Bussola geopolitica impazzita
DALL’UCRAINA ALLE MIRE SUL BALTICO, DA SUEZ ALL’OMBRA DI TRUMP. LA GEOPOLITICA METTE IN CRISI L’EUROPA (E L’ITALIA)
di Enrico Cisnetto - 27 gennaio 2024
Dicesi schizofrenia un disturbo della mente caratterizzato da alterazioni nel modo di percepire, pensare e comportarsi che ha un’evoluzione cronica che, se non curata, tende ad aggravarsi nel tempo. Ecco, di questa grave malattia pare affetta la politica italiana, se la si osserva mentre si dissocia dalla realtà. Come sta accadendo in questo momento: il mondo brucia e ci fa trovare la guerra alle porte di casa o danneggia la nostra economia bombardando le vie commerciali dove passano importazioni ed esportazioni, e la nostra politica replica mettendo in scena un copione da avanspettacolo di quart’ordine, non solo privo di contenuti e di sostanza ma proprio sideralmente distante dalle questioni epocali di cui dovremmo essere, invece, letteralmente ossessionati.
Basta mettere in fila le questioni solo per titoli per essere angosciati: la guerra di Gaza, che ci riguarda non fosse altro perché si affaccia sul Mediterraneo, rischia di coinvolgere una potenza nucleare come l’Iran, che a sua volta arma gli Houthi che aggredendo il Mar Rosso bloccano il canale di Suez con un danno per l’Italia calcolato in 100 milioni al giorno; la reazione militare suscitata dai terroristi yemeniti è fin qui stata solo anglo-americana, cioè di due paesi che subiscono danni solo marginali dal blocco delle navi, mentre quella europea tarda e pone sul tavolo lo spinoso ma ineludibile tema della difesa comune Ue; tema, quest’ultimo, che si ripropone vista la brutta piega che sta prendendo la vicenda ucraina e le conseguenti nuove mire imperiali di Putin verso il Baltico; fronti che sono presidiati dalla Nato e dagli Stati Uniti in particolare ora che alla Casa Bianca c’è Biden, ma bisogna fin d’ora porsi la domanda di cosa accadrebbe se alle elezioni presidenziali di novembre dovesse vincere Trump, viste le sue simpatie verso Putin e l’inimicizia verso l’Europa. Mamma mia! Non pensate che il pensiero collettivo nazionale dovrebbe essere concentrato su queste problematiche? Che la responsabilità della classe politica, ma anche degli intellettuali e dei media, del mondo del business e della classe dirigente diffusa, dovrebbe essere quella di esercitarsi ad analizzare questi problemi, a rendere consapevoli gli italiani della loro portata, ad elaborare soluzioni?
Invece l’attenzione è tutta sui duelli tra Meloni e Schlein, sugli scazzi quotidiani tra Meloni e Salvini, sulle candidature alle prossime regionali, mentre apprendiamo che i timori di palazzo Chigi si chiamano Repubblica e Dagospia, che i temi in agenda riguardano Chiara Ferragni, i 30 km orari in città, gli autovelox, la pistola di un idiota con l’aggravante di essere parlamentare. Ci si divide sul fascismo che non c’è e che non ci sarà nonostante il migliaio di nostalgici con il braccio teso, ci s’inventa di dividere il paese, già iper frammentato, in staterelli regionali proprio quando il federalismo andrebbe realizzato facendo gli Stati Uniti d’Europa, e si crede di risolvere l’impotenza della politica, che è crisi di credibilità, facendo eleggere direttamente il primo ministro, senza accorgersi che così si alimenta il populismo (vedi Giorgio La Malfa su Repubblica di giovedì 25 gennaio). E quando qualcuno si accorge delle fiamme mondiali, è per uscirsene con affermazioni allucinate, come quelle del regista Gabriele Muccino, che prima accusa gli israeliani di essersi inflitti la strage del 7 ottobre da soli – becero complottismo imparentato a spregevole antisemitismo e stupido negazionismo – e poi sentenzia che “l’Italia è entrata in guerra” con quei poveretti di Huthi. Schizofrenia, appunto.
E pensare che i punti di partenza di qualsiasi analisi dovrebbero essere quella che qualcuno ha chiamato la “stanchezza dell’Occidente” e quella che io definisco la “demoltiplicazione della globalizzazione”. Ci si dovrebbe dividere tra chi, come il filosofo della destra francese Alain de Benoist, sostiene che ci meritiamo la condizione in cui viviamo perchè, per esempio, con i nostri errori (la Nato) abbiamo indotto (per non dire costretto) Putin a invadere l’Ucraina, e plaude ai nazionalismi che fermano l’egemonia dell’economia globalizzata, e chi, come il sottoscritto, ritiene invece che l’Occidente, ubriaco di benessere che genera ipocrisie e debilita le élite democratiche, specie quelle della sinistra moralista, non faccia abbastanza per difendere la propria identità, i propri valori di libertà contrapposti a quelli delle autocrazie, in molti casi abdicando (concettualmente, prima ancora che sul piano pratico) alla forza, che piaccia o meno è elemento imprescindibile. Così come si dovrebbe chiarire senza infingimenti un punto dirimente: l’uso, o meno, della forza. Le opinioni pubbliche occidentali, ed europee in particolare, sono tendenzialmente attestate sul rifiuto che sia uno strumento necessario per garantire la pace. Ci si divide sempre più tra chi se la sente e chi non se la sente di farvi ricorso. Ognuno accampa buone ragioni, ma occorre prendersi la responsabilità di spiegare che in un mondo dove nessuno è in grado di mettere ordine, e di conseguenza con i conflitti che scalano molto rapidamente dal livello locale e regionale a quello globale, è difficile, se non impossibile, trovare soluzioni. Le forze politiche prendano posizione su questo punto, per evitare – per esempio – di offrire lo spettacolo deprimente dato dal Pd, che per inseguire il populismo da osteria dei 5stelle si è spaccato sul voto al rifinanziamento degli aiuti militari a Kiev. O, peggio ancora, di stare in un governo in cui convivono l’atlantismo di Meloni e il putinismo di Salvini, come dimostra la scandalosa mozione della Lega di qualche giorno fa, poi ritirata e annacquata.
Da queste diverse visioni del mondo dovrebbero poi discendere le scelte da fare sui temi specifici. Quella più cogente è sicuramente l’intervento nel Mar Rosso. Quello anglo-americano è stato tempestivo, ma non sufficiente. L’Europa – che paga il prezzo più alto perché di quel 30% del traffico marittimo mondiale che passa da Suez, pari al 15% di tutte le merci commerciate a livello globale, la fetta più grande riguarda il Vecchio Continente – si è prima chiamata fuori, poi ha deciso di organizzare una missione “difensiva”, definizione ipocrita dietro la quale si nascondono le nostre contraddizioni perché per difendere le navi commerciali occorre attaccare le sorgenti da cui partono i missili e i droni con cui vengono aggredite. I cui tempi sono comunque biblici, viste le procedure d’ingaggio. Eppure, il blocco di Suez, ormai pressoché totale, costa all’Europa due punti di inflazione importata, centinaia di miliardi e rischi energetici visto che da lì transita(va)no il 10% dei prodotti petroliferi raffinati, l’8% del gnl e il 5% del greggio. Solo per l’Italia si calcolano danni per almeno 40 miliardi, considerato che da Suez, passa(va) il 40% del nostro import-export marittimo per un totale di 154 miliardi. Una vera emergenza geopolitica – con l’aggravante che sullo sfondo c’è un potenziale scontro diretto tra Stati Uniti e Iran, che allarga il fronte di Gaza – che sul piano delle conseguenze economiche appare non meno perniciosa della pandemia. Almeno all’indomani dell’attacco di Mosca a Kiev del febbraio 2022 – tra poco saranno già due anni – abbiamo proficuamente diversificato le fonti di approvvigionamento energetico. Ora, invece, non sappiamo dove sbattere la testa, visto che far cambiare rotta alle navi, circumnavigando l’Africa, significa il 30% di tempo in più nei transiti commerciali, con ricadute economiche e organizzative molto significative.
Ma siccome viviamo il tempo delle “policrisi”, per riprendere un termine di Edgar Morin recentemente riproposto dall’economista Adam Tooze, all’aggravarsi del fronte mediterraneo, accade altrettanto a quello ai confini tra Russia ed Europa. Non solo la speranza, o illusione che fosse, di una vittoria dell’Ucraina è andata perduta, ma pure la resistenza di Kiev vacilla, di pari passo con il sempre meno convinto sostegno occidentale. Tanto che Putin, da un lato potrebbe concedere con pelosa generosità una tregua, magari subito dopo la sua riconsacrazione elettorale di metà marzo, con il solo scopo di attendere speranzoso che Trump torni trionfalmente alla Casa Bianca, mentre dall’altro evoca la “sicurezza russa” che sarebbe messa in pericolo dalle repubbliche baltiche, dando così credito agli avvertimenti dell’intelligence tedesca che pronostica un intervento già quest’anno. Magari in Lituania, con l’aiuto della Bielorussia e la sponda dell’oblast di Kaliningrad, enclave russa che confina con la Polonia. Varsavia si sente minacciata, tanto più se Putin facesse banco in Ucraina, e non a caso ha investito in armamenti come nessuno in Europa. Ma senza arrivare alla Polonia, già la Lituania, insieme a Estonia e Lettonia, sono paesi Ue e Nato, e l’eventuale mossa del Cremlino in quella direzione scatenerebbe una reazione a catena da “terza guerra mondiale”.
E qui si pongono altre due questioni, forse quelle più decisive: gli assetti di Stati Uniti e Unione Europea, entrambi nelle mani degli elettori. Solo che mentre gli orologi del mondo paiono sintonizzati sul 5 novembre, quando si deciderà il prossimo presidente americano, non altrettanto lo sono sul 9 giugno, quando si voterà per il Parlamento europeo e a cascata si deciderà la Commissione e il Consiglio Ue. Anzi, già si vive “l’effetto Trump”, nella convinzione di molti che sia invitabile la vittoria di The Donald. Dice Galli Della Loggia che per noi europei “stanno finendo i bei giorni della sicurezza gratis”, ma, aggiunge l’ambasciatore Massolo, “l’Europa è inconsapevole e attendista”, mentre è certo che sarà chiamata ad affrontare il tema spinoso delle spese militari, specie se Trump dovesse depotenziare, per non dire addirittura abbandonare come ha già minacciato, l’Alleanza Atlantica. E il Mar Rosso è la rappresentazione plastica del bivio in cui si trova l’Europa. La risposta dovrebbe essere la creazione di un sistema di difesa comune, che vuol dire un (vero) esercito comunitario e un sistema industriale di settore (davvero) integrato. Questo, al di là dell’aumento del peso della spesa militare sul pil, significa una politica militare comune, che a sua volta richiede una politica estera depurata degli interessi nazionali e giurisdizionalmente sottratta ai singoli governi e parlamenti. Ad ascoltare lo stesso Giampiero Massolo, il generale Camporini e il corrispondente da Bruxelles di Radio Radicale, David Carretta (nella War Room del 23 gennaio, QUI) , i presupposti per una svolta del genere non ci sono.
Ma quale paese, se non l’Italia, avrebbe più interesse a farsi promotore di un tale processo di integrazione? Immersi nel Mediterraneo, da sempre cerniera tra Est e Ovest, siamo quelli che, indeboliti dalla scarsa credibilità (vedi caso Mes) ed esposti ai pericoli che derivano dal nostro abnorme debito pubblico, più abbiamo da rimettere da un’Europa incompiuta. Le elezioni di giugno ci diranno se siamo in grado di dire la nostra, o se siamo destinati a subire le (in)decisioni altrui. Al forum di Davos di quest’anno la parola d’ordine è stata “rebuilding trust”, ricostruire la fiducia. Ma se è vero che una delle conseguenze delle policrisi è la perdita del senso di realtà, per ricostruire la fiducia andata perduta occorre uscire – tutti – da questa maledetta irrealtà nella quale siamo immersi.
L'EDITORIALE
DI TERZA REPUBBLICA
Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.