzionale è arrugginito, quando non disfunzionante. La produzione legislativa è lenta e pletorica, spesso inessenziale. Il processo decisionale è rallentato, involuto, ma soprattutto incapace di produrre effetti reali e incisivi. Pur schematico, questo referto è più che sufficiente per trarre la conclusione che intervenire sul sistema politico-istituzionale, anche attraverso modifiche costituzionali, non solo è legittimo, ma indispensabile. Necessità, poi, che diventa urgenza se si considera che occorre decidersi una buona volta a sanare gli effetti distorsivi prodotti dal passaggio, costituzionalmente anomalo, tra la Prima e la cosiddetta Seconda Repubblica, che tale non è stata e continua a non essere (la Terza non si osa nemmeno più citarla) proprio per la mancanza di una certificazione costituzionale delle prassi surrettiziamente introdotte in questi ultimi trent’anni.

Ma per riuscire a realizzarle, le riforme istituzionali, e farle bene, c’è una precondizione, senza la quale nulla è possibile: riformare la politica e il sistema politico. Non che in questi anni siano mancati i tentativi, solo che ci si è sempre affidati a chimere, facili illusioni o, peggio, disastrose forzature. Nella galleria degli errori (e orrori) vanno iscritti a pieno titolo la fine dei partiti tradizionali, il maggioritario, il bipolarismo, la personalizzazione della politica, il leaderismo esasperato, il progressivo deprezzamento e depauperamento del Parlamento, il federalismo verso il basso, il sovranismo come antitesi all’integrazione europea, l’accettazione del ruolo improprio assunto dalla magistratura, i cambiamenti costituzionali non condivisi tra maggioranze e opposizioni. Volendo, la lista sarebbe ancora lunga, perché deve fotografare gli ultimi tre decenni di vita repubblicana, ma ci siamo capiti. Ora, si sperava che il combinato disposto dei grandi choc recenti – dalla pandemia alle guerre alle porte di casa, dalla crisi energetica al ritorno dell’inflazione – si portasse via i populismi e i radicalismi con tutte le loro tossine, e consentisse di creare un clima più favorevole all’unione delle forze su obiettivi comuni. E invece, la polarizzazione è addirittura cresciuta, e così tanto che centro-destra e centro-sinistra sono diventati destra-centro e sinistra-sinistra, mortificando il centro (che autolesionisticamente ha provveduto anche da solo), e il bipolarismo è diventato bipopulismo.

Ed è in questo contesto, dove le parole d’ordine più gettonate sono, da un lato, “fermiamo il ritorno del fascismo” e dall’altro “battiamo la sinistra che non riconosce né Dio, né Patria, né Famiglia”, che il Parlamento ha varato in via definitiva il disegno di legge che contiene le disposizioni per l’attuazione dell’autonomia differenziata delle Regioni e ha consumato la prima delle quattro approvazioni (due e due tra Camera e Senato) in cui, in quanto legge costituzionale, dovrà essere votato il cosiddetto premierato. Niente di eversivo, come da sinistra in modo preconcetto e pretestuoso si è cianciato. Ma questo non toglie che si tratti di due provvedimenti non solo sbagliati nel merito e per il metodo adottato, ma del tutto inutili ai fini di quella precondizione, la riforma della politica e del sistema su cui si articola, senza la quale è impossibile pensare di poter venire a capo di quel coacervo di problemi che impediscono al Paese di modernizzarsi e tornare a crescere. Anzi la impediranno, la riforma della politica, perché offriranno agli italiani una narrazione ulteriormente fuorviante, ubriacandoli di nuove illusioni destinate a trasformarsi in brucianti disillusioni, che inevitabilmente produrranno sfiducia nella politica e nelle istituzioni e astensionismo elettorale. Vediamoli più specificatamente i due provvedimenti, per poi ragionare sulle conseguenze che genereranno.

In questa sede ho spiegato tante volte che ai disastri prodotti dalla riforma del titolo V (anno 2001) che la sinistra ha sulla coscienza, non si poteva porre rimedio accentuando il federalismo, cioè il decentramento dei poteri, ma all’opposto semplificando l’elefantiaco sistema amministrativo nazionale, articolato su 20 regioni, di cui 5 a statuto speciale, 110 province (già, ci sono ancora, abbiamo solo fatto finta di abolirle), 7.896 Comuni, di cui il 70% sotto i 5 mila abitanti, e una pletora di soggetti amministrativi di grado inferiore. E ho detto senza mezzi termini che andava considerata fallimentare l’esperienza delle Regioni, e soprattutto la gestione della sanità ad esse affidata. Sbandierate come l’antidoto al centralismo e agli storici squilibri territoriali, in oltre 50 anni di vita le Regioni hanno invece prodotto un notabilato locale assai peggiore della burocrazia statale, hanno fatto crescere, non ridurre, il divario Nord-Sud, e hanno finito col diventare tanti costosissimi staterelli in conflitto permanente tra loro e con lo Stato centrale. Dunque, il rimedio è la loro abolizione, con il (ri)trasferimento delle competenze sanitarie in capo allo Stato (secondo il modello olandese), non l’allargamento della loro sovranità. Un proposito questo che qualche anno fa era stato espresso anche da Giorgia Meloni, salvo esserselo dimenticato da quando ha messo piede a palazzo Chigi. E al loro posto? La mia idea, come di altri analisti (uno per tutti Giuseppe Pisauro, già presidente dell’Upb-Ufficio parlamentare di bilancio), è di creare delle macro-province (36 propone la Società Geografica Italiana, che li chiama Dipartimenti) quali enti intermedi tra centro e periferia, nel quadro di una semplificazione che ponga i 5 mila abitanti come tetto minimo per i Comuni (ne sparirebbero almeno un terzo) e la razionalizzazione del complesso universo composto da comunità montane, enti di bacino, consigli di quartiere e molte altre amministrazioni minori. Quanto al federalismo, in una fase storica caratterizzata dalle grandi dimensioni e dalla velocità di decisione, ciò che serve è forse un federalismo verso l’alto – e quindi gli Stati Uniti d’Europa – non uno verso il basso che divida ancora di più un paese già parcellizzato e campanilista come il nostro.

Naturalmente, su pressione della Lega che ha fatto dell’autonomia una bandiera identitaria, si è imboccata la strada opposta. Fratelli d’Italia e Forza Italia l’hanno (mal)digerita, anche con qualche maldipancia (vedi i governatori meridionali del partito di Tajani), ma è mancato il coraggio di dire di no. Anche perché la stessa cosa è successa, a parti rovesciate, per il premierato. Meloni, essendosi presentata agli italiani come l’alfiere della discontinuità, ha ritenuto che, tra i tanti modi per marcare questa disruption, quello più distintivo per lei sarebbe stato riproporre una vecchia idea che da Craxi in poi (per la verità, ancor prima da Pacciardi e dalla destra missina) è passata di bocca in bocca di tanti leader politici: il presidenzialismo. Finora si era pensato all’elezione diretta del Capo dello Stato, con Meloni s’immagina quella del capo del governo, cosa inedita per tutte le democrazie parlamentari occidentali.

Anche qui, ho detto e ripetuto tante volte che non solo è assurdo contestare l’intenzione – bollandola come sovversiva, reazionaria e fascista – di mettere mano alla Costituzione, in nome della sua presunta intangibilità, ma che anzi è cosa necessaria e urgente perché il Paese ha assolutamente bisogno sia di ripensare il suo sistema politico sia di ridisegnare i suoi assetti istituzionali. Ma nello stesso tempo, ho detto che l’unico modo per farlo senza mettere questa intenzione al servizio della maggioranza politica di turno è di chiamare una nuova Assemblea Costituente, la cui composizione e i cui lavori siano sganciati dal Parlamento vigente e dall’iter dei suoi lavori. È quello l’unico luogo dove realizzare una riforma costituzionale, che se vuole essere armoniosa deve essere organica, e quindi tutti i problemi vanno affrontati contemporaneamente. Di spizzichi e bocconi ne abbiamo già avuti fin troppi, e hanno fatto abbastanza danni per indurre a non ripetere l’errore di procedere in Parlamento per poi dover sottoporre il tutto ad un referendum confermativo. Meloni aveva la possibilità di alzare l’asticella rispetto ai suoi predecessori, promuovendo una legge costituzionale che convocasse un’Assemblea Costituente (o anche, volendo, istituisse una Commissione Costituente, secondo le indicazioni di Marcello Pera, che pure la stessa Meloni aveva fatto eleggere nelle liste di FdI). E lì decidere se è il presidenzialismo, e quale, che può assicurare maggiore stabilità politica al Paese, o seppure, come io penso, lo sia un premierato alla tedesca, che non prevede elezione diretta ma la sfiducia costruttiva e altre regole di sana governabilità. Invece, nell’illusione di avere ricevuto dagli italiani un mandato forte – cosa che non è, visto che l’attuale maggioranza rappresenta un quarto degli aventi diritto al voto, ed è peraltro fortemente divisa – Meloni ha scelto la via parlamentare, abborracciando una proposta politicamente sbagliata e tecnicamente piena di lacune e contraddizioni, e per di più non corredata di una riforma della legge elettorale, che è indispensabile ma che a seconda di come sarà farà la differenza.

Certo, l’Italia ha un disperato bisogno, insieme, di stabilità politica e di governabilità. Ma mentre la seconda assicura anche la prima, non è così viceversa. E la stabilità non si può imporre per legge, discende dalla qualità dei partiti e delle loro classi dirigenti, dal sistema politico che si adotta e dal buon funzionamento dell’attività legislativa. Mentre per rafforzare l’esecutivo basterebbero tre piccole modifiche costituzionali: trasformare il presidente del Consiglio in Cancelliere attribuendogli il potere di nomina e revoca dei ministri; introdurre la “sfiducia costruttiva” in modo che le Camere possano mandare a casa un governo solo quando ce n’è già un altro pronto; fissare un tempo di durata dei governi, fermo restando la scadenza anticipata (che però sarebbe mitigata dalla “sfiducia costruttiva”). Viceversa, l’elezione popolare del presidente del Consiglio in termini di stabilità aggiungerebbe poco, mentre avrebbe come grave controindicazione i conflitti che si genererebbero con il presidente della Repubblica perchè, vista la rappresentatività indiretta dovuta all’elezione per via parlamentare di quest’ultimo, si altererebbe l’equilibrio costituzionale esistente. Bastava contare il numero dei governi che dal dopoguerra ad oggi ha avuto la Germania (25 con 9 cancellieri diversi) e fare un confronto con l’Italia (68 governi, 31 presidenti del Consiglio) per decidere serenamente di copiare il più che sperimentato cancellierato tedesco. Ma tant’è, si è voluto riprovare l’ebrezza del grande afflato verso il maggioritario che si ebbe con il referendum Segni di trent’anni fa al grido populista “ridiamo il potere ai cittadini”. Dimenticando l’effetto illusorio che ha suscitato e gli effetti disastrosi che ha provocato.

In conclusione, sapete qual è lo scenario che ci si para davanti? Che per effetto delle contrapposizioni interne alla maggioranza, i tempi di attuazione dell’autonomia regionale e quelli di approvazione finale del premierato si allungheranno a dismisura, così che ciascun partito potrà attribuirsi il merito di aver fermato la riforma che non piace. Mentre per il resto della legislatura si profila un orizzonte di conflitto permanente tra i partiti, che brandiranno come randelli i referendum, quello contro la norma voluta dalla Lega per il quale l’opposizione ha già annunciato una raccolta di firme, e quello che ci sarebbe automaticamente se il premierato passasse senza maggioranza qualificata. Con un Parlamento trasformato in “piazza” – ne abbiamo già visto i primi segnali – e un’opinione pubblica che si dividerà tra chi, i più e sempre di più, si girerà dall’altra parte stomacata, e quella parte politicizzata, minoritaria ma vociante, che prenderà parte alla tenzone. Pensate che questa sia la condizione ideale, per il governo e per l’intero Paese, per affrontare passaggi difficili come una manovra di bilancio che, sotto sanzione Ue, dovrà ridurre il deficit eccessivo e la montagna di debito accumulato, e passaggi drammatici come il ruolo da assumere nel contesto geopolitico caratterizzato da due guerre che, a nord e a sud, bussano alle nostre porte? Io no. E voi?

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Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.