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L'editoriale di TerzaRepubblica

Terzo Polo: nuovo partito, vecchi errori (da non commettere)

SE NASCE COME FUSIONE CALENDA-RENZI, SARÀ UN FLOP. UNA “CASA DEI RIFORMISTI” APERTA E CONTENDIBILE, SARÀ UN SUCCESSO

di Enrico Cisnetto - 11 marzo 2023

Si sono finalmente avviate le pratiche per trasformare la fin qui fragile alleanza elettorale tra Azione di Carlo Calenda e Italia Viva di Matteo Renzi, chiamata Terzo Polo, in un partito vero e proprio, aperto anche ad altre componenti, a cominciare da +Europa. La cosa andava fatta tempo fa, sull’onda della nascita del governo Draghi e della sua “agenda”. Al più tardi avrebbe dovuto essere messa in opera il 27 settembre scorso, quando dalle urne era emerso un buon risultato, anche se non ottimo, per chi non si era schierato né con il centro-destra né con il centro-sinistra. E invece hanno aspettato, commettendo un grave errore, che è stato pagato in modo salato cinque mesi dopo, alle regionali di Lombardia e Lazio, nonostante si fossero giocati il jolly Letizia Moratti, perchè il vento della protesta non li ha (giustamente) risparmiati. E ora sembra il tentativo di metterci una pezza. Ma meglio tardi che mai. Visto che l’orizzonte politico prossimo è dato dalle europee del 2024, almeno stavolta si parte per tempo.

Tuttavia, se in politica i tempi sono una variabile fondamentale, non meno conta il modo con cui si fanno le cose. E se da un lato uno dei due principali protagonisti, Renzi, sembra aver opportunamente sgombrato il campo dalle polemiche annunciando di non voler lanciare la sua candidatura alla guida del futuro partito unico, dall’altro Calenda se ne è uscito con una dichiarazione quantomeno intempestiva (“il partito unico lo guido io, mi presento come segretario”) poi parzialmente corretta con un’altra frase stile fiction (“ il congresso mi auguro che sia aperto, competitivo. Io mi presenterò. Se ci sono altri, meglio ancora, sennò diventerà anche noioso”) e specificando che ci saranno le primarie, ma solo tra gli iscritti.

Ora se, come nel mio caso, si guarda con interesse e speranza a questa operazione politica – vista prima di tutto come rinascita di un partito propriamente inteso e non come l’ennesima costruzione in vitro di uno strumento personale di raccolta del consenso – a preoccupare non è la difficile convivenza, quando non lo scontro aperto, tra Calenda e Renzi e i loro rispettivi ego ingombranti come macigni. Perchè la lotta politica, il confliggere delle ambizioni, sono il sale della democrazia. Nella misura in cui, però, le leadership nascono dall’affermarsi delle idee, dei progetti politici, e non semplicemente dai curriculum vitae, dalle capacità mediatiche, dal marketing sui social. E dalla detenzione personale delle risorse organizzative ed economiche delle forze politiche, di cui magari si è anche proprietari del marchio.

Diciamolo chiaramente: fin qui tanto Azione quanto Italia Viva sono stati, pur con modalità e intensità diverse, partiti personali, nati per volontà dei rispettivi fondatori e gestiti a loro immagine e somiglianza. Fonderli come se fossero due società per azioni, badando solo ad evitare che nessuno dei due lanci un’opa ostile nei confronti dell’altro, non produrrà, temo, qualcosa di migliore. Né, temo per loro, qualcosa di successo, inteso come forza durevole capace di sopravvivere all’eventuale parabola declinante del o dei “padroni”. Diverso, invece, è se nascerà un nuovo soggetto, senza un leader preconfezionato, che a me personalmente piacerebbe avesse l’obiettivo di dare una casa ai riformisti (o riformatori, se si preferisce) accogliendo tutti coloro che non si riconoscono nel bipopulismo italico, trasformazione peggiorativa del già pessimo bipolarismo della Seconda Repubblica. Quindi non una fusione – operazione che peraltro nella politica italiana non ha mai portato bene a nessuno di quelli che l’hanno praticata – ma l’azzeramento di ciò che c’è a favore di un nuovo partito, creato attraverso un congresso fondativo privo di un esito predeterminato, in cui si confrontano tesi e personalità politiche fino a definire maggioranze, minoranze, gerarchie. Per capirci, l’esatto opposto del modo con cui nell’ottobre del 2007 nacque il Pd, con Veltroni già incoronato e il dosaggio delle componenti predisposto prima del congresso, che fu – lo ricordo, ero presente – solo ed esclusivamente celebrativo. Altrimenti è meglio limitarsi ad un semplice “cartello elettorale”, come sembra volere Emma Bonino, seppure più per non avere ancora digerito quello che lei chiama il “voltafaccia” di Calenda rispetto all’alleanza con il Pd alle scorse elezioni politiche. 

Il nocciolo della questione è tutto qui. Come mi sono permesso di ricordare a Riccardo Magi, Mattero Richetti ed Ettore Rosato, miei ospiti nella War Room di mercoledì 8 marzo (qui il link), , anche nella Prima Repubblica i partiti esprimevano leadership forti – oltre che autorevoli, ma questo è altro tema, che attiene alla stagione della mediocrità che stiamo vivendo, e che ahinoi non riguarda solo l’Italia – ma erano plurali anche quando non sembrava (il Pri di Ugo La Malfa, il Psi di Bettino Craxi) e in nessun caso le sorti dei partiti dipendevano in via esclusiva da quelle dei loro segretari. Si celebravano congressi a tesi, sia a livello nazionale che locale, e a nessuno sarebbe mai venuto in mente di affidare la guida di una qualche forza politica al voto dei passanti, ma neppure a quello degli iscritti in modo plebiscitario (cioè diretto, senza l’uso dei delegati). Nostalgia canaglia? Anche. Ma sto parlando di sostanza, non solo di liturgia.

Per il resto, lo spazio politico del “partito che (per ora) non c’è”, è enorme. Sia perché la nomina di Elly Schlein sposta il Pd a sinistra e lo schiaccia sui 5stelle, costringendolo più di quanto già non fosse su posizioni che saranno un mix di massimalismo, radicalscicchismo e populismo (vedi i distinguo in salsa pacifista sull’Ucraina e i contorcimenti sul termovalorizzatore a Roma), del tutto indigeribili a qualunque riformista. E sia perché le turbolenze dentro la maggioranza di governo, con Meloni da una parte e Salvini e Berlusconi dall’altra in un singolare rovesciamento delle parti tra moderati e non, potrebbero mettere da un momento all’altro in movimento il quadro politico, aprendo spazi sul fronte del centro del centrodestra. Inoltre, è certo che una componente assai larga del crescente partito dell’astensione sia formata da elettori che via via non si sono più riconosciuti, fino al punto da rimanere a casa al momento del voto, nelle due alleanze del sistema politico, per via della soffocante polarizzazione che gli hanno dato, e che dunque sono ampiamente recuperabili se gli si prospetta di scegliere non l’ennesimo partitino ma qualcosa che si ponga l’obiettivo di una rifondazione della politica italiana. Il “campo largo” non è quello che si realizza facendo alleanze con altre forze, né a sinistra né a destra, ma quello rappresentato dalla prateria degli elettori stanchi e disillusi cui occorre riaccendere la speranza nel presente e nel futuro offrendo loro un progetto che abbia solide radici culturali e vada ben al di là delle parole d’ordine, degli slogan oppositivi, del piccolo cabotaggio quotidiano. Sollecitazioni ad andare in questa direzione sono venute da tanti amici: Marco Bentivogli, Giuliano Cazzola, Beppe Facchetti, solo per citarne alcuni. Per non parlare del lavoro che fa Christian Rocca con la sua Linkiesta e l’iniziativa presa da Alessandro De Nicola a Milano nel mondo liberaldemocratico. Si tratta di non lasciarle cadere nel vuoto di una discussione che, finora, ha riguardato più le figure di Calenda e Renzi che altro.

Magi nella War Room ha parlato di Assemblea Costituente. Chi mi legge da tanto tempo sa che si tratta di una mia vecchia convinzione (qualcuno dice “pallino”) che nasce dalla constatazione che fu un gravissimo errore passare dalla Prima alla Seconda Repubblica senza rivedere in modo coordinato sistema politico, assetti istituzionali e regole costituzionali, e che peggio si è fatto successivamente nelle varie occasioni (titolo V, riforma Berlusconi e riforma Renzi) in cui si è provato a intervenire a spizzichi e bocconi in modo unilaterale. La transizione infinita in cui il sistema politico-istituzionale è piombato non troverà mai conclusione senza un passaggio costituente. E senza questo passaggio il tasso di governabilità del Paese rimarrà inevitabilmente basso. Il che significa non uscire mai dal declino strutturale in cui siamo immersi da tre decenni.

Ecco la proposta di grande respiro e fuori dagli schemi con cui la “casa di tutti i riformisti” potrebbe – dovrebbe – presentarsi agli italiani e chiamarli alla partecipazione, magari articolando le posizioni interne tra le sue diverse componenti, e le relative proposte di leadership, sulle scelte specifiche che i neo-padri costituenti saranno chiamati a fare per rendere più moderna ed europea l’Italia. Se così sarà il nuovo partito avrà un senso e vita lunga. Altrimenti temo che rappresenterà l’ennesima occasione sprecata.

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