Corriamo rischi mortali
NATO EUROPEA, INVESTIMENTI E GOVERNO FEDERALE UE PER NON SOCCOMBERE
di Enrico Cisnetto - 06 aprile 2024
Se noi fossimo un paese serio, e se gli altri Stati europei avessero la minima consapevolezza che in questo momento qualsiasi questione interna, per quanto importante, non conta nulla al cospetto degli esiziali pericoli esterni che ci circondano, la campagna elettorale per l’elezione del Parlamento europeo avrebbe tutt’altri toni di quelli che si stanno usando. Invece di sollecitare il consenso strepitando su temi nazionali, o, peggio, azzuffandoci per piccole e spesso indecorose beghe locali, ci si confronterebbe sulla condizione geopolitica in cui oggi vive l’Europa, che rappresenta un passaggio epocale a 79 anni dalla fine della Seconda Guerra Mondiale. Ergo, si parlerebbe un linguaggio di verità, quello che nessuno, né le leadership politiche nazionali né le istituzioni continentali, ha fin qui adottato. Ha ragione il presidente della Pirelli, Marco Tronchetti Provera, nel denunciare che “queste elezioni stanno diventando una proxy locale” e che “si guarda più agli equilibri nazionali che al destino dell’Unione”, proprio mentre le due guerre che si stanno combattendo sull’uscio delle nostre case richiederebbero di dire senza mezzi termini ai cittadini europei i rischi che si stanno correndo. Dir loro che l’Europa è un bicchiere riempito a metà, e che sono entrambe false le opposte narrazioni propinate da chi guarda solo la parte piena o solo la parte vuota del bicchiere medesimo.
Non è vero ciò che racconta il sovranismo destrorso, e cioè che l’Europa sia una matrigna cattiva intenta solo a imporre vincoli a scapito delle sovranità nazionali, non fosse altro perché fatica ad essere un vero soggetto politico in mancanza di una politica estera, di una difesa e di una fiscalità comuni. Ma non è nemmeno vero, come sostengono taluni eurodisfattisti, che l’Europa sia una totale incompiuta perché si sarebbe completamente fermato il processo di integrazione: lo dimostra la reazione messa in campo da due anni a questa parte di fronte alla guerra scatenata dalla Russia contro l’Ucraina, sia sul piano degli aiuti militari, sia su quello della ridefinizione degli approvvigionamenti energetici dopo la chiusura dei rubinetti del gas russo. È vero, invece, come dice ancora Tronchetti Provera, che gli anni trascorsi felicemente (ma spesso inconsapevolmente, come dimostra il diffuso antiamericanismo di sinistra, ma anche di destra) sotto l’ombrello protettivo degli Stati Uniti, ci hanno talmente mal abituati che non ci siamo accorti che con la caduta del Muro di Berlino e la fine della guerra fredda era mutata la valenza strategica dell’Europa come frontiera tra Est e Ovest.
In questi 35 anni da quel 1989 in cui è finito il comunismo come forma di coesione di una parte del mondo, abbiamo vissuto in una sorta di limbo, nel quale l’adesione alla Nato è stata sufficiente per tutelare la nostra indipendenza e la nostra libertà. Certo, ci sono state guerre in molti angoli del pianeta, o molto vicino come in Kosovo, ma nessuna ha mai assunto una valenza globale come Putin e Hamas hanno voluto dare ai conflitti che hanno scatenato ora. Nel mirino ci sono Ucraina e Israele, ma il disegno – probabilmente unitario, quello tardo sovietico-zarista del Cremlino e quello dell’imperialismo islamico dell’Iran e dei suoi bracci armati, o comunque unificabili – va ben al di là, e punta a mettere in discussione gli interi equilibri planetari e con essi la convivenza pacifica faticosamente ma proficuamente costruita dal 1945 in poi. Un contesto nel quale l’Europa, non pienamente consapevole dei suoi limiti, rischia di essere il vero obiettivo delle autocrazie e dei terroristi. Anche perché popolata di leadership politiche incapaci, per un mix letale di ignoranza e ignavia, di raccontare la verità ai suoi cittadini, lasciandoli preda delle narrazioni fuorvianti, vuoi degli utili idioti o dei prezzolati che credono che Mosca si sia mossa perché provocata dalla Nato, vuoi dei pacifisti, più o meno candidi, che imprecano contro Israele, spesso con toni antisemiti, senza mai dire come fermare il “trio H” (Hamas, Hezbollah, Houthi) e chi lo arma e finanzia.
Il passaggio storico che stiamo vivendo è decisivo come mai prima. In gioco non c’è solo il presente, inteso come continuità della libertà e del benessere che le generazioni precedenti ci hanno lasciato, ma anche e soprattutto il futuro da consegnare ai nostri figli, che è tutto da costruire. Da un lato abbiamo bisogno di sviluppare una capacità di difesa all’altezza dei rischi che stiamo correndo, dall’altro di creare le condizioni per essere competitivi in un mondo che sperimenta, con il digitale e l’intelligenza artificiale, nuovi e rivoluzionari modelli di sviluppo. Su entrambe le frontiere siamo maledettamente indietro. Ma non ci mancano le chances di recupero, se solo riuscissimo a capire che per coglierle dobbiamo accelerare il processo d’integrazione politico-istituzionale europeo, mettendo mano con coraggio e lungimiranza a istituzioni e regole comunitarie. Faccio tre esempi per farmi capire meglio.
Partiamo proprio dalla precondizione, evitando di ripetere l’errore che fu fatto al momento della nascita dell’euro, quando si credette che l’integrazione monetaria avrebbe virtuosamente messo in moto gli altri livelli di coordinamento. Dunque, perché non mettere al centro del programma europeo delle forze politiche nazionali e dei raggruppamenti continentali una strutturale riforma istituzionale che consenta ai cittadini di votare direttamente liste europee per eleggere un governo federale? Senza un governo europeo è puramente illusorio parlare di esercito comune, di integrazione dei produttori degli strumenti di difesa, di politica estera unica, di debito comune finalizzato a investimenti comunitari. In Italia ci si dilania intorno all’ennesimo tentativo di cambiamento della Costituzione, senza capire che anche la migliore delle riforme – e quella in discussione di certo non lo è, anzi – non darebbe al governo italiano la capacità di affrontare i veri problemi, per il semplice motivo che non sono assolutamente risolvibili a livello nazionale (e questo vale per tutti i paesi, nessuno escluso). Occorre quindi spostare la mira se non si vuole finire – ce lo ha ricordato in un articolo sulla Stampa il corrispondente in Italia di Libération e presidente di Europa Now, Eric Josef – come i teologi bizantini che nel 1453 a Costantinopoli discutevano del sesso degli angeli mentre gli Ottomani stavano per dare l’assalto alla città.
La seconda opportunità da cogliere si chiama Nato. Proprio in questi giorni si festeggiano i 75 anni dell’Alleanza Atlantica, che dal 1949 in poi è stato strumento decisivo per mettere e mantenere il mondo in equilibrio. Un compleanno diviso tra la sordina (tanta), la retorica (poca) e la vecchia tiritera sull’imperialismo amerikano (troppa), nella stolta idea di attendere il voto di novembre per capire se Biden manterrà o Trump ritirerà la presenza Usa nell’Alleanza. Eppure, l’occasione per definire un nuovo e più pregnante ruolo europeo nella Nato viene dalla proposta lanciata dal segretario generale dell’Alleanza, Jens Stoltenberg, di affidare alla stessa Nato il compito di rafforzare il sostegno all’Ucraina – in questo momento ineludibile se non si vuole che Kiev soccomba, aprendo la strada a nuove e ancor più pericolose mire di Putin – con un piano militare da 100 miliardi di dollari. Finora gli aiuti Zelensky li ha avuti dai singoli Stati, nella preoccupazione di mantenere la Nato al di qua della linea rossa dell’intervento diretto ed evitare così di dare al Cremlino la scusa per innescare un conflitto su più vasta scala, se non mondiale. Ma quegli aiuti stanno venendo meno, e con essi la capacità degli ucraini non solo di contrattaccare ma anche di difendersi. Al di là del fatto che giudico l’idea di Stoltenberg efficace e comunque ancora al di qua della famosa linea rossa, resta il fatto che essa è la chance giusta per dare alla Nato una trazione europea – tanto più visto lo scetticismo che ha contrassegnato la reazione americana – e con essa iniziare il processo di integrazione militare, e di definizione della linea di politica internazionale, che serve con immediatezza all’Europa. Qualcuno vuole parlarne in campagna elettorale?
Infine, la questione della competizione economico-finanziaria e industriale dell’Europa nel contesto della nuova fase della globalizzazione (post Covid e alla luce della drastica riduzione delle esportazioni cinesi e del blocco navale del canale di Suez) e della rivoluzione tecnologica in atto. Siamo maledettamente indietro. Un numero per tutti: sull’intelligenza artificiale l’Europa ha stanziato 7 miliardi di euro, la sola OpenAI ha in programma di raccogliere 7 trilioni di dollari per trasformare i modelli di business. Diciotto zeri contro nove, la partita è persa in partenza. Cosa fare? Mario Draghi ha invitato l’Ue a spendere almeno 500 miliardi all’anno nel prossimo decennio, Enrico Letta si predispone a presentare al Consiglio europeo una riforma del mercato unico che indicherà in telecomunicazioni, energia, difesa e finanza i settori su cui andrà immediatamente posta un’azione anti-frammentazione. Tutto giusto, ma non realizzabile senza prima aver messo mano alla governance comunitaria.
Qualche tempo fa ho firmato, insieme con molte personalità ben più significative di me, un “manifesto per l’Europa” in cui si invitava le classi dirigenti continentali a predisporsi a riforme strutturali e si indicavano specifiche proposte di policy. Purtroppo, disattendendo le speranze degli organizzatori dell’iniziativa e dei firmatari, quelle raccomandazioni sono state pressoché ignorate dalla campagna elettorale fin qui svolta. La mia speranza perché ciò avvenga prima del 9 giugno è assai flebile, ma il tempo c’è. Ci riflettano non solo i politici, ma anche gli esponenti della cultura, dei media, delle imprese. Su tutti loro, su tutti noi, incombe la responsabilità di decidere se combattere o se soccombere, in tutte le possibili accezioni di entrambe queste opposte condizioni.
L'EDITORIALE
DI TERZA REPUBBLICA
Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.