Crisi finanziaria e rischi per l'Occidente
ATTENZIONE PERICOLO, UNA CRACK TIPO 2008 INDEBOLIREBBE L’OCCIDENTE AL COSPETTO DI PUTIN E DELLA CINA
di Enrico Cisnetto - 18 marzo 2023
Lascio volentieri – molto volentieri – alle illeggibili cronache dei giornali e alle insopportabili tiritere dei talk show la politica (si fa per dire) nazionale, che di tutto si occupa e di tutto discute (s’accapiglia) meno che delle cose importanti – e quando lo sono, lo fa in modo volgare e dilettantesco – per volgere lo sguardo alle questioni che davvero fanno la differenza. Ricordo a me stesso che siamo ancora nel pieno di una guerra, della quale continua a sfuggirci il senso più profondo, e cioè il tentativo da parte di Putin di rompere gli equilibri mondiali che si sono determinati dalla caduta del Muro di Berlino e dalla fine dell’Unione Sovietica in poi, mettendo in discussione l’intero Occidente. E osservo con grande preoccupazione lo scenario economico-finanziario, americano ed europeo in particolare, dopo la fine della lunga (troppo lunga) stagione dei tassi a zero o addirittura negativi e il ritorno della lotta all’inflazione che avevamo disimparato, e alla luce di crack bancari, già in essere e potenziali, che riproiettano lo spettro del 2007 (crollo dei subprime) e del 2008-2009 (crisi finanziaria globale e conseguente recessione). Due fenomeni apparentemente disconnessi, ma che finiranno per interconnettersi se si commetterà l’errore di non considerarli due facce della stessa medaglia. E che nel pollaio della politica nostrana sono del tutto incompresi, altrimenti non sarebbero ridotti il primo allo scontro tra la retorica dell’euroatlantismo e quella del pacifismo-neutralismo, e il secondo alla lamentazione sul rincaro del mutuo della signora Maria.
Partiamo dalla crisi di Silicon Bank. La cosa che più preoccupa non è il caso in sé, e neppure che ci siano già altre cinque o sei banche americane che traballano. E neanche che si sia immediatamente innescata la crisi del Credit Suisse, certo più grave sia per le dimensioni globali dell’istituto elvetico sia per la debolezza intrinseca della Svizzera, ma pur sempre da tempo sulla bocca di tutti per problemi di cattiva gestione e dunque non una sorpresa per nessuno. No, la cosa più grave è che né le grandi banche centrali né tantomeno i governi abbiano calcolato, e quindi prevenuto, il rischio di crisi bancarie generate dalla brusca (per velocità e dimensione) inversione di politica monetaria da loro decisa di fronte alla fiammata inflazionistica che ha colpito il mondo a partire dal secondo semestre dell’anno scorso. Eppure, non era difficile immaginare che, esistendo una correlazione tra tassi d’interesse e prezzi dei titoli obbligazionari sul mercato tale per cui al crescere dei primi corrisponde un calo dei secondi, l’attivo degli istituti di credito si sarebbe depauperato quanto più nei loro portafogli ci fossero bond. Se poi, come è avvenuto negli Stati Uniti, l’aumento dei tassi è forte e rapido, logico attendersi un vero e proprio crollo dei corsi obbligazionari. Non è un caso che la crisi iniziata nell’estate del 2007 e scoppiata con il crack Lehman nel 2008 sia stata preceduta da un significativo rialzo dei tassi nei tre anni precedenti (peraltro più lento dell’attuale). Ma non lo si è ponderato, sicuri che l’inasprimento delle regole impresso (molto in Europa, meno negli Usa) appunto dopo il 2008 potesse fare da argine. Ma qui non siamo di fronte (solo) ad un problema regolatorio. Quella che è mancata è una valutazione politica, cioè la comprensione di ciò che avrebbe comportato mettere repentinamente fine ad un regime di denaro senza costo (anzi, in taluni casi con l’aberrazione di dover pagare per poterlo depositare) durato 15 anni, un tempo talmente lungo da aver ingenerato nel mondo del business come tra la gente comune l’idea che si trattasse della normalità, non di uno stato d’eccezione (che tale era e tale avrebbe dovuto rimanere).
Naturalmente, come sempre, il detonatore è stato il panico. Ma anche qui, non era difficile prevederlo. Mettete in fila eventi altamente ansiogeni come la pandemia, la guerra in Ucraina e il ritorno dell’inflazione – un micidiale agente corrosivo del valore reale delle risorse finanziarie di cui i vecchi si erano dimenticati e che i giovani non conoscevano – e poi aggiungete il rialzo dei tassi, ed ecco che è normale che investitori e risparmiatori abbiano cominciato a bussare alle porte di fondi e banche per recuperare i loro soldi. La crisi di Blackstone, uno dei più grandi fondi immobiliari del pianeta, sta rievocando – a torto o ragione, poco importa ai fini dello stato d’animo collettivo – la bolla generata dai mutui subprime. E così i possessori di quote chiedono i riscatti, che però sono contingentati (non più del 2% al mese): per ora si è fatto fronte con i proventi derivanti dalla cessione di partecipazioni, ma quanto potrà durare?
Si dice che in Europa siamo relativamente al sicuro. Vero, le banche sono maggiormente capitalizzate e il credito più regolamentato (fin troppo). E va intesa come dimostrazione di questa consapevolezza la scelta della Bce di non interrompere il suo programma di rialzo dei tassi, con la decisione di mantenere il preannunciato aumento di mezzo punto nonostante fossero in molti, compresa la Banca d’Italia, a suggerire quantomeno un rinvio. Pur comprendendo le ragioni della prudenza, francamente non mi sento di unirmi al coro di critiche che si è levato – talune anche becere, come quella di Salvini – perché penso che non procedere avrebbe ingenerato il sospetto che possa essere pesante l’esposizione delle banche europee nei confronti del Credit Suisse, e che quindi l’effetto contagio sia dietro l’angolo (questo, naturalmente, nella presunzione che a Francoforte sappiano davvero come stanno le cose). Tuttavia, vale la pena ricordare – siete autorizzati a fare i debiti scongiuri, anche i più volgari – che 15 anni fa la crisi nacque americana e poi però finì per essere prevalentemente europea, e che molte delle ragioni della debolezza strutturale di allora del Vecchio Continente sono tuttora esistenti, a cominciare dal fatto che da noi gli strumenti di politica monetaria e quelli di politica di bilancio sono separati. Con tutti i rischi che ciò comporta.
Insomma, l’Unione Europea è ancora un’incompiuta. Ed è proprio questa la ragione di fondo per cui Putin ha valutato che attaccare un paese prossimo al cuore dell’Europa come l’Ucraina avrebbe fatto esplodere le sue contraddizioni. Finora l’impresa non gli è riuscita, per via della straordinaria resistenza ucraina che il Cremlino non aveva neppure immaginato, e per via della coesione europea, maggiore del previsto, sommata ad un rinnovato patto euro-atlantico che il cambio Trump-Biden alla Casa Bianca ha consentito di realizzare. Ma dove non è arrivata la lucida follia del dittatore russo, potrebbe arrivare l’autolesionismo occidentale. Perché una cosa deve essere chiara: se una nuova crisi finanziaria sistemica dovesse esplodere al di là e al di qua dell’Oceano, essa e le sue conseguenze rappresenterebbero il quid che finora è mancato a Mosca per portare a compimento il suo disegno. Che, torno a ripetere, non è (solo) quello di entrare trionfante a Kiev, ma di sconvolgere, con l’aiuto della Cina di Xi, gli assetti geopolitici e geoeconomici del mondo. L’incontro di qualche giorno fa a Pechino tra cinesi, sauditi e iraniani – al di là dell’obiettivo di mediare tra Arabia Saudita e Iran, inducendoli a riprendere i rapporti diplomatici rotti sette anni fa – era la rappresentazione plastica di come il mondo anti-occidentale possa e sappia organizzarsi avendo come obiettivo comune la sconfitta di quella che loro chiamano l’egemonia imperialista degli Stati Uniti. E se l’Europa è nello stesso tempo amica di Washington, a cominciare dal ruolo che ha nella Nato, e “ventre molle” dell’Alleanza Atlantica per via delle sue intrinseche debolezze, peggio per lei.
L'EDITORIALE
DI TERZA REPUBBLICA
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