La politica italiana senza abito atlantico
AIUTO, LA GUERRA CONTINUA E METÀ DELLA POLITICA ITALIANA NON HA L’ABITO ATLANTICO ED EUROPEO DA METTERSI
di Enrico Cisnetto - 25 febbraio 2023
Può sembrare blasfemo, me ne rendo conto, centrare sull’Italia il bilancio di un anno della guerra infame scatenata da Putin in Ucraina, e per certi versi lo è, considerato che siamo forse il paese europeo dove l’opinione pubblica meno si è sentita partecipe di una tragedia che pure è alle porte di casa. Ma l’effetto “spartiacque decisivo”, come nessun’altra questione, che ha assunto il conflitto in Europa – vero obiettivo di Putin, che ha inteso usare il Vecchio Continente come pietra da gettare nello stagno della geopolitica mondiale per muovere le acque di un pur precario equilibrio raggiunto a oltre tre decenni dalla fine della guerra fredda e dei patti di Yalta – in realtà rende le vicende romane, per una volta, meno provinciali di quanto non possa sembrare, nonostante la deprimente modestia dei suoi interpreti. Ma se il proposito di Mosca era appunto mettere in crisi l’Europa per ridisegnare la mappa planetaria del potere, mettere in crisi Roma era – e rimane – un di cui di non poco conto. Siamo pur sempre uno dei paesi fondatori dell’Europa post Seconda Guerra Mondiale, uno dei tre maggiori, il secondo come potenza industriale manifatturiera, da sempre cerniera tra Est e Ovest, e dunque un architrave importante della costruzione che si vuole distruggere al servizio del disegno imperialista di ricostruzione del vecchio blocco sovietico come primo passo per imporre al mondo occidentale la supremazia del blocco russo-cinese.
Ora, è vero che il bilancio di questo “primo” anno di folle guerra – le virgolette servono ad esorcizzare il timore, forte, che non sia l’ultimo – è assai magro per chi l’ha scatenato. Se è corretta la vulgata secondo la quale Putin aveva in testa di sbrigarsela in poco tempo, immaginando non solo di trovare poca resistenza militare ma di essere accolto a braccia aperte dalla popolazione ucraina, le cose sono andate assai diversamente: resistenza civile e militare formidabile; Zelensky che si è rivelato, al netto di alcun eccessi mediatici, un efficace condottiero del suo popolo; Europa molto più unita di quanto non ci si potesse aspettare; Nato rivitalizzata e in fase di espansione laddove finora era prevalso il neutralismo (Svezia e Finlandia). Ma nello stesso tempo, pur non avendo ottenuto alcuno degli scopi che si proponeva, Putin non è stato militarmente sconfitto. Da qui, lo stallo: se Putin non si ferma e l’Occidente non si arrende ma evita di forzare la mano nella preoccupazione di un’escalation atomica del conflitto, la guerra potrebbe continuare per chissà quanto tempo. E siccome, da un lato l’autocrate di Mosca non pare proprio abbia intenzione di prender atto del suo fallimento sostanziale, mentre dall’altro l’Occidente non mostra segni di cedimento nel supportare Kiev(per fortuna), e in più nessun pacifista, vero o falso che sia, mostra di avere la ben che minima idea di come far tacere le armi se non in modo unilaterale, lo stallo che costa quotidianamente morti e devastazioni non può che continuare. Anzi, se davvero al Cremlino avessero in testa di aprire anche il fronte moldavo della guerra, il rischio è che il conflitto aumenti di intensità.
In questo quadro – che a molti fa venire in mente il 1939 – a nessuno in Occidente è concesso il lusso non dico di essere neutrale, ma neppure di coltivare un minimo di ambiguità, o anche solo di generare instabilità, in Europa prima di tutto ma anche nel proprio paese. Per questo ciò che accade in Italia è, nostro malgrado, centrale. Mi riferisco, l’avrete già capito, al filo-putinismo esplicito, anche se negato, di Silvio Berlusconi e a quello ultimamente mascherato dopo essere stato a lungo esibito, sia verbalmente che a mezzo felpa e t-short, di Matteo Salvini. Cioè dei leader di due delle tre forze politiche che compongono la maggioranza di governo. Ma parlo anche di un’opinione pubblica dove la consapevolezza della posta in gioco e la piena coscienza del ruolo che dobbiamo esercitare è ad appannaggio di una minoranza, magari corposa, ma pur sempre inferiore alla somma tra chi, a destra come a sinistra, è con Putin, non fosse altro per un mai sopito sentimento anti-americano (a questo proposito si leggano le sagge parole di Antonio Polito sul Corriere della Sera), chi coltiva equivoche ambivalenze figlie di un peloso pacifismo di maniera, chi ha solo paura che la guerra gli arrivi addosso e non tiene minimamente in conto il valore universale della lotta per la libertà degli ucraini, e chi infine se ne frega pensando che si tratti di cosa che non ci riguarda. Ma ciò che circola nelle viscere della società è al tempo stesso alimentato dalla politica e oggetto del desiderio della politica, alla perenne ricerca del consenso a tutti i costi. Quindi è alla politica che in primo luogo dobbiamo guardare.
Diciamocelo francamente, il tempo delle minimizzazioni e delle ipocrisie è finito. Derubricare Berlusconi a “pensiero personale” o “voce dal sen fuggita”, come si è fatto fin qui, da un lato è una mistificazione del tutto irragionevole considerato che il Cavaliere, per quanto l’età e la vita intensa gli consentano solo sprazzi di lucidità, è e rimarrà fino al suo ultimo giorno il padrone assoluto del partito che ha fondato, e dall’altro è persino irriguardoso nei suoi confronti. Sorvolare su Salvini solo perché in questo momento ha abbassato il volume delle sue esternazioni significa ignorare che la Lega, almeno quella che al segretario fa riferimento senza tentennamenti, continua a mugugnare sull’invio di nostre armi a Kiev, e che l’obiezione non è cosa da poco. Infine, trincerarsi dietro le votazioni parlamentari unanimi fin dai tempi del governo Draghi, è un gioco che non regge più, e sempre meno è destinato a reggere in futuro se il livello del conflitto scatenato dalla Russia dovesse disgraziatamente salire. Occorre partire dal presupposto che nella politica italiana ci sono solo Fratelli d’Italia e Pd – al netto di qualche componente di entrambi i partiti che ha delle ambiguità – e il Terzo Polo, a stare senza se e senza ma dalla parte di Kiev. Tutti gli altri, chi più chi meno, hanno posizioni che finiscono per portare acqua al mulino di Mosca. A cominciare dall’ineffabile avvocato Conte, cui probabilmente erano rivolte le parole di Putin quando l’altro giorno ha ricordato il “debito di riconoscenza” che l’Italia avrebbe contratto con la Russia in occasione della pandemia (ricordate la strana missione sanitaria russa in Italia del 2020? Chi c’era allora a palazzo Chigi?). Non c’è proprio da stare allegri.
In molti contano sull’atlantismo, che fin qui si è dimostrato doc, di Giorgia Meloni. A questo proposito ascoltate, se non già non l’avete fatto, il parere di una fine analista di politica internazionale come Marta Dassù in una magistrale puntata speciale di War Room (scusate l’autoincensamento, ma quando ci vuole ci vuole) dedicata al compimento di un anno della guerra, a cui hanno dato un grande contributo anche Paolo Magri e Paolo Garimberti (qui il link). La valutazione, che è anche di Stefano Folli (e in modo molto netto), è che con il suo viaggio in Ucraina, la postura assunta e le parole spese (e quelle non spese per difendere l’indifendibile Berlusconi) la presidente del Consiglio abbia cambiato i connotati del suo profilo politico, passando dal piccolo cabotaggio nostrano al palcoscenico internazionale. Condivido. Ma l’atlantismo meloniano, in chiave europea si declina lungo l’asse privilegiato Usa-Polonia, che tende a mettere in secondo piano il tradizionale asse franco-tedesco (anche per responsabilità di Parigi e Berlino, sia chiaro) e ad aggregare invece una vasta area di paesi (oltre quelli di Visegrad, che rimangono però il punto di partenza). E questo processo – che molto probabilmente avrà come corollario il tentativo di creare un’alleanza tra Popolari e Conservatori nelle sedi Ue, in vista delle elezioni europee dell’anno prossimo o come effetto delle medesime – crea grandi tensioni in Europa (si veda la War Room di giovedì 23 febbraio con ospiti di grande caratura come Carlo Bastasin, Angelo Bolaffi e Sergio Fabbrini, qui il link) proprio mentre il Vecchio Continente è chiamato, anche e soprattutto dalle dinamiche presenti e future della guerra, a fare tutti i passi fin qui mancati nella direzione di un livello di integrazione ben maggiore dell’attuale.
Per questo, alle parole di apprezzamento per la “tenuta” mostrata da Meloni, occorre aggiungerne altre di incitamento a guardare in faccia la realtà tanto a Roma quanto a Bruxelles. In casa, Meloni dovrà decidersi a prendere atto sia dell’impossibilità di continuare a basarsi su una maggioranza che tiene i piedi in due scarpe, costringendola ad un defatigante esercizio di minimizzazione e di continui distinguo, sia della fragilità del suo quadro dirigente (di governo e di partito). Se lo facesse prima che qualche vicenda più scabrosa delle altre glielo dovesse imporre, sarebbe tanto di guadagnato, per Lei e per il Paese. Penso, per esempio, alle prossime nomine dei vertici delle aziende dove c’è una partecipazione dello Stato, e a quello che potrebbe succedere se si dovessero sbagliare le scelte di alcune che più di altre sono fortemente attenzionate in chiave atlantica.
Sulla scena continentale, anche ammesso che un’Europa più policentrica sia un obiettivo possibile e un disegno utile, Meloni – che deve recuperare l’oggettivo gap prodotto dalla parentesi di Mario Draghi, la cui autorevolezza personale ha fatto la differenza, specie nel contesto della guerra – non può non tener conto che troppi legami e interessi ci congiungono, come Italia, a Francia e Germania, perché risulti conveniente o anche solo possibile “antipatizzare” con Macron e Scholz. Senza contare che è la nostra situazione finanziaria e la dipendenza dalle risorse comunitarie e dalle protezioni monetarie della Bce a non poterci permettere di diventare, anche nostro malgrado, fattori di instabilità.
Oh come sarebbe bello se, in questo momento di attenzione verso la guerra, i danni tragici che fin qui ha procurato e le prospettive incerte quando non drammatiche che potrebbe avere, fossero questi, nel nostro benedetto paese affetto da strabismo perenne, gli argomenti di riflessione da portare ad una pubblica opinione cui manca clamorosamente il senso della gravità delle ore che viviamo.
L'EDITORIALE
DI TERZA REPUBBLICA
Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.