La crisi politica tra nomine e Terza Polo
MELONI SCIVOLA SULLE NOMINE. IL TERZO POLO ABORTISCE E NON C’È FRONTE POLITICO CHE NON SIA IN CRISI
di Enrico Cisnetto - 15 aprile 2023
A testimonianza che non bastano le elezioni e un risultato apparentemente netto delle medesime per sistemare i problemi strutturali della politica italiana, a soli 7 mesi dal voto di settembre scorso il quadro politico è drammaticamente costellato di crisi quando non di fallimenti. E a 360 gradi, ovunque si volga lo sguardo: destra, centro, sinistra. Con ciò confermando che se non si ripensa il sistema nel suo insieme – modello politico, partiti, assetti istituzionali, legge elettorale – l’affannosa ricerca di un vincitore, specie se all’obiettivo si arriva drogando i risultati elettorali con modalità premiali che, in presenza di un numero crescentemente ridotto di aventi diritto che esercitano il voto, rendono il parlamento e i governi sempre meno rappresentativi della società, serve solo a coltivare illusioni che ben presto diventano disillusioni.
Partiamo da chi le elezioni le aveva vinte: Giorgia Meloni. Inizialmente il combinato disposto della novità e del piglio con cui la presidente del Consiglio aveva mostrato di volersi e sapersi muovere avevano fatto pensare che la sua leadership si sarebbe consolidata, andando oltre la solita luna di miele con l’opinione pubblica di cui tutti i governi godono. Anzi, la risolutezza senza sbavature con cui Meloni si è attestata sul fronte atlantico nella guerra russo-ucraina e la prudenza mostrata con la manovra di bilancio rispetto alle guardinghe attese di un’Europa che certo non gli ha risparmiato massicce dose di scetticismo, le avevano allargato il campo delle simpatie anche a chi non l’aveva scelta nelle urne, finendo così per far passare in secondo piano una valutazione non proprio lusinghiera sul governo nel suo insieme, e su alcuni ministri in particolare. Poi, però, con il passare dei mesi sono via via emersi tre elementi di giudizio non positivi: la percezione di un suo crescente nervosismo, accompagnata da voci insistenti su una sua difficoltà di tenuta psicofisica al cospetto delle stressanti prove cui l’attività di governo costringe, specie se si è, come nel suo caso, fortemente accentratori; la constatazione del vuoto di classe dirigente che la circonda, cui si somma una sua atavica diffidenza verso tutto e tutti, mentre qualche episodio ha fatto vedere come nel suo entourage neppure la fedeltà – che è già in sé un valore molto meno nobile della lealtà – sia garantita; il riscontro di un’agenda di governo tutta costruita sulla risposta, per lo più estemporanea, alle emergenze e dunque priva di respiro strategico, mancanza puntualmente attribuita alle pesanti eredità ricevute dal passato (modalità comunicativa che dopo un po’ diventa inevitabilmente un boomerang).
Ma il culmine di questa tendenza involutiva si è avuto nei giorni scorsi con le nomine nelle aziende partecipate dallo Stato. Tralascio qui il giudizio di merito su nominandi e nominati, perchè la valutazione che conta è di natura politica e più precisamente attiene alla capacità di gestire il potere, che nella panoplia delle arti del governare è sicuramente quella più difficile. Delle diverse opzioni tattiche che aveva a disposizione Meloni ha scelto fin dall’inizio quella del “qui comando io”, dapprima negando la possibilità che si desse vita ad un tavolo di maggioranza sul tema – avendo in mente non solo di poter fare di testa sua, ma soprattutto di comunicare che lei non praticava la lottizzazione – e poi trovatasi costretta a istituirlo per i mal di pancia della Lega, alla fine lo ha declinato come semplice “tavolo di consultazione” e non “di decisione”. Ha quindi lasciato trapelare i nomi dei manager che intendeva scegliere, esponendoli per giorni alle indiscrezioni giornalistiche e non, e ha fatto le barricate, anche a costo di frizioni interne al suo partito, fino all’ultima notte di violente trattative, per difendere il suo decisionismo. Salvo poi, all’ultimo momento utile rispetto alle scadenze formali che occorreva rispettare, calarsi clamorosamente i pantaloni di fronte alla minaccia di Salvini di far cadere il governo. Con ciò: a) portando a casa meno di quanto avrebbe ottenuto se avesse scelto la via moderata della concertazione di maggioranza; b) dando l’idea di appartenere alla razza di chi abbaia ma non morde; c) mostrando di temere ma di non saper usare l’arma di ricatto della crisi di governo; d) fallendo l’obiettivo di tenere lontano da sé e dal suo governo l’infamia della lottizzazione, quando invece avrebbe potuto e dovuto rivendicare la pratica dello spoil system.
Il risultato è che un Salvini agonizzante ha potuto attaccarsi al bocchettone dell’ossigeno – e c’è da scommettere che, lungi dall’essere stato rabbonito da alcune concessioni ottenute in fatto di nomine, alzerà ancor di più il tiro contro l’odiata Meloni, come dimostra il ritorno ai suoi decreti sui migranti – mentre Forza Italia è riuscita a dare segno di vita proprio nel momento in cui era costretta a metabolizzare la definitiva uscita dalla scena politica del suo fondatore (inevitabile, a prescindete da quale sia l’esito della degenza ospedaliera di Berlusconi) e quindi a interrogarsi sulla possibilità o meno di sopravvivergli. È evidente che in queste condizioni il governo Meloni potrà anche proseguire, ma di certo più faticosamente, anche considerato che lo scenario economico, quello europeo e quello geopolitico nei prossimi mesi getteranno sul suo cammino un numero crescente di ostacoli.
Ma se Atene piange (sul latte versato), Sparta non ride. Il Pd, dopo la scossa “nuovista” rappresentata dall’ergersi di una leadership del tutto inventata – tanto da aver nominato alla segreteria chi si era iscritta al partito un attimo prima delle primarie consentendo che il voto dei militanti fosse ribaltato da quello di un non meglio definito “popolo dei gazebo” – è entrato in un cono d’ombra dove a far rumore è il silenzio assordante di Elly Schlein su tutti i temi che contano. Vuoto riempito solo da alcune parole d’ordine “movimentiste” che, oltre a connotare il Pd di “sinistra- sinistra” e ad azzerare lo spazio politico per i riformisti, finiscono con accentuare la sovrapposizione con i 5stelle. Una deriva già iniziata prima delle elezioni con il progressivo abbandono della linea “agenda Draghi” a favore di una masochistica autoflagellazione dovuta al senso di colpa per abbandonato i lavoratori a favore della “borghesia ztl” e che, continuando cosìm culminerà nell’alleanza organica, se non nell’integrazione, con Conte. Il quale, avendo meno da dire del niente di Schlein, ha scelto la via del low profile, nella convinzione che le fatiche e gli errori del centro-destra daranno all’opposizione una rendita di posizione. Inesperta, e come tale facile preda dei “grandi elettori” che l’hanno sostenuta, da Bettini a Franceschini, già endorsata da uno sponsor ingombrante come l’ingegner De Benedetti, la neo-segretaria del Pd dovrà presto misurarsi su temi tanto dividenti quanto decisivi come la fornitura di armi all’Ucraina, il termovalorizzatore di Roma o la riforma fiscale e delle pensioni, trovandosi nella scomoda posizione o di tradire il suo radicalismo o di cancellare definitivamente i connotati di partito di governo del Pd. Cosa che certo non farà bene al sistema politico, tanto più al cospetto delle difficoltà di Meloni e della sua maggioranza.
E non sta certo meglio, anzi, il drappello terzopolista che in queste ore ha dato spettacolo con il litigio delle comari Renzi e Calenda. Una contesa poco edificante nella quale è perfettamente inutile cercare i torti e le ragioni perchè è del tutto evidente il “concorso di colpa”, da identificarsi non solo nell’ego espanso all’ennesima potenza dei due litiganti, ma soprattutto nella reiterazione del “reato politico”, già commesso da entrambi, di personalizzazione della politica attraverso l’uso di partiti personali. E tutto questo mentre la crisi del bipolarismo, che si perpetua anche sotto le insegne al femminile del duo Giorgia-Elly, apre enormi spazi politici a chi non sta dentro i due schieramenti. Ma il fatto è che la domanda di riformismo nel Paese è latente, perchè si annida prevalentemente nella sempre più vasta schiera degli astenuti, e dunque abbisogna di chi la sappia far emergere con qualcosa di più e di meglio del semplice mettersi in mezzo, né di qua né di la.
Occorre elaborare una teoria del fallimento del bipolarismo italico, spiegandone bene le ragioni all’opinione pubblica e traendone delle conseguenze prima di tutto in prima persona. Ecco perchè il partito che avrebbe dovuto nascere dal patto Renzi-Calenda – e che a questo punto è del tutto abortito – non sarebbe stato la risposta giusta a quella domanda latente di riformismo. Perchè non è mettendo insieme due partiti personali che se ne fa uno vero. Tuttavia, di un partito liberaldemocratico, capace non solo di proporre un’agenda di governo davvero riformista ma prima di tutto di indicare condizioni e strumenti per riformulare il sistema politico-istituzionale mettendo fine alla transizione iniziata nel 1994 e mai chiusa, c’è e sempre più ci sarà bisogno. Lo spostamento a sinistra del Pd e l’inevitabile tramonto di Forza Italia – con Meloni che fatica a compiere la sua trasformazione moderata (nonostante l’incitamento di Marcello Pera a sostituirsi in tutto e per tutto a Berlusconi) e Salvini sempre più radicalizzato a destra (si veda l’abbraccio mortale a cui lo sottopone la Le Pen in un’illuminante intervista a Repubblica) – spalancano praterie al processo costituente di un centro liberaldemocratico. Purché si parta da un impianto culturale, una visione e un progetto politico comune, non dalle personalità che se ne vogliono fare protagoniste (che di statisti in giro non ce ne sono).
Come si vede, non c’è un angolo, anche piccolo, del quadro politico, che non sia un disastro. Ma, paradossalmente, questa situazione può forse essere un vantaggio: sgombrato il campo dalle illusioni e dai conseguenti disinganni, c’è più spazio per tornare a tessere la tela della democrazia.
L'EDITORIALE
DI TERZA REPUBBLICA
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