Manovra, la prudenza non basterà
DOPO UN’ESTATE BUTTATA ORA BISOGNA FARE I “CONTI” E PER LA LEGGE DI BILANCIO LA PRUDENZA NON BASTERÀ
di Enrico Cisnetto - 09 settembre 2023
Cari lettori, bentrovati dopo la pausa estiva. Sosta benemerita, visto che mi ha evitato di dover commentare un’estate sprecata in esternazioni deprecabili e discussioni inutili (Vannucci, famiglia Meloni, settarismo identitario della destra, stupidario radicale della sinistra, Calenda-Renzi in versione “casa Vianello”, ecc.), in maldestri approcci a cose serie (migranti, pil, salari e sicurezza sul lavoro, taxi, concessioni balneari) e in decisioni sbagliate frutto di pulsioni populiste (provvedimento sulle banche). Tutte cose da lasciarci alle spalle, non fosse altro perchè la ripresa di settembre coincide con la stagione più difficile per il Paese, e dunque per la politica e per il governo che si accinge a compiere un anno di vita, e giocoforza saremo costretti a fare sul serio. Lo scenario, rispetto a quando nel settembre dell’anno scorso andammo a votare, è profondamente cambiato. Allora l’economia cresceva (seppure drogata dal superbonus edilizio) mentre oggi la frenata del secondo trimestre (-0,4%) torna a far aleggiare lo spettro della recessione e comunque riduce la crescita acquisita per il 2023 a +0,7%, un numero che complica il raggiungimento dell’obiettivo indicato dal governo per fine anno (+1%). Allora le regole Ue di bilancio erano sospese, la politica monetaria era ancora espansiva e i Btp venivano comprati a piene mani dalla Bce, la quale oggi è invece costretta, per via dell’alta inflazione, a produrre continui aumenti dei tassi e a chiudere l’ombrello che proteggeva il nostro debito, tornato alla mercè dei mercati finanziari come nel 2011, mentre è assai probabile che entro fine anno avremo nuovi rigorosi paletti europei per la finanza pubblica. Allora sullo scenario geopolitico pesava la guerra scatenata da Putin e le sue conseguenze sull’energia, oggi l’emergenza gas è in certa misura rientrata ma il perdurare del conflitto ucraino e le tensioni intorno ai costi di una transizione energetico-ambientale che contiene alcune forzature ideologiche – per di più in un contesto di eco-ansia tossica contrapposta a negazionismo becero – mantengono il quadro internazionale nell’incertezza, aggravata ora dal tentativo dei due paesi anti-occidentali più forti, Russia e Cina, di far asse con i paesi terzi (Brics allargato a nuove realtà, anche molto destabilizzanti come l’Iran) per indurre un nuovo (dis)ordine mondiale.
A fronte di questi sviluppi e di queste difficoltà vecchie e nuove, la politica italiana è vissuta e continua a vivere sulla Luna. La vita politica è ridotta ad una campagna elettorale permanente, con stucchevole confezionamento di slogan e patetica distribuzione di promesse illusorie, mentre la dialettica delle forze politiche è solo battibecco e delegittimazione personale. Il Parlamento, sfibrato da un trentennio di anti-politica, è ormai terra di nessuno, espropriato della funzione legislativa dal proliferare di decreti omnibus e leggi delega in bianco. La maggioranza è sottoposta ad una fibrillazione quotidiana ben al di là del fisiologico, accentuata dal traguardo (pur lontano, giugno 2024) delle elezioni europee, che prevedendo il sistema proporzionale azzerano le già precarie alleanze e inducono al “tutti conto tutti”. Le opposizioni macinano dilettantismi (Schlein), frustrazioni (il corpaccione Pd che mal sopporta la segretaria; Conte e Grillo) e personalismi inconcludenti (Calenda e Renzi).
Quanto al governo Meloni, si avvia a consuntivare il suo primo (e ultimo?) anno di vita con un buon voto in politica estera (più in atlantismo che in europeismo) e un’insufficienza in politica interna. Come ha saggiamente scritto Sabino Cassese sul Corriere della Sera a metà agosto, all’esecutivo è mancato “un piano del tempo”, cioè la capacità di programmare la propria azione secondo un’agenda ben preordinata. Ma al contrario di quanto sostiene il professore, non penso che ciò dipenda dall’incapacità di far capire quali siano i propri obiettivi, distinguendoli tra breve, medio e lungo tempo, bensì dalla loro totale assenza per colpa di un grave difetto di progettualità. Sia chiaro, anche la sinistra ha avuto e ha la stessa deficienza, e in tutti i trent’anni della Seconda Repubblica la capacità programmatica ha abdicato a favore di una sterile produzione di parole d’ordine (disciplina in cui era campione Silvio Berlusconi, che poi ha lasciato il posto alla demagogia grillina). Ma nel caso dell’esecutivo Meloni, si è avvertito in modo particolare questo “vuoto” – che Cassese ha elegantemente definito “governo del tempo” – per tre precisi motivi. Il primo: la disillusione delle attese create da messaggi come “finalmente abbiamo un governo votato dagli italiani” e “ecco la forza rivoluzionaria della prima donna presidente del Consiglio”. Il secondo: la palese fragilità della tenuta psico-fisica di Giorgia Meloni, che ha accentuato la sua caratteriale tendenza ad una gestione monocratica del potere, generando un clima di conflitto permanente dentro la maggioranza e persino dentro il suo partito. Il terzo e più importante: l’attitudine alla “politica della quotidianità” basata su risposte emergenziali alle occorrenze del giorno, spesso dettate dalla cronaca. In questo contesto, il presidente del Consiglio ha finito per farsi apprezzare più per aver disatteso ciò che aveva sempre sostenuto che per aver mantenuto gli impegni presi, e sulla base dei quali aveva “vinto” le elezioni. Una contraddizione positiva – se si considera l’alto tasso di populismo e sovranismo delle sue tradizionali posizioni – che però sconta due conseguenze non da poco: il suo continuo oscillare tra la necessità del realismo e la paura di perdere la fiducia della sua base tradizionale, cosa che alla lunga ha provocato immobilismo; la fragilità dell’azione di governo, misurabile nella distanza che corre tra il faticoso realismo di Meloni e un pragmatismo frutto di un lungo lavoro di elaborazione e ancorato a radici culturali solide. Cosa, quest’ultima plasticamente rappresentata dall’incertezza strategica e dall’impaccio amministrativo mostrati nella gestione dei progetti del Pnrr.
Insomma, mentre il Paese avrebbe bisogno di essere guidato sulla base di una agenda politico-programmatica ambiziosa e lungimirante, Meloni viene apprezzata per quello che non fa (e si teme potrebbe fare) piuttosto che per quello che fa – Marcello Sorgi l’ha efficacemente chiamata la lenta “metamorfosi verso la coscienza della responsabilità” – e il suo indice di gradimento (non solo popolare ma anche delle élite) è direttamente proporzionale alla mancanza di alternative, praticabili e auspicabili. Così è stato, per esempio, per la sua prima legge di bilancio, improntata alla prudenza, e così tutto fa presagire che andrà per la manovra finanziaria prossima ventura. Come al solito e più del solito siamo di fronte all’irrisolvibile equazione di avere pochi soldi a disposizione (al massimo 8 miliardi, di cui la metà da aumento di deficit) e una infinita lista della spesa (minimo 40 miliardi). Meloni ha già fatto capire che toccherà depennare molte voci, o renderle simboliche: dal taglio delle tasse all’aumento delle pensioni e riduzione dell’età di quiescenza, dal rifinanziamento dei vecchi bonus e la creazione di nuovi al Ponte sullo Stretto. E giocherà la carta di questa cautela sul tavolo dell’Europa e dei mercati finanziari, sperando che basti. Nello stesso tempo cercherà di ipnotizzare l’opinione pubblica in due modi. Evocando dei “nemici” sui quali scaricare la colpa delle mancate elargizioni, dai paesi (Germania e fronte del Nord) e i commissari Ue (Gentiloni) che non vogliono cambiare il “patto di stabilità Ue” – che, come ha spiegato Draghi all’Economist, andrebbe effettivamente sostituito con meccanismi più intelligenti, ma non certo per consentire che sia allegramente finanziato il festival della spesa corrente – ai promotori del superbonus, rappresentato come eredità tossica del passato (peccato che tutte le componenti della maggioranza l’abbiamo votato o sostenuto). E imbracciando armi di distrazione di massa, come per esempio l’ennesima proposta di riforma costituzionale – questa volta è il turno del premierato – lanciata a cuor leggero e al di fuori di un contesto di riforma complessiva degli assetti istituzionali, magari in una sede idonea come un’Assemblea Costituente.
Inoltre, il presidente del Consiglio farà leva sul fatto che a nessun alleato conviene tirare la corda fino al punto di spezzarla, e che alla fine tra Natale e Capodanno il maxi-emendamento che chiude la partita della legge di bilancio sarà approvato senza alcuna vera discussione politica e parlamentare. E pazienza se alla fine della fiera il deficit e il debito saranno un po’ più alti degli impegni presi con i documenti programmatici (Def e Nadef).
Scatterà anche stavolta il plauso per scampato pericolo (della serie con questi nazional-populisti poteva andare molto peggio)? Forse sì, ma è bene che Meloni sappia fin d’ora che, nel caso, sarà una vittoria di Pirro. Perché l’Italia ha bisogno di ben altro. Sotto due profili. Il primo è quello finanziario. Sostiene l’economista Nouriel Roubini che in un contesto in cui “la Bce ha alzato i tassi e non offre sostegno, e la crescita è bassa, l’Italia ha bisogno di un graduale ma sensato consolidamento del bilancio, riducendo il debito. Se ciò non dovesse accadere, la probabile conseguenza sarebbe un deficit in crescita che scatenerebbe la classica reazione dei mercati”. Per ora non è così, non siamo a questo punto (lo spread è alto, ma sotto i 200 punti), ma il pericolo è alto. Perché come dice ancora Roubini, senza le riforme necessarie per aumentare la crescita potenziale e con il Pnrr che alla fine si rivelerà un mezzo insuccesso, se si fosse compiacenti anche solo un po’ nei confronti dei conti pubblici, “anche le cose che sembrano stabili possono diventare instabili molto velocemente”.
Il secondo motivo per cui il Paese ha bisogno di andare oltre la sufficienza risicata (ammesso di prenderla) è di tipo strategico. Non basta il contenimento del danno, occorre ridisegnare il profilo futuro dell’Italia e definire la strategia per conquistarlo. Cercare risorse nelle pieghe del bilancio o sperare che Bruxelles conceda deroghe, significa agire nel breve, dimenticando che un governo autodefinitosi di legislatura dovrebbe definire il cambiamento complessivo che vuole imprimere al Paese nel corso del suo intero mandato. Facciamo l’esempio dei bonus. Bene volerli rivedere, ma se si interviene solo sul reddito di cittadinanza e sul superbonus edilizio – non a caso quelli targati 5stelle – e se ne inventano di nuovi (tipo il bonus benzina), allora siamo di fronte solo ad un’operazione politica a scopo elettorale. Nessuno dice che di bonus ne esistono altri 225 per un totale di 36 miliardi e che quelli sotto forma di agevolazioni fiscali sono, tra nazionali e locali, ben 740 e pesano circa 200 miliardi. Una degenerazione, figlia del populismo imperante, che si sconfigge solo mettendo in discussione la filosofia stessa del sussidio e realizzando una revisione complessiva della spesa pubblica – che è ben altro che la spending review fatta con il lanternino e le forbici messi in mano a qualche tecnico – ridefinendo il sistema di welfare e riorientando le politiche economiche allo sviluppo, promuovendo l’incremento di produttività e competitività.
La nostra storia repubblicana è costellata di “occasioni perdute”. Ma, come ha recentemente ricordato Sergio Mattarella, “la storia presenta sempre il conto delle occasioni perdute”. Il presidente si riferiva all’Europa e alla necessità di fare un passo in avanti nell’integrazione, ma il monito vale (ed era) anche per l’Italia.
L'EDITORIALE
DI TERZA REPUBBLICA
Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.