Le contraddizioni italiane in Europa
PATTO DI STABILITÀ UE: L’ITALIA TROVA L’UNITÀ NAZIONALE NEL SEGNO DELL’IRRESPONSABILITÀ
di Enrico Cisnetto - 27 aprile 2024
Mentre nessuno coglie i segnali di ulteriore rattrappimento della nostra democrazia (alle elezioni regionali in Basilicata il tasso di partecipazione al voto è sceso al 48%) il sistema politico italiano ritrova il plenum di unità nazionale in circostanze a dir poco disdicevoli. Da un lato, tutti i partiti si attrezzano a mettere in lista per le elezioni europee di giugno candidati che, se eletti, non hanno alcuna intenzione di andare a Bruxelles, prendendo così in giro i cittadini. E lo fanno chiedendo il voto con simboli elettorali che nella gran parte dei casi (Il Pd, per fortuna, ha fermato Elly Schlein, che da buona neofita intendeva ricorrere a questa pratica) riportano il nome del o della leader (si fa per dire), contribuendo ad un ulteriore deriva verso quella che Michele Ainis chiama “capocrazia”, che si basa sull’eccesso di personalizzazione della politica, con i partiti che non si connotano per le loro idee ma si affidano al marketing vendendo sul mercato elettorale il prodotto-leader (peraltro con sempre meno successo).
Dall’altro lato, tutti i partiti hanno unanimemente bocciato nel parlamento Ue – con la sola distinzione, trasversale rispetto a maggioranza e opposizione, tra astensione e voto contrario, e in molti casi in dissenso con i raggruppamenti politici europei cui appartengono – il nuovo “patto di stabilità” che detta le regole di comportamento cui i singoli Stati devono attenersi nella gestione dei loro bilanci pubblici. Mettendo in scena quello che a buon titolo è stato definito il plateale fallimento della classe politica italiana.
Nella convergenza bipartisan che ha accomunato gli eurodeputati italiani si sommano due diverse contraddizioni, che insieme portano ad un esito fatale per l’Italia. La prima contraddizione riguarda i partiti di maggioranza, visto che il governo, non più tardi di dicembre scorso, non solo aveva approvato l’accordo sulle nuove regole di bilancio, ma le aveva “vendute” come una vittoria italiana nella trattativa comunitaria perché considerate un passo avanti rispetto alla più rigida disciplina precedente. Perché mettersi di traverso, dunque, ad un provvedimento già approvato, esponendo il ministro Giorgetti ad una pessima figura in sede comunitaria? Cambiare idea è lecito, ma non in questo modo, senza dare alcuna spiegazione plausibile. La seconda contraddizione attiene alle opposizioni: mentre è coerente il voto contro di 5stelle e Verdi, così non è l’astensione dei parlamentari europei del Pd, in dissenso rispetto alla posizione favorevole dei Socialisti e Democratici. Non lo è per le posizioni espresse in precedenza e soprattutto perché il testo uscito dal negoziato è figlio della proposta originaria del Commissario Gentiloni, che del Pd è (era?) esponente di punta. La segretaria Schlein voleva addirittura che i suoi votassero contro, sostenendo che si trattasse di qualcosa di fortemente peggiorativo rispetto alla proposta Gentiloni, cosa irragionevole sia perché l’ex presidente del Consiglio era invece favorevole e ha difeso con convinzione il nuovo patto, sia perché l’alternativa sarebbe stata la reintroduzione del vecchio sistema, ben più punitivo per i paesi indebitati e a forte deficit corrente. Alla fine, hanno deciso per un compromesso, l’astensione, che li ha costretti ad allinearsi ai partiti di governo e a perdere l’occasione, politicamente ghiotta, di poterli accusare delle loro gravi contraddizioni e della deriva nazionalista.
Il risultato di tanta scelleratezza collettiva – “abbiamo unito la politica italiana”, è stato il sarcastico commento dello stesso Gentiloni – è aver messo l’Italia nella condizione di essere l’unico paese ad opporsi ad un compromesso difficile da raggiungere – la questione è da sempre una delle più complicate e controverse a livello europeo – ma poi approvato a larghissima maggioranza. Una stupidaggine elevata all’ennesima potenza per due ordini di motivi. Il primo discende da un banale calcolo politico: su un tema del genere ci si oppone solo e se si hanno i numeri per vincere, non per fare testimonianza, ergo il voto, specie quello dei partiti di governo, doveva discendere dalla presa d’atto dei rapporti di forza. Anche ammesso che si trattasse di un cattivo compromesso (e non è questo il caso), bisognava approvarlo per evitare di fare il secondo passo falso: entrare in conflitto con l’intero establishment, aggravando la più che consolidata inaffidabilità italiota. Si dirà che tutti gli organismi europei sono in scadenza. Vero, ma a parte il fatto che gli attuali rimarranno in carica ancora alcuni mesi e noi abbiamo aperte diverse questioni, dalla gestione dei fondi del Pnrr – vagli a spiegare che i soldi derivanti del Next Generation Ue servono, tra le altre cose, ai consultori per l’aborto (per gestirlo o per disincentivarlo, qui poco importa) – alla manovra correttiva per rimettere un minimo in linea la barca dei conti pubblici, resta comunque il tema della nostra partecipazione alla creazione dei nuovi organismi europei. Ora, a rinnovare il Parlamento ci penseranno gli elettori, ma per quanto riguarda la Commissione e il Consiglio europeo sono le leadership politiche a negoziare. L’Italia si siederà a quel tavolo? Vorrebbe tanto, come dimostrano gli ammiccamenti di Giorgia Meloni verso Ursula von der Leyen (almeno fino a quando l’ipotesi di una sua riconferma è rimasta forte). Ma ammesso, e non concesso, che ci riesca, con quale peso sarà a quel tavolo? Già ora le tre principali forze di governo appartengono non soltanto a famiglie politiche europee diverse, ma anche diversamente collocate in sede comunitaria. E questo non ci rende particolarmente forti, come paese. Se poi si aggiunge il fatto che ci siamo autolesionisticamente messi nell’angolo dei cattivi, il peso è presto azzerato.
Vedete, cari lettori, nessun paese, neppure quelli cosiddetti “frugali”, è esente da macchie di vario genere e tipo. Ma è incontrovertibile che il nostro, tra eccesso di deficit e debito (non rispetto alle regole, ma al buon senso), crescita strutturalmente limitata e ritardi mai sanati (Sud, infrastrutture, competitività, ecc.) e riforme promesse ma non realizzate, sia in fondo alla classifica dell’attendibilità e della credibilità. E anche in questo caso, appare evidente che l’isolamento in cui ci siamo cacciati su una questione di primaria importanza e che tocca le corde sensibili di uno dei nostri peggiori difetti, sia dovuto a furbizia elettorale, e non a più o meno discutibili ma comunque sane ragioni di principio. Siccome il ritorno del Patto pone limiti alla spesa pubblica corrente – mentre preserva la possibilità di continuare gli investimenti produttivi, ma questo ai nostri partiti interessa poco, sia perché sono incapaci di spendere quel tipo di moneta, sia perché nella loro pochezza hanno deciso che pagano elettoralmente solo i bonus – ecco che in piena campagna per le europee hanno voluto mandare agli italiani il messaggio “tranquilli, noi siamo per continuare a spendere”. Nessuno che se la sia sentita di spiegare agli elettori che, patto o non patto, l’Italia deve comunque rimettere ordine nei propri bilanci se vuole che i mercati continuino a comperare il suo enorme debito pubblico. Senza neppure capire che il crollo verticale della loro credibilità, certificato dall’astensionismo montante, rende vana questa loro aspettativa.
D’altra parte, non è un caso che proprio nelle ore in cui a Bruxelles andava in scena l’obbrobrio, il governo aveva pronta una manovra fiscale basata su un bonus una tantum da aggiungere alla tredicesima da 80 euro – non sono bastati quelli di Renzi, evidentemente è un vizio – per i lavoratori dipendenti con redditi fino a 15 mila euro annui. Poi messa da parte una volta accortisi – ma bisognava proprio sbatterci il grugno? – che tra sgravi senza coperture e nuovi vincoli europei ci aspetta un autunno pesante. Bruxelles ci chiede una manovra dello 0,6% del pil per sette anni, che significa circa 13 miliardi e mezzo all’anno. Aggiungeteci che nei conti del 2024 ci sono 20 miliardi di tagli di tasse, bonus e contributi vari che scadono a dicembre e sui quali incombe l’impegno politico di rinnovarli, ed ecco che avete la misura di ciò che, anche per effetto del severo richiamo che ci ha rivolto il Fondo Monetario (“i conti non sono sostenibili, serve una correzione”) stimando e temendo che il nostro debito arrivi a oltre il 143% nel 2027, sta di fronte al governo una volta che si decida a guardare in faccia la realtà. Una medaglia la cui altra faccia è quella della crescita: il governo immagina che sia dell’1%, e i conti li fa partendo da questa stima. Ma tutti i più autorevoli centri studi e organismi internazionali, a cominciare da Fmi e Bankitalia, parlano di soli 6 decimi di punto, e con questo scarto del 40% già i conti non tornano. Se poi si aggiunge che la stima del governo è basata per 9 decimi sull’effetto che il Pnrr avrà sul pil, c’è da farsi il segno della croce, visti i ritardi conclamati nella spesa effettiva di quelle risorse.
Con il crescere della possibilità che i conflitti militari segnino l’orizzonte del quadro geopolitico, con le conseguenze anche economiche che ciò comporta, l’importanza dell’entità Europa aumenta esponenzialmente, divenendo determinante. Non fosse altro che per questo, da parte nostra mettere l’Unione europea nel mirino, accusandola nello stesso tempo di essere troppo e troppo poco, finendo col praticare e vellicare un antistorico sovranismo, è non solo stupido e autolesionista, ma criminale, perché così facendo si corre il rischio di costruire con le proprie mani il nostro futuro isolamento internazionale. E tale è lo spettacolo di una classe politica bipopulista che, tutta presa dalle proprie introflessioni, non sa prendersi la responsabilità di spiegare, a sé stessa prima ancora che ai cittadini, che è suicida continuare a pagare il consenso, peraltro decrescente, con una spesa pubblica fuori controllo e con entrate private di almeno 100 miliardi di evasione fiscale tollerata. Ed è un viatico tremendo per i tanti italiani dotati di buona volontà e buon senso che devono decidere se il 9 giugno andare alle urne, e se sì come non sprecare il proprio voto. Ma di questo parleremo in una delle prossime newsletter, in fondo mancano ancora oltre 40 giorni alle elezioni, anche se siamo sciaguratamente in campagna elettorale ormai da mesi e mesi. Per intanto buon Primo Maggio, nella speranza che siate riusciti a festeggiare il 25 aprile lontano dalle reticenze degli uni e dalle polemiche strumentali degli altri, ma soprattutto da quei veri fascisti che hanno voluto macchiare di antisemitismo la giornata che festeggia il ritorno della libertà.
L'EDITORIALE
DI TERZA REPUBBLICA
Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.