Economia in-def-inita
I NOSTRI CONTI (MALATI) PRESENTANO IL CONTO E RINVIARE LE DECISIONI AUMENTA IL COSTO
di Enrico Cisnetto - 13 aprile 2024
Vivere alla giornata è un modo come un altro di campare. Rispettabile, ma non il migliore. Tanto più se a farlo è il governo, rendendone collettivi gli effetti. La pratica è stata messa nero su bianco nel DEF, Documento di Economia e Finanza, la cornice triennale all’interno del quale vengono definite le scelte di politica economica: quello appena presentato dal Tesoro e approvato dal governo è privo della parte “programmatica”, cioè si limita infatti a fotografare il presente ma non dice nulla su cosa s’intenda fare per il futuro. Il DEF in-def-inito, l’ho battezzato nella mia War Room di giovedì 11 aprile (qui il link). Per un esecutivo non dimissionario si tratta di una scelta inedita, che il governo sostiene essere stata informalmente concordata con Bruxelles e che potrebbe essere adottata anche da altri paesi. L’Unione europea deve infatti rivedere nel dettaglio il nuovo Patto di Stabilità, che fissa le regole di bilancio degli Stati. Cosa che farà, come è giusto, solo dopo le elezioni di giugno, con il nuovo Parlamento insediato e la Commissione nominata.
Si tratta di una giustificazione “tecnica”, questa, fondata, ma che regge solo fino ad un certo punto. Da un lato, infatti, le nuove regole europee sono già state definite e da noi approvate – a mancare sono solo i dettagli – mentre dall’altro lato, è fin troppo chiara la necessità “politica”, ma sarebbe meglio dire elettorale, di mantenersi nel limbo delle scelte di bilancio per poter affrontare le elezioni europee di giugno continuando a sventolare, senza tema di smentita, le promesse fiscali e di bonus che hanno caratterizzato fin qui la politica di questo come di tutti i governi precedenti. È quella che Veronica De Romanis definisce l’illusione del “pasto gratis”, richiamando il titolo di un vecchio libro dell’economista americano Milton Friedman.
Insomma, non sapendo bene che pesci prendere, il governo ha preferito mettere via la canna da pesca. Pur in un quadro di finanza pubblica che ci costerà quasi certamente l’ammonizione formale di Bruxelles per deficit eccessivo e forse l’onere di una manovra correttiva. Ma tutto questo avverrà dopo l’estate, ed evidentemente la speranza è che il risultato elettorale sia utile non solo per sistemare alcuni conti, politici e personali, dentro la maggioranza di governo, ma anche e soprattutto per “agganciare” la maggioranza che esprimerà la nuova Commissione Ue. Cosa incerta, la prima, e per nulla semplice la seconda. Ma tant’è, mandare la palla vanti e guadagnare tempo è lo sport preferito della politica nostrana. E pazienza se il contesto è quello di una guerra alle porte (sull’argomento vedere la War Room di mercoledì 10 aprile, qui il link) e di un quadro geopolitico ad alto rischio, con gravi ripercussioni anche sulla tenuta delle economie occidentali, e della nostra – dotata di fragilità peculiari – a maggior ragione. Vediamo qualche numero per valutare meglio i rischi che corriamo.
Il pil atteso nel 2024 viene abbassato di due decimali (dall’1,2 all’1%), ma la stima resta ottimistica se confrontata con tutte le altre previsioni, a cominciare da Banca d’Italia che ferma la crescita allo 0,6%. Vista in termini percentuali sembra poco, ma quattro decimi di punto vogliono dire uno scarto del 40%. Non sono peanuts. Ma soprattutto, la previsione è che anche negli anni successivi si resti inchiodati intorno all’1% (un po’ più nel 25, un po’ meno nel 26). Si tratta di una progressione di sviluppo del tutto insufficiente, che rende il +3,7% del 2022 un’eccezione destinata a rimane tale e che non assicura né slancio al sistema economico né conforto alla finanza pubblica. Infatti, dopo che nel 2022 e nel 2023 il rapporto deficit-Pil si era attestato rispettivamente all’8,6% e al 7,2%, ora il disavanzo è previsto al 4,3%, per poi scendere al 3,7% nel 2025 e al 3% nel 2026. Numeri lontani dall’1,5% fissato dal nuovo Patto di Stabilità e che, soprattutto, alimentano il debito. Il quale è in risalita dal 137,8% di quest’anno al 139,8% del 2026: 72 miliardi in più rispetto a quanto previsto un anno fa. Numeri che fanno capire perché una procedura per deficit eccessivo non ce la toglie nessuno, visto che tra l’altro lo stesso Ministro dell’Economia Giorgetti l’ha data per sicura.
Tutta colpa del Superbonus, il cui costo è schizzato a 219 miliardi (20 volte le previsioni iniziali), dicono al Tesoro e dalle parti di palazzo Chigi, dimenticando che se la paternità di quel provvedimento è sicuramente dei 5stelle, e di Giuseppe Conte in particolare, tutti i partiti di maggioranza l’hanno approvato e mantenuto in piedi fino a ieri, governo Draghi compreso. E dimenticando di aggiungere che altri 100 miliardi sono andati a debito per i sussidi al pagamento delle bollette in occasione della crisi energetica generata dall’invasione russa dell’Ucraina. Per carità, a Bruxelles dicono che non è il caso di “fare drammi”, perché quello che conta è “mettere i conti in ordine”. Ma il DEF in-def-inito, per il momento, questo lavoro di pulizia non lo fa. Anzi, proprio perché siamo sotto elezioni si dice che una manovra correttiva sia da escludere, ma ammesso e non concesso che sia così perché ballano circa una ventina di miliardi, resta comunque da capire quale politica economica sia possibile in queste condizioni di bilancio, anche solo per riconfermare il taglio del cuneo fiscale o l’eliminazione di una aliquota Irpef. E senza contare che la spesa previdenziale sale vertiginosamente (del 5,8% quest’anno, del 2,9% nei successivi tre anni) arrivando a pesare per il 15,5% del pil, e che ci sono voci di bilancio, come la sanità, che richiedono di essere assolutamente irrobustite. Perché i casi sono due: o si dovrà fare altro deficit e altro debito, oppure la prossima manovra di bilancio dovrà stringere i bulloni ora lasciati allentati.
Nel primo caso la scommessa è che il nuovo assetto politico europeo ci consenta di continuare a fare le cicale. Ora, a parte che se anche fosse non sarebbe la ricetta giusta per il Paese, il tasso di probabilità che l’operazione riesca è oggettivamente basso, e rimarrebbe tale – è bene che di questo se ne facciano una ragione a palazzo Chigi – anche se Mario Draghi dovesse assumere un alto incarico comunitario. Anche perché in ballo c’è un’altra questione che ci vede già ora con il cappello in mano al cospetto di Bruxelles: ottenere una proroga della scadenza, fissata a fine 2026, della realizzazione delle iniziative finanziate con i soldi del Pnrr, visto che finora abbiamo speso solo 43 dei 194,4 miliardi messi a disposizione all’Italia e che appare arduo riuscire a spendere i 150 residui nei due anni e 8 mesi che abbiamo davanti (significherebbe spendere ad un ritmo tre volte più veloce di quello tenuto fin qui). I sondaggi sono già in corso, e per ora la domanda ottiene la seguente risposta: “irricevibile oggi, difficile per non dire improbabile domani”. Poi magari la proroga temporale ce la daranno, perché il fallimento italiano nell’ambito del Next Generation Ue sarebbe un danno pesantissimo per l’Europa e non conviene a nessuno, ma se così accadrà, non sarà certo un favore gratuito. I Paesi che si erano battuti contro questo debito comunitario chiederanno pesanti contropartite.
Inoltre, anche se avessimo licenza di spendere, sarebbe suicida non tener conto che già così l’anno prossimo il debito pubblico supererà l’asticella dei 3 mila miliardi, per arrivare a 3.300 miliardi nel 2027, tanto che lo stesso DEF prevede che solo nel 2028 il rapporto debito-pil tornerà a scendere. Condizione, questa, che ci espone al rischio spread, pericolo di cui tutti si sono colpevolmente dimenticati solo perché nel frattempo il differenziale è sceso, ignorando o facendo finta di non sapere che ciò dipende dalla crisi tedesca e non da meriti nostri, tanto che restiamo in fondo alla classifica europea, scavalcati persino dalla Grecia. In queste condizioni si può davvero anche solo pensare di alimentare ulteriormente deficit e debito? E poi per cosa? Mica per spingere gli investimenti e la crescita, ma per continuare ad elargire bonus, incentivi fiscali e compensazioni d’imposta – dal 2018 ad oggi le agevolazioni fiscali anziché diminuire sono passate da 466 a 625, raddoppiando in valore, da 54 a 105 miliardi – alimentando così quella “bonus economy” che ci indebita senza fare né sviluppo né equità sociale.
L’altra ipotesi è che, per ritrovata saggezza o per imposizione europea, si stringano i cordoni della borsa. Per far questo basterebbe anche solo cancellare quelle misure, fiscali e di bonus, che sono state assunte solo per quest’anno, in attesa di capire se possano essere prorogate. Se fossero finanziate in deficit, infatti, porterebbero il rapporto con il pil dal 3,7% tendenziale al 4,6%. E il debito oltre il 140%. Inducendo Bruxelles ad intervenire. Ma a parte le conseguenze politiche interne che ciò genererebbe, si tratterebbe di vedere in quale modo si farebbe quest’opera di risanamento finanziario. Se lo si facesse agendo sia sul lato della spesa corrente – penso non solo agli sprechi in senso stretto che la tanto evocata quanto mai praticata spending review potrebbe tagliare, ma anche e soprattutto alla revisione di tutti i bonus, incentivi ed esenzioni che si sono accumulati negli anni – che su quella delle entrate, aggredendo quei 100 miliardi di evasione fiscale che restano tali solo per mancanza di volontà politica (i mezzi tecnici ci sono tutti), sarebbe un’operazione virtuosa. Ma l’hanno fatta poco i governi tecnici, perché condizionati dalle ambizioni politiche e istituzionali di chi li guidavano, figuriamoci quelli strettamente politici.
La verità è che andrebbe aggredita la quadrupla contraddizione che ci portiamo dietro da sempre: uno Stato troppo pesante, con mille e cento miliardi di spesa e un po’ meno di entrate, improduttivo, perché la spesa è quasi esclusivamente corrente e dunque non aiuta la crescita dell’economia, inefficiente, perché perpetua le disfunzioni e non genera modernità, e iniquo, perché sostiene in eccesso i garantiti e non aiuta gli emarginati. Questo significherebbe spendere meno ma soprattutto diversamente. Lo testimoniano le difficoltà a realizzare gli investimenti in conto capitale (vedi Pnrr ma anche i fondi europei) e le evidenti disfunzioni del nostro sistema di welfare, tanto elefantiaco quanto arretrato. Ma per far tutto questo – un vero programma di legislatura piena – occorrono o coraggio e cultura da parte dei partiti esistenti, oppure forze politiche nuove. Per ora mancano entrambe le cose. Ma siccome è giunto il momento in cui i conti presentano il conto, e per di più il contesto internazionale è destinato a imporre obblighi finora ignoti, per non soccombere qualcuno da qualche parte dovrà pur cominciare.
L'EDITORIALE
DI TERZA REPUBBLICA
Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.