I pericoli della manovrina
DEBITO, INFLAZIONE, TASSI E SCENARI DI GUERRA: IL MONDO RISCHIA GROSSO E NOI...
di Enrico Cisnetto - 04 novembre 2023
Osservare le guerre dal lato delle loro conseguenze economiche può sembrare cinico, ma è necessario. Con l’invasione dell’Ucraina scatenata da Putin è stato facile e immediato: l’esplosione del prezzo del gas in una situazione di forte dipendenza dalle forniture russe è stato uno choc per tutta Europa, e per l’Italia in particolare. Oggi, invece, le opinioni pubbliche occidentali faticano a vedere i contraccolpi del conflitto mediorientale provocato dal criminale attacco terroristico di Hamas a Israele. Finora le Borse non hanno fatto un plissé, gli spread sui debiti pubblici sono rimasti stabili, il prezzo del petrolio rimane ben sotto i 100 dollari al barile, e anche quello del gas non ha subito scossoni rilevanti (anche se in Italia la bolletta è rincarata dell’8%). Ma non sono di questo segno le attese. Anzi, i segnali di debolezza si vanno intensificando. In Italia calano import ed export, e il pil è a zero. La Germania, nel terzo trimestre, è tornata in zona recessione (con tutto quello che ciò vuol dire per la manifattura continentale, e la nostra in particolare). E anche il dato sull’inflazione, che sta calando più del previsto, non dice niente di buono, visto che la retromarcia è innescata, oltre che dal rialzo dei tassi d’interesse deciso dalla Bce, anche dal crollo dei consumi e dal forte ridimensionamento degli investimenti. Tanto che per il 2024 i margini di recupero della crescita si assottigliano. L’Italia, pur mettendo in programma un ottimistico +1,2% di aumento del pil (basti pensare che Confindustria stima invece solo mezzo punto di crescita), risulta il paese che avrà la performance più bassa di tutta l’Eurozona (Francia 1,4%, Germania 1,6%, Spagna 2%).
Così l’agognato “soft landing” dell’economia continentale dopo la cura da cavallo della politica monetaria, non sembra più uno scenario probabile. E il fattore incertezza in uno scenario geopolitico che fa parlare di possibile “terza guerra mondiale”, sta aggravando le previsioni di tutti gli analisti. Se fino a ieri si immaginava per l’Eurozona un terzo trimestre di stagnazione, dopo una modesta espansione di 0,2% nei tre mesi precedenti, e per l’Italia una crescita del pil di un decimo di punto, dopo la contrazione di 0,4% del secondo trimestre, ora le stime sono tutte peggiorate: per l’Eurozona -0,1% e per l'Italia -0,2%. Solo dagli Stati Uniti arrivano dati leggermente più confortanti.
E poi ci sono due rapporti, uno dell’Organizzazione Mondiale del Commercio (Wto) e l’altro del Fondo Monetario Internazionale, che preoccupano. In essi si afferma, infatti, che la crescita del commercio mondiale è destinata a dimezzarsi. Secondo il Wto, quest’anno l’aumento dei flussi di merci si fermerà allo 0,8% contro l’1,7% stimato solo ad aprile scorso, e riguarderà un gran numero di Paesi e un’ampia gamma di beni. Al G20 che si era tenuto in India all’inizio di settembre si era già preso atto che si è arrestato lo slancio post-pandemia della Cina, che l’economia globale procede a singhiozzo, che i rischi scatenati dalla guerra in Ucraina restano alti e continuano ad “offuscare le prospettive nel medio termine”. Ora a tutto questo si aggiunge Israele e il rischio che da Gaza la guerra divampi in tutto il Medio Oriente.
Ricordo che un giorno il mio compianto amico Gianni De Michelis, ministro degli Esteri coi fiocchi, mi disse con tono predittivo e preoccupato: “ricordati che il terzo conflitto mondiale scoppierà quando l’Iran dovesse entrare in guerra”. E proprio per questo diffuso timore che la situazione israeliano-palestinese sfugga di mano esondando da Gaza per diventare un conflitto regionale o anche qualcosa di più – anche se la razionalità tende a scongiurare questa deprecata ipotesi (si veda la War Room di martedì 31 ottobre con Roberto Bongiorni, Lorenzo Castellani e Giampiero Massolo, qui il link) – che è logico attendersi un aggravamento delle condizioni dell’economia planetaria. Specie se, come teme la Banca Mondiale, si dovesse riproporre l’embargo petrolifero arabo del 1973 (guerra dello Yon Kippur). Situazione in cui si stima che potrebbe essere superato di almeno 10 dollari il prezzo massimo dell’oil di 147 dollari al barile toccato nel 2008 in piena crisi finanziaria mondiale (ora siamo intorno ai 90 dollari). Vanno prese sul serio le previsioni dell’Opec, il cartello dei paesi produttori di petrolio, secondo cui per soddisfare la crescente domanda mondiale – che nel 2028 arriverà a 110 milioni di barili al giorno e nel 2045 a 116, contro i 99,6 dell’anno scorso – occorrono investimenti nel settore petrolifero per qualcosa come 14 trilioni di dollari. Una cifra monstre, decisamente alternativa alle risorse che l’Europa conta di impiegare a sostegno della transizione energetica e ambientale.
E tutto questo in un contesto che vede una vera e propria esplosione del debito, arrivato su scala mondiale alla spaventosa cifra di 307 mila miliardi di dollari se si somma l’indebitamento degli Stati a quello privato di famiglie e imprese. Considerato che la sostenibilità del debito si misura in relazione al pil, per avere un’idea, il pil italiano è meno di 2mila miliardi, quello statunitense raggiunge i 22 mila, quello mondiale arriva a 102 mila, un terzo dell’indebitamento. Insomma, i debiti planetari accumulati sono il 300% della ricchezza prodotta nel mondo. Una enormità. La componente pubblica dei debiti era già cresciuta a dismisura con la pandemia, visto che gli Stati sono intervenuti in maniera massiccia per evitare il collasso socio-economico provocato dal Covid. Poi tale ammontare è stato piano piano ridotto, salvo tornare ad aumentare ora in modo preoccupante, specialmente nei paesi economicamente più maturi. Significa che siamo seduti su una mina pronta ad esplodere. Significa che c’è più margine per la speculazione e la finanziarizzazione dell’economia. E significa anche avere molto meno spazio per investimenti e politiche sociali.
Ma anche nel privato il debito è salito in modo esponenziale, di pari passo con la contrazione della propensione al risparmio, per scelta e per stato di necessità. E siccome contrarre un debito significa doverlo restituire con gli interessi, finché questi ultimi erano prossimi allo zero, il gioco valeva la candela. Ma ora, con i tassi che sono saliti sospinti dall’inflazione, per mantenere il costo del debito è stimato che nel 2027 servirà circa un quinto del pil mondiale. Significa che gli Stati avranno meno soldi per welfare, sanità, previdenza, così come per la transizione ecologica e quella digitale. Che le imprese avranno meno credito e potranno fare meno investimenti, e quindi meno sviluppo. E che le famiglie si ritroveranno con un potere d’acquisto ridotto e meno margini di risparmio. Tutti dovranno rifare i conti, riprogrammare le priorità, ripensare le strategie. Ci si domanda se sarà necessario persino riscoprire le virtù e i rigori dell’austerity.
Date queste premesse, poco incoraggianti ma realistiche, ora facciamo lo sforzo di portare la mente alla legge di bilancio appena varata dal governo (salvo sorprese e maxi-emendamento). Capite bene che la comparazione della manovra – il suo respiro strategico e la sua articolazione pratica – con la complessità delle questioni internazionali e la gravità dei dati congiunturali, acquisiti e prospettici, è a dir poco impietosa. Pensate al tira e molla sulle pensioni, alla precarietà di interventi fiscali che durano solo un anno e sono finanziati in deficit, alla scelta di riservare del totale della manovra solo l’8% alle imprese, cioè al veicolo dello sviluppo, e un terzo al pubblico impiego, che con tutto il rispetto non crea ricchezza. Insomma, mentre altrove ci si interroga sugli scenari delle guerre in corso e le loro ripercussioni sull’economia mondiale, da noi si discute animatamente dell’Iva sugli assorbenti e del sempiterno aumento delle sigarette, mentre va in onda lo psicodramma comunicativo sulla misura che facilita i pignoramenti dei conti correnti da parte dell’Agenzia delle Entrate, prima annunciata, poi ritirata e infine mantenuta con tanto di previsione di incasso di 1 miliardo nel 2025-26. E quello non meno agitato sulla cedolare secca al 26% per chi pratica affitti brevi (ma solo per più case, cioè il 5% del totale).
La verità è che il giudizio sulla manovra dipende dalla prospettiva da cui la si guarda: è buona, se si considera quello che avrebbe potuto essere, è mediocre, se si parametra a ciò che sarebbe servito che fosse. E infatti, essa è nello stesso tempo prudente, perché ha respinto al mittente una quantità infinita di voci di spesa (la lista toccava gli 80 miliardi), e imprudente, perché agisce in deficit, portandolo (come minimo) al 4,3% rispetto al già pesante 3,6% tendenziale. Cosa che si riflette sull’avanzo primario (differenza tra costi e ricavi dello Stato, al netto degli interessi sul debito), che dal +0,6% del tendenziale scende, per effetto dei provvedimenti della legge finanziaria, a -0,2%. Certo, è vero che la manovra finanziaria è stata messa sufficientemente al riparo dagli assalti dei partiti di maggioranza – anche a costo di un brutale divieto di emendamenti che rende ancor più marginale il ruolo di un Parlamento già esautorato – ma nello stesso tempo non c’è quel segno di un’inversione di rotta nella dinamica della spesa corrente (a scapito di quella in conto capitale) e del debito, che bene che vada non aumenta mentre andrebbe aggredito (specie se, come mi confida un preoccupato dirigente del Tesoro, serve a pagare stipendi e pensioni). Inversione che, invece, servirebbe a renderci meno vulnerabili nell’affrontare la tempesta prossima ventura.
Da un governo che pretende di essere considerato disruptive e che vanta un suffragio popolare tale da assicurargli la legislatura piena, era lecito attendersi scelte di ben diverso respiro, sia in termini di politiche per la crescita, che di intervento strutturale sullo stock di debito (si veda la War Room di giovedì 2 novembre con Veronica De Romanis, Danilo Taino e Gianni Trovati, qui il link). Forse a Palazzo Chigi, invece di rispondere a telefonate improbabili, dovrebbero comporre il numero dell’ex segretario al Tesoro Usa, Larry Summers. Si sentirebbero spiegare che il combinato disposto tra alto debito, inflazione e tassi d’interesse in crescita, e scenari di guerra generati da chi ha come scopo ultimo la messa in discussione dell’Occidente con il suo portato di libertà, sviluppo e benessere diffuso, è talmente pericoloso da influenzare il corso della storia. È già successo e la storia, si sa, si ripete.
L'EDITORIALE
DI TERZA REPUBBLICA
Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.