Pro e contro della manovra Meloni
NELLA LEGGE DI BILANCIO NON CI SONO ECCESSI DI SPESA... BENE NON CI SONO INVESTIMENTI PER LA CRESCITA... MALE
di Enrico Cisnetto - 26 novembre 2022
Manovra di bilancio, ci risiamo. È cambiato il governo e gli equilibri dentro la maggioranza che lo sostiene, ma l’approccio sia nel formulare le misure che nel criticarle è rimasto lo stesso. D’altra parte, sono decenni che la politica italiana è diventata un “distribuificio”. Ogni attenzione è riservata solo alla distribuzione di benefici (veri e presunti), siano essi sotto forma di “dare” (bonus, incentivi, sussidi, sovvenzioni, ecc.) o di “non avere” (riduzioni di aliquote, sgravi, deduzioni, gratuità, ecc.). Ogni discussione e motivo di scontro politico verte solo su questo, in una continua rincorsa a chi offre di più. E vale tanto per chi è momentaneamente al governo, che ha solo il vincolo – per via dell’occhiuta vigilanza europea – di non eccedere nel creare deficit e aumentare il debito, e a maggior ragione per chi sta all’opposizione, che considera quello dei conti pubblici un problema non suo. Nessuno, o quasi, che ragioni sulla quantità e qualità delle entrate e delle uscite pubbliche, dello Stato come degli enti locali, salvo usare la foglia di fico della “spending review”, che naturalmente resta sulla carta (ed è pure uno strumento sbagliato, perché parte dal presupposto che la spesa pubblica sia un fatto tecnico, mentre è solo politico e richiede scelte politiche). Tantomeno, nessuno, o quasi, che ragioni sulla crescita, tema che al massimo viene declinato in termini di conservazione dell’esistente, mai di sviluppo e innovazione. Con il risultato che la spesa pubblica è arrivata a superare i mille miliardi, per l’esattezza 1.049 pari al 54% del pil, e le entrate inseguono a 940 miliardi.
Il sottostante di questo atteggiamento è duplice. Da un lato c’è l’idea – del tutto sbagliata – che il Paese viva in una devastante povertà, con la sola eccezione di chi non paga le tasse, e che dunque il compito di un partito e di chi lo guida sia quello di fare tutto il possibile per “rimediare”, lenendo i “sacrifici” – vocabolo fondamentale in questa narrazione – sostenuti dagli italiani. Ovviamente non sostengo che non esistano sacche di arretratezza e anche di povertà, relativa e assoluta, ma è fuorviante la lettura di una società profondamente e largamente segnata da questi fenomeni. C’è poi la riduzione della politica – non solo quella italiana, ma ciò non consola, anzi – allo sventolio di bandierine identitarie (culto della personalità compreso) e alla mera elencazione dei bisogni, veri e presunti, con relativo sforzo di fantasia di come soddisfarli. Il tutto senza la cornice di un’idea di società e di un bagaglio programmatico discendente da quel progetto, necessariamente di lungo periodo e dunque stridente rispetto all’imperante “momentismo” di cui è affetta la politica priva di solidi ancoraggi culturali e legata più ai leader che alle idee. Che poi tutto questo avvenga per fragilità culturale, massimalismo politico o pura speculazione in chiave di più una facile raccolta del consenso, non cambia.
È dunque in questo contesto che va letta la prima legge di bilancio del governo Meloni. La quale va giudicata più per quello che non contiene che per quello che c’è: si tratta di decidere se va fatto prevalere il sospiro di sollievo per ciò che si è evitato di metterci dentro – e di fuffa sul tavolo se ne era depositata tanta, a cominciare dalle promesse che i partiti avevano largamente diffuso in campagna elettorale – o l’insoddisfazione per quello che nella manovra avrebbe potuto e dovuto esserci e che invece non c’è. Personalmente le attribuisco un pregio decisivo, che le consente di strappare la sufficienza seppur minima: non “sfora”, cioè non stravolge i conti pubblici, come si poteva temere, tutto sommato rimanendo entro i limiti concordati in sede Ue. Ed è un giudizio che hanno dato anche i mercati, a giudicare dall’andamento dello spread, in calo fino a scendere sotto i 190 punti. E che è sperabile, e forse pure probabile, che sia quello che finiranno per dare Bruxelles e le principali cancellerie d’Europa.
Ma, detto questo, non si può non rilevare come ancora una volta il terreno su cui poggia il principale atto di politica economica sia quello della spesa corrente. Di investimenti in conto capitale, e quindi di sviluppo, non c’è neppure l’ombra. Infatti, dei quasi 35 miliardi complessivi, ben 21, cioè il 60%, andranno a calmierare il cosiddetto “caro bollette”. Il resto delle risorse va a tante altre misure, che giocoforza sono tutte minimali, compreso la maggiore di esse, i 5 miliardi usati per la diminuzione del cuneo fiscale, per la quale sia i sindacati che la Confindustria richiedevano ben altro impegno. Così chi voleva issare i propri vessilli si ritrova a poter piazzare solo qualche piccola bandierina: per esempio, addio a quota 100 e 101 sulle pensioni, visto che si va verso quota 103, e le minime non saranno alzate a mille euro, ma rivalutate parzialmente; la pace fiscale ci sarà solo per le cartelle sotto i mille euro; la flat tax non sarà per tutti, ma per una platea ristretta; la stretta sul reddito di cittadinanza c’è, ma è graduale. Salta perfino il tanto sbandierato taglio dell’Iva a pane, pasta e latte, che sarebbe stato assurdo perché favoriva in egual misura abbienti e poveri, con 14 euro di risparmio annuo a famiglia a fronte di un costo di mezzo miliardo (per avere maggiori elementi di giudizio vedi la puntata di War Room di martedì 22 novembre, qui il link
Qui va fatto un ragionamento, sereno ma senza aver paura di rompere dei tabù, sulla politica di intervento a fronte dell’aumento dei costi dell’energia, iniziata dal governo Draghi e proseguita da quello Meloni. E che, a pensarci bene, incrocia la questione del reddito di cittadinanza così come altre forme di sostentamento e aiuto. So perfettamente che sia per gli individui e le famiglie, sia per le imprese, l’onere delle bollette si è moltiplicato. E sono conscio delle conseguenze. Che però non sono eguali per tutti. Ora, considerata la dimensione complessiva del fenomeno – centinaia di miliardi – e l’incertezza relativa alla sua durata, non è pensabile un intervento, tanto più se prolungato, per tutti. Occorre rovesciare il punto di partenza: non importa se la colpa sia delle bollette, dell’inflazione o di qualunque altra causa, importa sapere che di fronte a determinate situazioni di difficoltà economica – il cui grado va stabilito a seconda delle risorse che si possono mettere in campo senza stravolgere i conti pubblici – lo Stato interviene. Ma per farlo deve dotarsi di efficaci strumenti di accertamento della reale condizione di persone e famiglie, cosa che è tanto più facile fare quanto più si è sul territorio (quindi sono i Comuni l’istituzione da incaricare per individuare le vere condizioni di bisogno). Ovvio che tra i diversi parametri ci deve essere anche quello della possibilità/disponibilità a lavorare. Insomma, non va costruita una misura di welfare per ogni accidente che ci può capitare, ma una unica di sostegno ai veri e maggiormente bisognosi, da mantenersi nel tempo solo qualora non sussistano i presupposti per emanciparsi dalla condizione che ha generato il sostegno. Poi chiamate come volete questa misura, tranne che reddito di cittadinanza, sia perché farebbe confusione sia perché quella definizione racchiude in sé l’errore concettuale di pensare che tutti hanno diritto ad un reddito per il solo fatto di essere cittadini.
Ma la stessa cosa vale anche sul fronte degli aiuti alle imprese. Tralascio qui le malversazioni che vengono segnalate (un esempio lo ha fatto Chicco Testa nella War Room di giovedì 24 novembre rivedi la puntata qui), considerandole un fatto fisiologico. Ciò che conta è essere consapevoli che non possiamo (in termini di carico sul bilancio) né dobbiamo (in termini di opportunità per il migliore sviluppo del sistema economico) sostenere indistintamente tutti. Essere un’impresa energivora è condizione necessaria ma non sufficiente, perché se quell’azienda era comunque “alla canna del gas”, metaforicamente parlando, intervenire a ridurgli il carico delle bollette servirà a tenerla in vita solo per qualche momento in più, ma certo non le darà quella competitività che le mancava a prescindere dai costi dell’energia. Insomma, anche qui s’impone la necessità di avere una capacità selettiva, se si vuole che gli aiuti siano virtuosi. Ma questo presuppone che il governo abbia una linea di politica industriale, e quindi sappia rendere da un lato strategica e dall’altro trasparente la discrezionalità che deve necessariamente usare.
In entrambi i casi, famiglie e imprese, bisogna partire dal presupposto che i 21 miliardi usati per il caro bollette (che si aggiungono a quelli precedenti spesi sempre per l’energia e prima per il Covid) sono finanziati a deficit, e quindi andando ad incrementare il debito che già ammonta alla cifra record di 2700 miliardi. E occorre avere bene a mente che andiamo verso una fase in cui, a fronte di una frenata dell’economia (vedremo se fino al punto di portarci in recessione o meno), di un picco inflazionistico che dobbiamo ancora toccare e del perdurare delle pesanti incertezze generate dalla guerra scatenata da Putin e dalla crisi degli equilibri geo-politici mondiali, la Bce aumenterà i tassi e chiuderà l’ombrello protettivo che avevamo sulla testa e la Ue ridefinirà i termini del patto di stabilità con cui l’Europa misura le politiche di bilancio degli Stati membri.
In questo quadro, ben venga la prudenza “minimalista” mostrata da Giorgia Meloni, non fosse altro per la sua convenienza politica a tagliare le unghie dei suoi inaffidabili alleati. Prudenza, a fronte della quale, le litanie di tre delle quattro opposizioni, che attaccano la manovra su tutto meno che su quello per cui merita di essere criticata, fanno cascare le braccia. Perché la Meloni con questa manovra avrà pure comprato tempo, ma così sinistra, Pd e 5stelle il tempo lo buttano dalla finestra.
L'EDITORIALE
DI TERZA REPUBBLICA
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