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Public Policy

L'editoriale di TerzaRepubblica

Chi governa l'intelligenza artificiale?

CI VORREBBERO GLI STATISTI DEL 1951 CHE FECERO IL MIRACOLO ECONOMICO CON LA LIBERALIZZAZIONE DEGLI SCAMBI

 

di Enrico Cisnetto - 01 giugno 2024

Settantatré anni dopo la storia rischia di non ripetersi. Mentre inorridito distolgo lo sguardo da ciò che c’è nel piatto della politica italiana – dove si arriva a trattare la possibile trasformazione delle istituzioni con la sufficienza e superficialità di chi, pur occupando il più alto scranno del governo, un giorno dice “o la va o spacca” e quello dopo “se non passa chissenefrega” – e mentre osservo con sgomento il disgregarsi degli equilibri geopolitici mondiali, di cui l’Occidente ricco, appagato e dimentico dei propri valori rischia di sottovalutare in modo clamoroso le conseguenze, cerco consolazione altrove. Per esempio, tentando di capire, ignorante come sono dal punto di vista tecnologico, quali straordinarie opportunità di cambiamento ci stia offrendo e sempre più ci offrirà quella rivoluzione epocale chiamata intelligenza artificiale. Uno strumento che non solo segna il passaggio alla fase più matura del fenomeno che già ci ha cambiato la vita, la digitalizzazione, ma che rappresenta il motore dello sviluppo del terzo millennio.

Ma il ristoro che studiare questa opportunità mi ha procurato, è stato ben presto compensato dallo scoramento che generano i toni apocalittici con cui gran parte del nostro mondo intellettuale e dell’informazione sta accogliendo l’artificial intelligence, e in particolare quella di tipo generativo, infondendo diffidenza preconcetta nell’opinione pubblica. Come? Quando la si vuole mettere sul terreno dell’etica, si racconta che è la fine dell’intelligenza naturale, della supremazia dell’uomo sulle macchine, per cui saremo schiavi degli algoritmi e dei big data, la nostra privacy sarà cancellata, la politica sarà fagocitata dalle multinazionali che elaborano le informazioni e il cittadino sarà sommerso dalle fake news e da esse condizionato. Mentre quando prevalgono le ansie di tipo pratico, ecco che si preconizza una disoccupazione di massa perché tanti lavori e tanti saperi saranno spazzati via, e di conseguenza l’impoverimento sarà il nostro inevitabile destino.

Sia chiaro, non è intelligente avere un’adesione cieca e incondizionata nei confronti di questa come di qualunque altra nuova frontiera della tecnologia, e ci sono ragioni più che serie, da non sottovalutare, che devono indurre ad un approccio pragmatico e prudente. Ma altra cosa è farsi prendere dal panico, avere un atteggiamento anti-scientifico quando non addirittura negazionista. Non fosse altro perché questo significa bendarsi gli occhi e non vedere sia le potenzialità di un mondo che fa già parte del nostro presente, sia i rischi che deriverebbero da un nostro eventuale atteggiamento di estraneità, sia infine gli antidoti ai pericoli che pure ci sono.

Ecco, di fronte a questa reazione “conservatrice”, di chiusura all’innovazione e di sfiducia nel progresso scientifico, mi è venuto in mente un passaggio della nostra vita nazionale che data 1951. Ad appena sei anni dalla fine del secondo conflitto mondiale, in piena guerra fredda e in un’Europa ancora profondamente divisa e intrisa di diffidenza, due politici italiani, uomini di governo che si riveleranno tra i pochissimi statisti che la nostra storia repubblicana ci ha offerto, Alcide De Gasperi in quel momento presidente del Consiglio e Ugo La Malfa ministro del Commercio Estero, decidono di varare, d’intesa con l’allora governatore della Banca d’Italia Donato Menichella, un provvedimento che cambiò le sorti del Paese. Si trattava della “liberalizzazione degli scambi”, attuata attraverso l’unilaterale abolizione delle tariffe e delle barriere doganali alle importazioni. Prima tra tutti i paesi continentali, Germania compresa, l’Italia ebbe il coraggio di aprire le frontiere e permettere la libera circolazione degli uomini, dei capitali e delle idee. Una rivoluzione, che consentì al Paese di imboccare la strada dello sviluppo e aprire quella straordinaria stagione che è stato il “miracolo economico italiano”, permettendoci in relativamente pochi anni di passare dalla condizione di paese prevalentemente agricolo, arretrato e per di più distrutto dalla guerra, a quella di settima potenza industriale del mondo. Si trattò di un provvedimento coraggioso, al limite della temerarietà, che per essere varato dovette superare la contrarietà di molte componenti dell’allora governo centrista, a cominciare da ampi settori della Dc, ma anche di un variegato fronte politico e sociale, espressione di interessi diversi ma convergenti. Contrari alla liberalizzazione degli scambi erano comunisti e socialisti, così come la Cgil, ma anche Coldiretti, Confagricoltura e Confindustria, con in testa gli industriali della siderurgia e dell’auto, che temevano la concorrenza estera e preconizzavano la distruzione dell’economia. Si gridò allo scandalo, e si tentò di sollevare la reazione del ventre molle del paese, spaventato da questa inusitata novità.

Giorgio La Malfa, in una bellissima cerimonia a Venezia, cui ho avuto il privilegio di partecipare, per il conferimento del primo premio Ugo La Malfa per la Cooperazione internazionale alla direttrice generale del Fondo Monetario, Kristalina Georgieva, alla significativa presenza del Presidente Mattarella, ha ricordato che il Cancelliere tedesco Ludwig Erhard, che come ministro dell’Economia negli anni Cinquanta fu l’artefice del boom della Germania, incontrò anni dopo Ugo La Malfa e gli espresse ammirazione per il coraggio che aveva avuto. Lo stesso leader del Pri raccontò l’episodio nel libro “Intervista sul non governo” ad Alberto Ronchey, un tascabile Laterza del 1977 che conservo gelosamente nella mia biblioteca, come quella misura, apparentemente tecnica ma in realtà profondamente strategica, legò l’economia italiana a quella americana, consolidando in modo irreversibile la nostra collocazione atlantica. Dietro lo stupore del filo-atlantista Erhard, c’era la frustrazione di non essere riuscito a convincere il cancelliere Adenauer a far fare alla Germania la liberalizzazione degli scambi che fece l’Italia, e dietro quella resistenza c’era l’idea di privilegiare il rapporto con la Francia, non favorevole ad un asse atlantico, nel convincimento che ciò avrebbe consentito un riavvicinamento tra le due Germanie, secondo una strategia meno conflittuale con Mosca. Come scrisse qualche anno fa Carlo Bastasin, in quel momento l’Italia scelse l’America, e come paese cerniera tra Est e Ovest e per di più avendo nel proprio sistema politico il più grande partito comunista d’Occidente, fu cosa di eccezionale importanza. E poté avvenire nel quadro di un nascente contesto euro-atlantico che poggiava sul piano Marshall del 1947 – lo stesso anno di nascita dei “gemelli” Fmi e Banca Mondiale, concepiti tre anni prima nella conferenza di Bretton Woods – e poi sulla nascita nel 1948, sempre su impulso americano, di un’organizzazione per la cooperazione tra gli Stati europei e il loro sviluppo (oggi Ocse) e infine sulla creazione, nel luglio 1950, dell’Unione europea dei pagamenti (Uep o Epu in inglese) che, con il compito di facilitare la ripresa del commercio continentale, stabilizzava la convertibilità delle monete europee per assicurare un regime di cambi controllati. Insomma, una creatività istituzionale che ha posto le basi per lo sviluppo più lungo e fruttuoso della storia dell’umanità, la ottantennale stagione di pace, libertà, prosperità, allungamento della vita e innovazione di cui troppo spesso ci dimentichiamo, abituati come siamo ad avere la vista e la memoria corta. 

Ora, potrà sembrare azzardato l’accostamento tra quella scelta di 73 anni fa e quelle che ci aspettano oggi di fronte alla rivoluzione AI. Ma non è così. A ben vedere, simile è l’importanza strategica delle due situazioni, paragonabile il fronte del rifiuto, in un mix di interessi lobbistici e di paure anti-storiche, che entrambe hanno generato. La vera differenza sta nel fatto che allora nella classe dirigente del paese c’erano personalità di primissima grandezza – De Gasperi, La Malfa, Menichella – capaci di guardare oltre il contingente, del tutto esenti dall’ossessione del consenso e dunque disponibili ad assumersi l’onere e la responsabilità di decisioni difficili e (apparentemente) impopolari. Oggi no. Basti pensare che di fronte al fenomeno AI la prima cosa che questo governo ha pensato di fare è istituire una Commissione nell’ambito del Dipartimento informazione e editoria della Presidenza del Consiglio, dandogli compiti di vigilanza, e di metterci a capo un teologo, il padre francescano Paolo Benanti. Ora, con tutto il rispetto per costui, che peraltro vanta un curriculum di prim’ordine, è evidente che l’approccio è quello di guardare più ai problemi che l’AI può ingenerare che non ai vantaggi che può creare. Se nel 1951 fosse prevalso un tale atteggiamento, forse saremmo ancora qui a zappare la terra. Mentre occorre rovesciare il paradigma, e creare tutte le condizioni – legislative, operative, finanziarie, formative – per cavalcare la grande onda. Per esempio, Michael Spencer, premio Nobel per l’Economia del 2001, ha lanciato l’idea di un “Cern per l’intelligenza artificiale”: perché non cogliere al volo questa suggestione? Noi italiani ne avremmo tutti i titoli, visto che la storia del Cern e quella del Nobel per la Fisica Carlo Rubbia sono intrecciate. Certo, se si è impegnati ad alimentare il grande falò del populismo lavorando a mandare a casa i senatori a vita, e Rubbia è uno di questi, difficilmente si potrà lavorare ad una simile opportunità e sfida. 

Può darsi che in questo tumultuoso cambiamento ci sia (anche) della “irrazionale esuberanza”, per dirla con l’Economist, ma una cosa è sicura: o lo cavalchi o nei sei travolto. Non scopriamo certo oggi che lo sviluppo economico moderno è figlio dell’innovazione, che a sua volta è un mix di scoperte scientifiche e applicazioni tecnologiche. Averne timore, giocare (solo) in difesa, illude chi ama sentirsi dire che la sua confort zone sarà preservata, ma appunto trattasi di pura illusione. Il governatore della Banca d’Italia, Fabio Panetta, nella sua relazione annuale di ieri ha spiegato che il grande gap che l’Europa deve abbattere, e l’Italia in Europa, è quella della produttività. Nell’ultimo quarto di secolo il Vecchio Continente ha accumulato un ritardo di 20 punti percentuali rispetto agli Stati Uniti, è stato raggiunto dalla Cina e vede l’India pronta a fare lo stesso. E la vera e unica ricetta per invertire la tendenza è quella di investire massicciamente in innovazione. Sentite a questo proposito cosa ha detto Panetta: “L’intelligenza artificiale determinerà cambiamenti potenzialmente dirompenti nell’economia mondiale, sosterrà la produttività e la crescita”. E ancora: “è auspicabile l’ingresso di aziende europee nello sviluppo di questa tecnologia, così da consentire di reperire più agevolmente le enormi risorse finanziarie necessarie per competere con i produttori esteri e contrastare il potere di mercato dei giganti tecnologici esteri”. Più chiaro di così…

Tornando al 1951, Bastasin ci ricorda che in quel momento il reddito medio degli italiani era pari a circa un terzo di quello degli statunitensi, ma già nel 1973 aveva raggiunto i due terzi. Il prodotto per ora lavorata raggiunse il 71% di quello americano e superò quello del Regno Unito. Il reddito si distribuì in modo meno diseguale tra le persone e tra le diverse aree del paese. La vita media si allungò, allineandosi a quella dei paesi più avanzati. I poveri scesero dal 34% al 13% della popolazione. La "produttività totale dei fattori" crebbe a ritmi mai registrati né prima né dopo. Fino al 1963, i sindacati accettarono che i salari non crescessero più della produttività dando spazio a un forte aumento degli investimenti. A 70 anni di distanza, mentre sembra non porsi, come si temeva, la questione della collocazione euro-atlantica del Paese, e pare sopita la tentazione protezionista dell’uscita dall’euro, ci sono di nuovo tutte le condizioni per ripetere il “miracolo economico”. Certo, mancano gli statisti, e non solo in Italia. Ma quantomeno possiamo intanto toglierci dai piedi una volta per tutte i ciarlatani di tutte le risme, e in particolare i nazional-populisti che credono di poter fermare le lancette dell’orologio del progresso.

Pensateci, l’8 e 9 giugno.

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Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.