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L'editoriale di TerzaRepubblica

Giorgia & Elly unite dalla retorica pacifista

NON È COSÌ CHE SI AFFRONTANO LE GRANDI SFIDE MONDIALI E SI RIANIMA LA BUONA POLITICA

di Enrico Cisnetto - 17 febbraio 2024

“Non è tutto oro quel che luccica”, per dirla con Esopo. O più brutalmente “gilded tombs do worms infold”, per usare una citazione shakespeariana tratta da “Il mercante di Venezia”. Mi è venuta voglia di mettervi in guardia dalla falsità delle belle apparenze, molto meno commendevoli di come appaiano a prima vista, leggendo le auliche cronache che ci hanno raccontato degli amorosi sensi della nuova coppia della politica italiana, Meloni e Schlein. O per meglio dire, Giorgia & Elly, quasi fosse la versione riveduta e corretta di Thelma & Louise. Premessa: che la politica italiana sia da anni ridotta ad una furiosa contrapposizione di fazioni, che ha cancellato il dialogo e il confronto, non ci piove. E questa stessa newsletter è nata – trent’anni fa, ahimè – proprio per denunciare questa regressione, responsabile del declino del Paese. Dunque, se magicamente qualcuno muove i suoi passi nella direzione opposta, non si può che esserne felici. Tuttavia, proprio perché non tutto ciò che brilla è oro, occorre guardare il merito di queste convergenze apparentemente gratificanti.

Nello specifico, Giorgia & Elly si sono parlate – e che questo sia una notizia già la dice lunga – per convergere sulla richiesta di un immediato cessate il fuoco a Gaza. Che, tradotto, significa un unilaterale stop a Israele, visto che ad Hamas di una tregua non gliene frega proprio niente, anzi. Ora, tecnicamente si è trattato di un’astensione dei parlamentari meloniani nel voto su una mozione predisposta in tal senso dal Pd (con pochi mal di pancia interni, e anche invisibili se non fosse per le coraggiose parole spese da Piero Fassino). Ma si tratta di una foglia di fico che non nasconde la vergogna di una convergenza che parte dal presupposto di poter equiparare la guerra terroristica di Hamas e quella di Israele, per il solo fatto che entrambe producono morti e distruzioni. Lo so, nell’opinione pubblica prevale ancora il sentimento “pacifista” che ha permeato l’Occidente una volta chiusa la drammatica vicenda della Seconda Guerra Mondiale e la caduta delle ideologie rimaste sepolte sotto le macerie del Muro di Berlino. Dico ancora, perché la retorica che le armi vanno riposte permane nonostante siano tutt’ora nei nostri occhi l’invasione dell’Ucraina da parte di Putin, e i disegni “sovietici” che l’hanno provocata, il massacro del 7 ottobre e gli attacchi nel Mar Rosso, con anche i danni ai nostri commerci e dunque alle tasche di ciascuno. Ma proprio perché si tratta di un sentimento tanto “facile” quanto inadeguato ai momenti che viviamo, ricorrervi per aprire un’inedita stagione politica del dialogo sul piano interno, mi fa girare le scatole doppiamente. Da un lato, perché di dialogo la nostra politica avrebbe bisogno come l’aria e l’acqua, ma cominciare sommando le rispettive debolezze culturali e l’eguale tendenza al populismo non fa ben sperare. Dall’altro lato, perché la politica estera, e in particolare la collocazione internazionale dell’Italia, è cosa troppo delicata per piegarla a qualche tornaconto di infimo conio.

Come ha scritto Stefano Folli, la risoluzione per il Medio Oriente è una scommessa ad altissimo rischio. Certo, lì per lì ti può dare la sensazione che a Washington abbiano apprezzato, oltre a quella ancor più gradevole di aver lisciato il pelo dell’opinione pubblica per il verso giusto. Ma se, Dio non voglia, la crisi a Gaza dovesse aggravarsi in un contesto dove all’affievolirsi della solidarietà occidentale ad Israele fa da contrappunto la crescita dell’impunità di Hamas e della libertà di azione dell’Iran nel Mar Rosso e in Libano, con il massiccio uso delle azioni terroristiche degli Huthi e di Hezbollah, allora l’invito bipartisan al governo israeliano a cessare l’azione militare nella Striscia di Gaza, perché ritenuta sproporzionata rispetto ai massacri del 7 ottobre e senza nulla chiedere concretamente ad Hamas, si rivelerebbe un pericolosissimo boomerang.

Su questo punto vorrei essere chiaro: mi sento estraneo tanto alla categoria dei guerrafondai, che credono esclusivamente nell’uso della forza, quanto a quella dei pacifisti, che credono di poter risolvere i gravi e complessi problemi dell’umanità intonando il salmo del “vogliamoci bene, siamo tutti figli dello stesso padre”. Appartengo, invece, alla sempre meno frequentata categoria dei realisti, che evitano le facili semplificazioni, che credono che questioni annose come quella mediorientale non siano riconducibili a qualche slogan urlato impropriamente dai microfoni del Festival di Sanremo (quale esso sia, avrei scritto la stessa cosa se quelle parole fossero state spese contro Hamas). E che quando sentono evocare la formula pilatesca “due popoli, due Stati”, si pongono il problema di quali territori si sta parlando e di chi governerà lo Stato palestinese, visto che certo non lo si può affidare né al gruppo finanziato e protetto da Teheran né allo screditato Abu Mazen, presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese. Si può pensare tutto il male possibile di Benjamin Netanyahu, e io sono tra quelli che hanno auspicato una sua uscita di scena fin dall’8 ottobre, ma non si può essere così stolti da credere che il suo successore, chiunque esso sia, anche un liberal di sinistra, voglia e possa immaginare di prescindere da una totale e definitiva sconfitta di Hamas. Né che qualunque governo americano ed europeo possa veder distruggere la democrazia di Israele senza intervenire.

Già, il realismo, cibo per le menti difficile da masticare e ancor più da digerire. Che diventa immangiabile, se si diffonde il verbo del politicamente corretto, se a fare i titoli dei giornali non sono le parole del capo delle forze armate norvegesi, Eirik Johan Kristoffersen, secondo cui l’Occidente ha due, massimo tre anni, per prepararsi alla guerra che scatenerà la Russia (non a caso riprese con evidenza dall’inglese Sunday Telegraph), o quelle analoghe del ministro della Difesa tedesco, Boris Pistorius, bensì gli echi dello spettacolino “canoro” (si fa per dire) sanremese. Se il circo politico-mediatico riempie il vuoto del realismo che non c’è con dosi massicce di discussioni inutili, poi è difficile che dalla società salga la domanda di risposte non banali a questioni complesse. E che la politica non preferisca rifugiarsi nella demagogia consolante (ammesso e non concesso che conosca la modalità opposta).

Così hanno fatto le due underdog Giorgia & Elly, credendo peraltro di aver rivoluzionato la politica per il solo fatto di parlarsi. Non è la prima volta che le due si muovono nella modalità “riconosciamoci reciprocamente come interlocutrici privilegiate”. Lo schema di gioco è banale: sono due donne, hanno in comune il complesso del “brutto anatroccolo” – l’una per aver vissuto un’esperienza politico-culturale di (auto)apartheid, l’altra per la sua estraneità alla politica stessa – e coltivano parimenti la convenienza a isolare e ridurre alla marginalità i rispettivi compagni (maschi) di viaggio, Matteo & Giuseppi, che non a caso hanno preso a (ri)frequentarsi come quando stavano al governo insieme. E guardate che la risoluzione parlamentare “concordata” dell’altro giorno è solo la punta di un iceberg di “incestuose” frequentazioni politiche. Il Foglio ha calcolato che solo negli ultimi tre mesi il Pd alla Camera ha votato favorevolmente provvedimenti del governo per ben 87 volte e per 47 volte si è astenuto. Numeri da consociativismo. E sempre per misure ad “alto tasso demagogico”, tiene a precisare il quotidiano fondato da Giuliano Ferrara. E nel solco, sempre arato, dell’allargamento a dismisura della spesa pubblica, aggiungo io. Naturalmente le dinamiche della campagna elettorale porteranno le novelle Thelma & Louise a dirsene di tutti i colori: l’una chiamerà i benpensanti e i qualunquisti a rivoltarsi contro l’egemonia culturale della sinistra, l’altra evocherà il pericolo fascista alle porte. Serve prendere voti, pensano, senza rendersi conto che così si spinge la parte migliore della società a starsene a casa, stomacata. Ma sotto la spessa coltre della polemica, c’è spazio per la reciproca convenienza dell’eleggersi l’un l’altra come unica interlocutrice/concorrente, obbediente alle leggi della politica ridotta a pura esibizione e contrapposizione di leader, anziché di idee. Ci avevano già tentato Berlusconi e D’Alema, ma all’Italia non ne è venuto nulla di buono. Ora ci riprovano Giorgia & Elly, sempre obbedendo al principio che la politica italiana ha da essere bipolare, manco fosse scritto sulle tavole di Mosè. Ma il rischio è che mentre Putin seppellisce Navalny e i capi di Hamas dalle loro opulenti residenze di Doha mandano al macello i poveri civili palestinesi che usano senza scrupoli per i loro sporchi fini, la nostra politica estera finisca nelle mani di un rapper, di un Ghali qualunque.

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Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.