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L'editoriale di TerzaRepubblica

Il bivio di Meloni

CON DUE GUERRE IN CORSO E DOPO LA SCONFITTA DEI SOVRANISTI POLACCHI: LA PREMIER DA CHE PARTE STA?

di Enrico Cisnetto - 21 novembre 2023

The Economist ha scritto un mese fa che in Europa e negli Stati Uniti la crescita dei consensi ai partiti di estrema destra crea una polarizzazione che penalizza fino a mettere in discussione il centro dei loro sistemi politici, rischiando così di paralizzare le democrazie occidentali. Per fortuna da Varsavia, come già da Madrid, è arrivata una smentita a questa infausta profezia del blasonato settimanale inglese. Certo, sarebbe sbagliato sottostimare le ragioni interne che hanno indotto la maggioranza dei cittadini polacchi, accorsi come non mai alle urne, a preferire la coalizione alternativa al premier uscente Mateusz Morawiecki. Tuttavia, rimane il fatto che il Pis, partito sovranista e anti-Ue guidato dai fratelli Lech e Jarosław Kaczyński, pur avendo più voti degli altri paga il suo isolamento ed è costretto a passare la mano al popolare Donald Tusk, che formerà un governo di stampo convintamente europeista. Insomma, nella strategica (non fosse per ragioni geografiche) Polonia, ha vinto l’opzione liberal-popolare che guarda con fiducia alla Comunità europea, e ha perso la destra nazionalista, certo atlantica e anti-russa ma ancor più euroscettica

(si veda la War Room di martedì 17 ottobre con Adriana Cerretelli, Sergio Fabbrini e Giuseppe Vegas, qui il link).

Così, dopo la sconfitta di Vox in Spagna, e pur senza sottovalutare il risultato (15%) recentemente ottenuto dai neo-nazisti di Afd in Assia e Baviera, due dei lander più ricchi della Germania, ora con l’inaspettato (i pronostici dicevano il contrario) voto polacco si può dire che l’Europa non solo può affrontare più serena le elezioni generali di giugno prossimo, ma prima di tutto può – se solo si decidesse a volerlo – recitare il ruolo che le compete nel drammatico scenario mondiale che abbiamo di fronte, il doppio fronte di guerra ucraino e mediorientale, che geograficamente e geopoliticamente cinge d’assedio il Vecchio Continente da nord a sud. E se, come si dice e si spera, anche le elezioni in Olanda del prossimo 22 novembre terranno emarginate le destre sovraniste, allora per l’Europa rimarranno tre i fronti deboli: Slovacchia, dove Robert Fico vincitore del voto di qualche settimana fa si è alleato con le destre ma soprattutto ha messo in discussione il sostengo all’Ucraina; Ungheria, che Viktor Orbán ha portato non solo su un terreno di inaccettabile violazione della democrazia ma ha scelto in modo inequivocabile di stare dalla parte di Putin; e Italia, non fosse altro perchè la seconda forza che sostiene il governo, la Lega, ha scelto di allearsi in Europa con tutte le forze di ultra-destra anti-Ue e ha solo nascosto sotto un velo di ambiguità e ipocrisia la simpatia per la Russia. E siccome il nostro Paese è la seconda potenza industriale d’Europa e il terzo per importanza strategica, e nello stesso tempo ha un debito pubblico mostruoso e sottoposto da anni al giudizio severo dei mercati finanziari la cui eventuale insostenibilità avrebbe effetti sistemici terribili per l’intero eurosistema, risulta chiaro ed evidente che il vero “nodo europeo” si chiama Italia.

È per questo che dopo il voto polacco, destinato a ridurre l’apporto del Pis al Partito dei Conservatori e dei Riformisti Europei guidato da Giorgia Meloni, e l’intollerabile “photo (in)opportunity” di Orbán con Putin al recente vertice di Pechino che ha messo insieme il cartello del “Sud globale” del mondo alleato contro l’Occidente – schema che giustamente Giovanni Orsina ha ribattezzato “West versus the Rest” – si è fatto folto il fronte di coloro che si rivolgono speranzosi, seppure con diversi gradi ottimismo, alla presidente del Consiglio italiana affinché, in via definitiva, abbandoni le amicizie screditate e imbocchi la strada dell’integrazione nell’establishment europeo, mettendo al sicuro l’Italia e con ciò la stessa Unione. Finora, al cospetto delle scelte che la storia le ha messo di fronte, Meloni non ha sbagliato: è stata senza se e senza ma, e con la concretezza delle forniture militari, dalla parte dell’Ucraina aggredita dalla Russia di Putin, e fin qui è stata senza sbavature, anche se con meno enfasi, dalla parte di Israele dopo la violenta e vigliacca aggressione di Hamas. Ciò che però in entrambi i casi è mancato, almeno in termini di analisi offerta al pubblico dibattito, è la piena convinzione che tanto nello scenario ex sovietico quanto in quello mediterraneo non sono in corso partite locali, ma in ballo c’è la tenuta degli equilibri geopolitici mondiali messi a dura prova dai nemici dell’Occidente alla ricerca di occasioni per spostare dalla loro parte gli “equidistanti”. Manca, in altre parole, l’adesione senza riserve mentali – il che non vuol dire acritica – all’Europa e al grande disegno di renderla unita. Se poi uno dovesse dire quanto questa ambiguità, culturale prima che politica, sia da attribuire alla Meloni di ieri, e oggi viva il timore che i retaggi del passato prima o poi vengano fuori, e quanto al suo concreto agire da capo del governo, si può anche convenire che prevalga l’immagine della pasdaran che un tempo (non poi così lontano) chiedeva l’uscita dell’Italia dall’euro e altre amenità anti-europee. Ma ciò non toglie che il problema esista al di là delle strumentalizzazioni politiche della sinistra – peraltro sgangherate – non fosse altro perchè il passaggio dalla Meloni di ieri a quella di oggi è avvenuto troppo in fretta e senza il lavacro del dibattito e la sofferenza delle decisioni collettive, per non avere (sani) timori.

Non è un caso, quindi, se tutti gli osservatori che stimo descrivono Meloni di fronte ad un bivio ineludibile e le chiedono di fare al più presto una scelta convincente. Orsina delinea bene come si sia di fronte ad una doppia sfida: esterna, con l’altra parte del mondo, e interna, con i nazionalismi e i populismi. Ma l’Ucraina prima e Israele ora, impongono alle forze che a vario titolo hanno cavalcato la protesta, di optare: o difendono l’Occidente, e in esso l’Europa, oppure, scientemente o meno non fa differenza, fanno da sponda alle forze avverse e contribuiscono ad affossarlo. Tertium non datur. Flavia Perina, la cui analisi vale doppio vista la sua provenienza dal mondo meloniano, aggiunge che di fronte, da un lato, al nazionalismo che svela al tempo stesso la fragilità della sua narrazione e l’inconsistenza delle promesse di protezione autarchica, e dall’altro, alla realpolitik che suggerisce, anzi urla, la necessità di lasciare al loro destino i vecchi interlocutori internazionali del “patto di Visegrad” bruciati dagli accadimenti epocali, Meloni non può che scegliere di aderire agli attuali equilibri continentali. Ma lo farà davvero? E senza ambiguità?

Il professor Fabbrini, nella War Room già citata, non nasconde preoccupazione, se non scetticismo. Senza mettere in dubbio il fatto che Meloni capisca quale sia, al bivio, la strada della convenienza, per se stessa e per l’Italia, Fabbrini teme che sia il partito della presidente del Consiglio, ma ancor più gli elettori, a renderle arduo imboccarla, questa strada, per quel maledetto timore di perdere consensi che il vero baco delle ultime generazioni di politici (che non a caso non hanno generato neppure uno statista). Concordo, ma aggiungo che alla base di questa paura c’è l’erronea percezione che a destra si ha della composizione di quel 30% che ha votato e (forse) voterebbe Fratelli d’Italia: io credo che solo il 5-6%, ma a voler esagerare il 10%, di quegli elettori abbia radici politiche antiche e odierni convincimenti tali da indurli a bocciare l’eventuale scelta europeista a tutto tondo della leader, considerandola un tradimento. Gli altri sono moderati, o anche malpancisti che comunque di fronte ai venti di guerra vogliono prima di tutto sentirsi garantiti. E la protezione non può certo dargliela un’Italia sganciata dall’asse Ue-Nato, o anche solo ai margini.

Dunque, quello che si chiede a Giorgia Meloni è sì un atto di coraggio, ma ben calcolato. Prima di tutto, deve definitivamente abbandonare l’idea di poter sovvertire le alleanze in seno al Parlamento e alla Commissione Europea, sostituendosi ai Socialisti nell’asse con i Popolari. Peraltro, ben difficilmente ce ne sarebbero i numeri, al di là dei presupposti politici. Ho motivo di ritenere che in cuor suo questo passaggio l’abbia già fatto, ora si tratta di renderlo esplicito pubblicamente. Poi deve decidere se, di fronte al riproporsi della cosiddetta “alleanza Ursula” (Ps, Ppe e liberali di Macron), intenda provare a farne parte o meno. Sapendo che è pressoché impossibile sia che i suoi colleghi dentro il gruppo europeo che capeggia, a cominciare proprio quelli del Pis polacco, vogliano stare in quella maggioranza, sia che gli attuali sostenitori di Ursula von der Leyen siano disposti a imbarcarli, tanto più se entrassero anche i Verdi. Ergo, non basterebbe la disponibilità, peraltro ondivaga, di quella parte del Ppe che si riconosce in Manfred Weber. Insomma, l’atto di coraggio di Meloni consisterebbe nell’uscire dai Conservatori, a quel punto probabilmente destinati a unirsi con il duo Salvini-Le Pen, e creare un gruppo autonomo vicino al Ppe ma, almeno in una prima fase, distinto. O meglio, il coraggio – o la lungimiranza – dovrà averlo nel sopportare la conseguenza di una scelta del genere. Perchè è evidente che a quel punto non mancherebbero le ripercussioni, anche estreme, nella maggioranza che sostiene il suo governo. Non è difficile immaginare che Salvini passerebbe dalla guerriglia strisciante alla guerra aperta, e che non basterebbe la ovvia saldatura di FdI con Forza Italia per tenere in pieni l’alleanza con cui il destra-centro aveva vinto le elezioni di settembre 2022.

Che farà Meloni? È già al bivio, e alla porta bussano due conflitti angoscianti che, per l’ordito che sta dietro ad entrambi, potrebbero tramutarsi come niente in una guerra planetaria, per di più nucleare. Il tempo per decidere è breve, più corto di quello di una separazione coniugale.

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