L'urgenza di un'Assemblea Costituente
LE RIFORME ISTITUZIONALI SONO NECESSARIE MA SENZA BATTAGLIA PARLAMENTARE DI PICCOLO CABOTAGGIO
di Enrico Cisnetto - 13 maggio 2023
Scrive la Treccani alla voce “coazione a ripetere”: “Tendenza incoercibile, del tutto inconscia, a porsi in situazioni penose o dolorose, senza rendersi conto di averle attivamente determinate, né del fatto che si tratta della ripetizione di vecchie esperienze”. Ecco, si può fare ricorso a questa definizione per giudicare il dibattito che si è innescato sulle riforme istituzionali che il governo sembra intenzionato a portare avanti: è la ripetizione degli errori che tutte le forze politiche che negli ultimi tre decenni si sono alternate nei ruoli di governo e di opposizione, hanno puntualmente commesso e ricommesso a turno, scambiandosi il testimone. Per cui quando sono state in maggioranza hanno ritenuto legittimo e necessario mettere mano alle riforme di sistema, peccando però in termini di metodo, e quando invece gli è toccato essere all’opposizione si sono dette scandalizzate che a qualcuno venisse in mente di modificare la Costituzione, o comunque hanno giudicato quella volontà una forma di “benaltrismo” rispetto ai problemi veri del Paese. E la scena si è puntualmente ripetuta, identica, anche adesso, quando Meloni ha convocato tutti i partiti – da tempo la linea che separa maggioranza e opposizione è verticale solo formalmente, mentre nella sostanza è orizzontale tanto che quasi sempre i peggiori nemici sono nelle forze alleate – comunicando di essere intenzionata a fare sul serio, con o senza il consenso generalizzato, per arrivare ad una forma (non meglio specificata) di presidenzialismo.
Chi segue TerzaRepubblica con costanza sa che è dagli anni Novanta del secolo scorso che ho indicato la necessità e l’urgenza di intervenire sugli assetti del sistema politico e sull’architettura istituzionale. Sia per gli effetti distorsivi prodotti dal passaggio, costituzionalmente anomalo, tra la Prima e la cosiddetta Seconda Repubblica – che tale non è stata proprio per la mancanza di una certificazione costituzionale – sia per la necessaria modernizzazione, anche e prima di tutto dal punto di vista delle regole del gioco, di cui comunque il Paese aveva bisogno. Il susseguirsi di tentativi nel corso di questi anni – dalle Bicamerali poi fallite alle riforme varate ma poi bocciate nei referendum approvativi – sono lì a testimoniare che l’esigenza c’era, ed essendo rimasta insoddisfatta, c’è tuttora. Solo che quei tentativi sono stati affrontati male da chi li ha proposti – colpi di maggioranza (titolo V modificato dal centro-sinistra), forzature politiche (referendum Berlusconi del 2006 e Renzi del 2016) – e contrastati peggio da chi si è opposto. Proprio come ora. Con due pessimi risultati.
Il primo è che lo iato tra la Costituzione formale e quella materiale è rimasto inalterato, anzi si è allargato con il passare del tempo e il succedersi di varie forzature, e che quando qualcosa è passato – dalla ridistribuzione delle competenze tra Stato centrale e enti locali alla finta abolizione delle Province, fino alla recente riduzione del numero dei parlamentari – è parso obbedire più al crescente (e pernicioso) sentimento dell’anti-politica che non a criteri di razionalità. Il secondo risultato negativo è che i trent’anni di mancate riforme istituzionali organiche corrispondono al progressivo, inarrestabile declino del Paese – sociale, economico, politico, morale e civile – che ci consegnano una democrazia debilitata.
Dunque, non solo è legittimo, ma opportuno e indispensabile, che si torni a parlare di un percorso di riforme. E bene ha fatto la presidente del Consiglio a coinvolgere le opposizioni, costringendole ad un’assunzione di responsabilità. Peccato che il governo abbia commesso l’errore – il solito errore – di proporre una via parlamentare alla realizzazione di quelle riforme. E che le opposizioni abbiano commesso l’errore – il solito errore – di contestare sia l’opportunità dell’iniziativa, bollandola come un’arma di distrazione di massa per sviare l’attenzione degli italiani da problemi ben più cogenti, sia la legittimità delle sue (presunte) intenzioni, evocando il solito spettro del fascismo incombente.
La verità è che sia per ragioni di opportunità politica e di grammatica istituzionale, sia per ragioni pratiche inerenti le probabilità di centrare l’obiettivo, è indispensabile che la materia venga sottratta agli interessi particolari e momentanei dei partiti e alla dinamica conflittuale tra Governo e Parlamento. E sia passata nelle mani di un apposito soggetto costituente, Assemblea o Commissione poco importa, istituito fuori dal Parlamento, eletto dai cittadini (in tutto o in parte, perché una quota di saggi potrebbe essere riservata alla libera scelta del Capo dello Stato) con una procedura elettorale proporzionale pura a collegio unico nazionale (i parlamentari in carica non possono candidarsi), e dotato di poteri sia redigenti che deliberativi. Occorre cioè ricreare il clima cooperativo, recuperare il livello qualitativo delle competenze e riconquistare la saggezza istituzionale che furono propri dell’Assemblea Costituente che ebbe inizio nel giugno del 1946 e terminò i suoi lavori nel gennaio del 1948 sfornando una Carta costituzionale di prim’ordine e capace di assicurare per decenni la coesione nazionale. Lasciando governo e parlamento in carica ai rispettivi compiti, già gravosi senza che siano resi ancor più pesanti dalle riforme istituzionali.
Peccato, però, che né Meloni e i suoi alleati, né i loro avversari, abbiano capito che la vera svolta dopo trent’anni di pigrizie e velleità malriposte può arrivare solo facendo questa scelta di metodo, prima ancora di addentrarsi a discutere, e dividersi, sul merito delle riforme. Perché è in quel contesto depurato dalle tossine della lotta politica quotidiana che bisogna ragionare se occorre continuare ad avere un sistema parlamentare o uno di tipo presidenziale, e quali meccanismi di “pesi e contrappesi” tra i poteri vanno cambiati e quali conservati, se le Camere devono essere due o una e con quali funzioni, se sia più opportuno arrivare al premierato (cioè il presidente del Consiglio eletto direttamente dai cittadini) o al cancellierato (secondo il modello tedesco), e se nel caso di presidenzialismo sia meglio quello pieno di tipo americano o quello “semi” come in Francia. E, ancora, se occorre andare nella direzione dell’autonomia regionale come reclama la Lega con la proposta Calderoli o se, al contrario, va rivista l’architettura del decentramento amministrativo in chiave semplificativa, con ciò riconsegnando allo Stato una serie di competenze (per esempio la sanità). Se e come ritarare la dinamica dei rapporti tra il potere legislativo e quello esecutivo, e tra questi e il potere giudiziario. E persino quale legge elettorale adottare, visto e considerato che va resa omogenea agli asseti istituzionali prescelti e come tale inserita in Costituzione (anche per evitare lo scempio dei mille cambiamenti cui è stata sottoposta in questi anni).
Solo uno stolto può pensare che un sistema politico martoriato, che nella scorsa legislatura ha fatto vedere tutto e il suo contrario e che in questa già mostra crepe evidenti nonostante il risultato elettorale (apparentemente) chiaro dello scorso settembre, possa affrontare serenamente e costruttivamente questioni cruciali come quelle che ho provato ad elencare. Anziché dividersi sui temi specifici, magari inscenando crociate pro o contro il presidenzialismo, andrebbe recuperata questa consapevolezza e intorno ad essa trovata un’unità d’intenti tra le forze parlamentari, possibilmente supportata da una classe dirigente degna di questo nome e da un sistema mediatico finalmente maturo.
Questo non significa, però, che non si possa e non si debba cominciare ad entrare nel merito delle questioni. Io, per esempio, concordo con chi (Casini, Violante, Cassese) trova inadatto al dna del Paese lo schema dell’uomo solo al comando – che peraltro sta mostrando, a Washington come a Parigi, tutti i suoi limiti – mentre sono sicuro che basterebbero alcuni accorgimenti che vadano nella direzione di garantire maggiore coesione e durata agli esecutivi per migliorare le cose: dall’introduzione della “sfiducia costruttiva”, in modo che le Camere possano mandare a casa un governo solo quando ce n’è già un altro pronto, al fissare in Costituzione un tempo di durata dei governi, così come è previsto per le Camere (5 anni), per la presidenza della Repubblica (7 anni) e per i membri della Corte Costituzionale (9 anni), ferma restando la possibilità di scadenza anticipata (mitigata dalla “sfiducia costruttiva”), passando per la trasformazione del presidente da primus inter pares in premier dotato del potere di nomina e revoca dei ministri. Senza contare che oggi il primo dei problemi non è l’inadeguatezza dei poteri in capo all’esecutivo – Palazzo Chigi ne ha fin troppi, anche per l’abuso della decretazione d’urgenza, mentre scarseggiano esperienza e competenza – ma la povertà qualitativa e l’impasse operativo del Parlamento, cui va restituita la funzione legislativa snellendo e semplificando le procedure di approvazione delle norme.
Coinvolgendo gli italiani, si faccia una vera battaglia delle idee, partendo dalla diagnosi dei mali italiani per arrivare ai rimedi solo dopo, come conseguenza. Ma non si usino le riforme che toccano le regole del gioco e le istituzioni che lo presiedono per sistemare le questioni politiche contingenti o, peggio, per cercare vie di fuga dalle responsabilità. Quelle di maggioranza ma anche, e non meno, quelle di opposizione.
L'EDITORIALE
DI TERZA REPUBBLICA
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