Meloni alla prova del Pnrr (già in ritardo)
È SULL’ATTUAZIONE DEL PNRR CHE MELONI SI GIOCA I RAPPORTI CON BRUXELLES E LA TENUTA DEL GOVERNO
di Enrico Cisnetto - 03 dicembre 2022
Se si apre il sito del Governo dedicato al Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza si vede che l’ultimo aggiornamento approfondito sullo stato di avanzamento lavori è del maggio scorso, quando ancora a palazzo Chigi c’era Mario Draghi. E questo nonostante che nella manovra dello scorso anno si fosse fissato l’impegno a rilevare e pubblicare i dati di attuazione di ciascun progetto del Pnrr. Il ministro Raffaele Fitto ci viene in soccorso, pur senza far cifre, ammettendo con onestà che a fine anno la spesa realmente effettuata sarà lontana da quella prevista, nonostante che la previsione iniziale di 42 miliardi fosse già stata rivista al ribasso, prima a 33 miliardi e da ultimo, a settembre, a 21 miliardi, cioè la metà dell’ammontare iniziale. E aggiungendo che “l’indicatore della spesa è molto preoccupante, perché se mettiamo insieme tutte le risorse disponibili e le proiettiamo al 2026 è chiaro che c’è bisogno di un confronto a livello europeo e nazionale”. Siccome ho ragione di ritenere che al 31 dicembre si saranno contabilizzati non più di 15 miliardi, cioè il 70% dei 21 e il 35% dei 42 iniziali, ciò significa che a questa velocità di crociera dei 191 miliardi complessivi previsti entro il 2026, alla fine se ne riuscirebbe a spendere solo 60, meno di un terzo. Non certo quella “svolta culturale” evocata da Giorgia Meloni davanti alle Camere.
Ora il Pnrr è l’unico strumento che un paese ultra-indebitato come l’Italia dispone per sostenere lo sviluppo e nello stesso tempo l’indispensabile “vincolo esterno” per realizzare le riforme strutturali mai fatte. Per di più, il trasferimento delle risorse europee è subordinato all’effettivo “stato avanzamento lavori”, in relazione sia alle opere da fare che alle riforme da compiere, che penalizza (giustamente) gli inadempienti. Cosa che, quindi, dovrebbe spingere non solo il governo, ma l’intera classe dirigente, a impegnarsi nel mettere a terra, come si usa dire oggi, quanto è stato scritto nei documenti programmatici che Bruxelles ha approvato. Eppure, il dibattito politico italiano si occupa d’altro e quando tocca il tasto Pnrr è per dire che bisogna riscrivere i piani a suo tempo redatti dal governo Draghi, o addirittura che l’Europa dovrebbe ripensare il Next Generation Ue da cui poi discende il nostro Recovery.
Insomma, stiamo andando molto – troppo – lenti, e molto probabilmente continueremo a farlo, considerati i nostri standard del passato e la sottovalutazione del problema del presente. Nell’ultimo decennio, infatti, gli investimenti pubblici sono risultati sempre inferiori alle previsioni, oltre che alle necessità, e i fondi strutturali europei sono stati utilizzati poco e male. Per esempio, rispetto all’ultimo piano settennale 2014-2020 registriamo un “avanzo” di circa 20 miliardi di risorse non usate. Se sommiamo i due cicli di fondi di coesione che vanno dal 2007 al 2020 si conta una spesa effettuata del 45% rispetto al possibile, cioè 94,4 miliardi sui 206,3 totali. Una cosa che non accade nessun altro paese continentale e che appare ancor più grave se si considera il grado di necessità di quegli investimenti per rilanciare il Paese.
Ma se il passato piange, il presente non ride. Per esempio, analizzando le “milestones” che servono per realizzare i 20 miliardi di investimenti previsti nel settore dell’edilizia nel 2023, l’associazione dei costruttori (Ance) ha tracciato un calendario delle scadenze che è un vero e proprio tour de force. Sono infatti previsti interventi capillari sul territorio (metropolitane, asili, ferrovie, filovie, funivie e interventi contro il dissesto idrogeologico) per i quali servono progetti di fattibilità e progetti esecutivi, oltre che tutti i processi autorizzativi superati, che si fatica a credere possano arrivare nel giro di qualche mese. Dunque, è possibile, se non probabile, il fallimento. Che sarebbe dannoso in sé e per il fatto che se non si raggiungono gli obiettivi concordati con Bruxelles non avremo i requisiti necessari per ottenere i futuri finanziamenti. Tanto che circola l’ipotesi di cancellare qualche progetto infrastrutturale (magari dirottando i soldi su altri progetti che in corso d’opera sono diventati più costosi per via dei rincari che hanno colpito in particolar modo energia e materie prime) così da evitare ritardi che metterebbero in difficoltà l’intero piano. Solo che togli oggi, togli domani…
Naturalmente, Giorgia Meloni può, calendario alla mano, rivendicare con pieno diritto il fatto che è alla guida del Governo solo da una quarantina di giorni e che Draghi le ha lasciato dei bei documenti ma nulla di più. In effetti, la prima parte del lavoro fatta dal precedente esecutivo, e cioè la scrittura del Pnrr, per quanto complessa è stata comunque un esercizio meno difficile rispetto all’esecuzione del piano stesso. E comunque nella primavera del 2021 ci volle un intervento personale dell’ex presidente della Bce su Ursula von der Leyen e Angela Merkel per assicurarsi il via libera definitivo di Bruxelles. Adesso abbiamo quattro anni per approvare leggi e metterle in pratica, ma soprattutto per progettare e realizzare opere importanti come ferrovie, strade, ospedali, impianti di energia rinnovabile, ma anche sistemi di connettività, processi di digitalizzazione e tanto altro. Tutte cose che solitamente in Italia, quando riescono, richiedono decenni.
Anche perché ci sono diversi ostacoli strutturali che ci impediscono di mettere a terra i progetti. Nel pubblico e nel privato. Nelle procedure e nell’amministrazione. Nel pubblico, per esempio, più di un terzo delle risorse e più di due terzi dei progetti del Next Generation Eu saranno gestite dagli enti locali. E, come ammonisce l’Ufficio Parlamentare di Bilancio, le amministrazioni potrebbero (eufemismo) non avere personale adeguato a gestire una così ingente mole di fondi e, anzi, per la Corte dei Conti la creazione di strutture tecniche nelle singole amministrazioni è “più lenta di quanto auspicabile”. Draghi era corso ai ripari prevedendo una piattaforma a supporto degli enti locali che si chiama “Capacity Italy”, ma è evidente che potrebbe non bastare. Incidono, infatti, due problemi nodali. Il primo riguarda il personale, che è poco – il “sotto organico” è cosa abituale – e ha competenze non aggiornate (mancherebbero 14 mila professionisti, e in particolare 7 mila ingegneri). Il secondo i processi amministrativi, strutturati in modo burocratico e poco funzionale, che per questo – oltre che per un diffuso senso di de-responsabilità – hanno tempi biblici, incastrati tra mille pareri di tanti, troppi soggetti (governo centrale, enti locali, amministrazioni periferiche dello Stato, eccetera) che hanno tradizionalmente un approccio difensivo e non conoscono le regole di mercato.
Ma se dal pubblico passiamo al privato, non va tanto meglio. Per esempio: chi dovrebbe realizzare tutte le opere infrastrutturali previste? A ben guardare ci sono pochissime aziende nazionali – con la sola eccezione di Webuild, che non a caso sta sviluppando il 70% dei progetti ferroviari previsti dal Pnrr – e questo ci espone al rischio che le risorse tanto faticosamente conquistate in Europa poi finiscano per avere una ricaduta di business e occupazionale a favore di imprese straniere. Anche perché negli ultimi decenni abbiamo “bruciato” gran parte delle competenze ingegneristiche che un tempo avevamo. Altra questione: l’Italia soffre la carenza di molte delle figure professionali necessarie per alimentare il flusso dei lavori in cantiere. Questo avviene nell’edilizia, dove mancano migliaia di professionisti specializzati, ma anche in ambito telco (che impegna quasi 41 miliardi dei 191,5 complessivi) dove non si riescono a ricoprire 16 mila posti di lavoro. Secondo Uniocamere, da qui al 2026 mancheranno circa 50-60 mila laureati all’anno. Soprattutto quelli provenienti dalle facoltà “stem” (acronimo inglese che sta per science, technology, engineering and mathematics).
Ma a monte di tutti questi problemi ce n’è uno, quello politico, la cui mancata soluzione rischia di pregiudicare tutti gli sforzi che miracolosamente si dovessero comunque riuscire a fare e impedire di farne altri. Ha due facce: quella interna e quella europea. La prima è ascrivibile alla tenuta della maggioranza. Per rimanere nel solo perimetro del Pnrr, i suoi termini sono apparsi palesi quando il presidente del Consiglio ha deciso che la competenza sui fondi del Recovery non sarebbe più stata del Ministero dell’Economia, ma sarebbe passata a quello degli Affari europei guidato dal fedelissimo Fitto. Tanto per avere idea di quale guerra interna al governo ciò abbia scatenato, basti sapere che dopo il passaggio delle deleghe da Giorgetti a Fitto, in una riunione a palazzo Chigi la delegazione della Lega ha messo il veto su un decreto di semplificazione normativa proposto da Fitto per superare le farraginosità della nostra burocrazia e dare il boost ad alcuni progetti. Così come è segnale del clima dentro la maggioranza, la battaglia in corso tra il Ministro dell’Ambiente di Forza Italia, Gilberto Pichetto Fratin, e quello delle Imprese e Made in Italy, Adolfo Urso di Fratelli d’Italia, che si stanno litigando le deleghe (e 35 miliardi di relativi fondi) per ciò che concerne l’energia. La questione europea, infine. Da un lato attiene ai rapporti politici con Bruxelles e le maggiori cancellerie, rapporti che Meloni ha avocato a sé e che risentono di una diffidenza scalfita solo da alcune garanzie offerte da Draghi al momento della staffetta circa la continuità che il presidente del Consiglio avrebbe garantito. Dall’altro riguarda più specificatamente il Pnrr e l’allarme scattato nella Commissione europea, i cui funzionari in visita a Roma per verificare lo stato avanzamento lavori del Recovery hanno chiesto conto del fatto che le competenze siano state sottratte al Mef, visto che in tutti gli altri paesi è sempre il Ministero dell’Economia il titolare della responsabilità e l’Ecofin è il luogo comunitario dove si discute del Next Generation Eu.
Insomma, Meloni ha ottenuto dall’Europa un credito condizionato. Una parte se l’è giocato con la legge di Bilancio, che Commissione Ue è intenzionata a definire “solo parzialmente in linea” con i dettami di Bruxelles. Adesso è attesa al varco dei decreti attuativi della legge sulla concorrenza – terreno su cui Salvini darà il meglio di sé con intemerate come quella sul tetto a 60 euro dell’uso dei Pos – e del completamento della spesa prevista entro fine anno, cui è subordinata la successiva tranche da 21 miliardi del Pnrr. Ora che il gioco si fa duro, si vedrà meglio di che pasta è fatta Giorgia.
L'EDITORIALE
DI TERZA REPUBBLICA
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