Europa da ripensare
TRA PROTESTE DEI TRATTORI (CORPORATIVE) E AMBIZIONI AMBIENTALISTICHE (IDEOLOGICHE) L'UE DEVE SCUOTERSI
di Enrico Cisnetto - 10 febbraio 2024
Ci volevano i trattori nelle piazze di mezza Europa. Mancano ancora 120 giorni alle elezioni europee, ma sciaguratamente la campagna elettorale è in corso da molto (troppo) tempo, e fin qui di tutto si è (s)parlato meno che delle grandi questioni strategiche, anzi epocali, che riguardano il Vecchio Continente. Anzi, ciascuno ha usato la prospettiva del voto europeo per fare propaganda nazionale e regolare conti politici interni. Strettamente continentali sono rimaste solo le mere questioni di potere, tipo “quali alleanze” e per “eleggere chi”. Poi la protesta dei trattori ha preso piede fino a divampare, ed ecco che nella campagna elettorale è piombata la “campagna”, intesa come le politiche agricole e il loro impatto sugli agricoltori. Ed essendo queste la diretta conseguenza delle politiche ambientali Ue, ecco che finalmente si è cominciato a discutere di cosa deve e può essere l’Europa del futuro, prossimo e remoto. I toni sono da tifoseria, tanto da parte di chi applaude i trattori che calcano le capitali europee ed è convinto che gli agricoltori siano vittime di un approccio ideologico ai problemi ambientali, una sorta di fanatismo ecologista, oltre che di un’ipertrofia regolatoria di una Ue considerata matrigna, tanto da parte di chi, invece, giudica corporativa la protesta contadina, bollandola come frutto di una cultura sovranista e protezionista. Ma almeno si va alla sostanza delle cose. Ed è probabile che in questa contrapposizione, che tra l’altro va ben al di là dei confini dell’economia primaria, ci sia del vero in entrambi i punti di vista. Ma andiamo con ordine, magari andando preventivamente a vedere la puntata di giovedì 8 febbraio di War Room (qui il link).
Da decenni l’agricoltura europea è sussidiata, tanto che quella voce pesa per poco meno di un terzo del bilancio comunitario (per decenni è stata la metà) e consente di formare con i trasferimenti, cioè a spese di tutti i cittadini europei, il 40% del reddito medio degli agricoltori. Di qui al 2027 parliamo della bellezza di quasi 400 miliardi. Cui si devono aggiungere gli effetti benefici per chi lavora la terra (ma non per i consumatori) della barriera protettiva rappresentata dai forti dazi doganali che la Ue applica alle importazioni da paesi terzi. Non è dunque un’affermazione demagogica dire che la gran parte dei trattori che stanno marciando contro l’Europa sono stati pagati con i soldi dell’Europa. Naturalmente ci sono state e ci sono buone ragioni, non solo elettorali intendo, alla base di questa politica. Per esempio, la manutenzione del territorio (ma la si fa sempre?), la necessità di evitare lo spopolamento delle campagne per rallentare l’ipertrofia delle città, il perseguimento della sovranità alimentare, intesa come autosufficienza e indipendenza dalle fonti esterne e come tutela della qualità e salubrità dei prodotti. Ma una cosa è certa: si è esagerato. Perché i sussidi non possono essere eterni, altrimenti diventano privilegi. Perché sovvenzionare colture che eccedono il fabbisogno e dunque vengono messe al macero, è immorale, oltre che un danno sul piano economico. E perché è autolesionista cristallizzare per sempre la scala delle priorità: l’Europa è sotto tanti profili, a cominciare da quelle delle tecnologie più innovative per finire a quello della difesa, un vaso di coccio tra quelli di ferro, americano e asiatico, e ha dunque un disperato bisogno di investire anche e soprattutto su altri fronti.
Ora, è vero che alcune circostanze, dall’incremento dei prezzi energetici (nella fattispecie il gasolio agricolo) agli effetti delle guerre in corso (per esempio, l’abolizione dei dazi sul frumento ucraino e la battaglia del grano su scala planetaria che si è scatenata dopo l’aggressione di Putin a Kiev), hanno prodotto difficoltà reali agli agricoltori. Ma questo non può significare che il delta negativo di reddito che si è venuto a creare debba e possa essere interamente compensato attraverso la fiscalità generale (o il debito) di ciascun paese, tanto sotto forma di sussidi nazionali che comunitari. Ma qui entra in gioco un altro tipo di avversità lamentata dai lavoratori della terra: le politiche Ue, sia quelle ambientali che quelle di regolamentazione burocratica. L’esempio più lampante è quello dei pesticidi: Bruxelles ha prima introdotto, e poi levato dopo le proteste, dei limiti all’uso dei pesticidi, che gli agricoltori considerano fondamentali per salvare molti tipi di raccolti, e che per ragioni ambientali e sanitarie si vogliono vietare. Quale delle ragioni deve prevalere? Non sono un tecnico, ma credo che abbiano validità entrambe e che occorra provare a contemperare le opposte esigenze. Come? Dal lato Ue, evitando decisioni forzate, con applicazioni non scaglionate nel tempo; dal lato dei produttori, evitando i niet. Le politiche condivise sono sempre le migliori, fermo restando che la politica è sovrana e i diritti di veto non si devono concedere a nessuno. E che prendere decisioni forti e poi fare frettolosamente marcia indietro non è sintomo di buona politica.
Ma il tema delle opposte esigenze va ben al di là della singola questione, e persino del mondo agricolo. Anche molte attività industriali sono poste di fronte allo stesso dilemma. D’altra parte, la politica è (anche) rappresentanza degli interessi diversi, purché legittimi, e capacità di ricondurli all’interesse generale. La politica buona è quella che parte dalla definizione dell’interesse comune, si divide sulle diverse visioni e poi a seconda decide di rappresentare quegli interessi specifici che sono maggiormente compatibili con il punto di sintesi cui s’intende arrivare. La cattiva politica è invece quella che fa il processo inverso, prima s’intesta la rappresentanza degli interessi particolari e trasforma quelli in interesse generale. La pessima è quella che rappresenta tutto e il contrario di tutto, dando ragione a chiunque senza temere di cadere in contraddizione perché intanto l’offerta politica si basa su altro (la leadership carismatica e la sua rappresentazione mediatica, gli slogan e il marketing politico). Lascio decidere a quale delle tre categorie appartiene la politica a cui oggi ci siamo affidati.
Tornando al tema, la Commissione europea ha deciso un taglio del 90% delle emissioni di gas serra entro il 2040 rispetto ai livelli del 1990 e si è data l’obiettivo della neutralità climatica entro il 2050. Sarebbe utile se, tanto per cominciare, i partiti si presentassero agli elettori avendo una posizione chiara intorno a questa ambiziosa prospettiva. Io, per esempio, sono teoricamente favorevole, ma non posso non pormi il problema di come non abbia senso che a lottare contro il cambiamento climatico, che è fatto planetario per definizione, sia un solo continente. Inoltre, voglio misurare senza alcun pregiudizio, preventivamente ed ex post, i benefici ambientali che certe scelte possono produrre rispetto ai danni che possono provocare alle attività economiche esistenti, in modo da decidere il giusto dosaggio delle due esigenze, sia in termini assoluti che sulla scala del tempo. Dire “ambiente, e pazienza per i trattori” o “trattori, chissenefrega dell’ambiente”, mi paiono approcci ideologici entrambi da non praticare. E poi, mentre sono pienamente d’accordo con l’indicazione data da Bruxelles che uno degli strumenti per raggiungere i traguardi di salvaguardia ambientale è l’uso del nucleare di nuova generazione, non mi convince l’esclusione dell’agricoltura da questo processo di riduzione dei gas serra.
Insomma, ho l’impressione che in campo siano più che rappresentate le utopie e la tutela degli interessi consolidati, molto meno il buon senso di chi vorrebbe che non si confondesse, da un lato, idealismo con ideologia, e dall’altro, realismo con conservatorismo corporativo. Si dirà: ma è difficile. Vero. Ma la politica, quella con la P maiuscola, serve proprio a fare le cose complicate, che di gente che la fa facile, combinando guai, c’è pieno il mondo. Il problema è che “vendere” sul mercato del consenso elettorale ricette semplicistiche facendo leva o sugli afflati ideali – “cambiamo il mondo, difendiamo la Terra” – o sulle paure corporative – “le élite plutocratiche vi vogliono affamare, noi difendiamo i vostri interessi e la vostra identità” – è molto più facile e momentaneamente redditizio che non portare la complessità e tentare di renderla intellegibile. Pagano nel breve, però, perché le ricette populiste hanno per definizione le gambe corte, e anche il cittadino più distratto o maggiormente vittima dei lavaggi del cervello finisce con l’accorgersi presto (ultimamente, sempre più presto) di essere stato fregato. L’importante è non cadere nella trappola in cui da anni sono caduti gli italiani, e cioè passare da un pifferaio magico all’altro, nella (vana) speranza che il successivo sia meglio del precedente.
Come è emerso nella War Room di mercoledì 7 febbraio dedicata alla ormai incompatibile presenza dell’Ungheria dell’illiberale Orban nella Unione Europea (qui il link), il nostro continente vive un passaggio fondamentale della sua storia. La fine di Yalta e degli equilibri Est-Ovest della guerra fredda senza che nel frattempo sia stato trovato un nuovo ordine mondiale, ha aperto la strada ad una fase anarchica della geopolitica, in cui l’Europa è sicuramente l’area più debole. Il modello di sviluppo basato sull’energia a basso costo proveniente dalla Russia, sulla delocalizzazione produttiva verso i paesi con il costo del lavoro più contenuto, sulle esportazioni di beni ad alto prezzo e sulla protezione militare americana – che dal 1945 in poi ha dato prosperità e benessere all’Europa, consentendole di creare il sistema di welfare migliore al mondo – è morto e sepolto. Schiacciato anche da disparità demografiche a nostro svantaggio, da un crescente gap tecnologico nei settori che fanno (il digitale) e soprattutto faranno (l’intelligenza artificiale) la differenza, dall’affermarsi sulla scena globale di paesi e aree emergenti molto più “affamate” di sviluppo e progresso di noi, che siamo vecchi e appagati, imprigionati in una scala di valori dove sono scomparsi i doveri e sono rimasti solo i diritti, impigliati in farraginosità burocratiche figlie di una spesa pubblica parassitaria, obnubilati da subculture a-scientifiche o, peggio, anti-scientifiche che ci impediscono di guardare con speranza al progresso e dunque al futuro.
L’Europa, insomma, deve ripensarsi. E non può farlo senza che le vecchie culture politiche si ridefiniscano a partire da questo compito immane, e che ne nascano di nuove con questo ambizioso obiettivo. Deve scuotersi. E se i trattori – anche quelli guidati da vecchi marpioni del radicalismo e del populismo nostrani, come Mario Capanna e Antonio Di Pietro, che non a caso si sono subito messi a capo della protesta – serviranno a dare uno scossone salutare, allora ben vengano. Se invece saranno l’ennesima rappresentazione della difesa di interessi corporativi in cambio di un po’ di consenso elettorale del giorno dopo, allora mala tempora currunt.
L'EDITORIALE
DI TERZA REPUBBLICA
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