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L'editoriale di TerzaRepubblica

Se la Moratti archivia il bipolarismo

L’ADDIO DI MORATTI AL CENTRODESTRA PUÒ ARCHIVIARE IL BIPOLARISMO E OFFRIRE UN’OPPORTUNITÀ AI RIFORMISTI PD 

di Enrico Cisnetto - 04 novembre 2022

Il suo cognome inizia con la “M” e finisce con la “i”, è donna, ha una storia politica di centro-destra e si candida a scompaginare i precari e purtuttavia duraturi equilibri della politica italiana (la transizione infinita). No, non è Giorgia Meloni. O meglio, non è solo lei. Parlo di Letizia Moratti, che si è appena dimessa da vicepresidente e assessore al Welfare della Regione Lombardia per avere la libertà di potersi candidare, la primavera prossima, alla presidenza della Regione medesima. A prima vista l’accostamento può sembrare improprio: Meloni è capo del governo centrale, Moratti aspira a diventare capo del governo lombardo. E, senza sottovalutare il peso della regione più importante d’Italia, sono due condizioni imparagonabili. Ma se si ragiona sul piano più strettamente politico, si vedrà che le cose stanno diversamente. Vediamo perché.

Meloni è oggetto di un investimento emotivo da parte di un crescente numero di italiani, che certamente va ben oltre il perimetro della destra da cui proviene, anche di quella post fascista di An che Gianfranco Fini con indubbia capacità seppe allargare. Ora, per i governi la luna di miele è sempre esistita e il primo esecutivo guidato da una donna a maggior ragione non fa eccezione. Inoltre, da tempo si è diffusa l’aspirazione a mettersi nelle mani dell’uomo (o donna) del destino (salvo poi tramutare, con velocità sempre più crescente, l’aspettativa in delusione). Ma la sensazione è che nel caso di Meloni l’attesa messianica sia sopra la media, e riguardi anche chi sta politicamente altrove. Le ricerche demoscopiche sono eloquenti: tutti i sentiment negativi sono in calo, anche vistosamente, mentre tutti quelli positivi sono in crescita, anche significativa. Certamente, per la prima volta dal 2008 dalle urne è uscita un’indicazione chiara, per quanto figlia più dei meccanismi elettorali maggioritari che non di una quantità di voti consistente (considerato che il centro-destra rispetto al 2018 ha perso elettori e non va oltre il 26% degli aventi diritto al voto). Questo, almeno sulla carta, garantisce a Meloni un mandato politico forte. Nello stesso tempo, però, la costringe a dare subito dimostrazione che la sua è una leadership vera e duratura. Pena, altrimenti, una altrettanto rapida trasformazione nell’ennesima meteora. E la fretta, sommata all’inesperienza nella gestione dei processi di governo e nella guida della macchina amministrativa, è cattiva consigliera. 

Lo si è visto in questi primi giorni in cui l’ansia di imprimere fin da subito un marchio identitario al suo governo – chissà perché, poi, visto che la campagna elettorale è finita e il suo mondo è l’ultimo cui deve guardare se vuole giocare a tutto campo – le ha fatto commettere una sequela di errori da matita blu. Dalla “amnistia no vax” per i medici e il personale sanitario non vaccinati Covid – sicuramente il più grave, perché il messaggio è devastante a fronte di un’utilità pratica pari a zero – al pasticciato e inutile decreto anti raduni rave (esistono già le leggi che servono, basta applicarle), dall’innalzamento della quota di contante spendibile (nessun tabù ideologico, ma non era né il momento né il modo), all’approccio muscolare sugli sbarchi (verso navi ong che portano il 10% del totale degli immigrati accolti). Oltretutto polemizzando con l’Europa, proprio quando era in programma il primo viaggio della presidente del Consiglio a Bruxelles, con un’agenda (sbagliata per un approccio iniziale) tutta all’insegna del “battere cassa”.

Ora ci si domanda se tutto questo sia una sorta di pedaggio pagato al noviziato e un riflesso condizionato dall’abitudine all’approccio ideologico e propagandistico, destinato a lasciar spazio alle vere priorità. E anche se, pure alla luce delle divisioni dentro la maggioranza, non finirà col prevalere la tentazione di sovvertire le priorità stravolgendo l’agenda, quella ereditata da Draghi per capirci, fatta da impegni e scadenze da rispettare e garanzie da assicurare, a favore di un’accozzaglia di misure “segnaposto” prive di rilevanza strategica, se non peggio. E ci si chiede quale abito indosserà Meloni in Europa. Antonio Polito, per esempio, le ha saggiamente suggerito di evitare quello sovranista tante volte messo a Roma, magari pensando che possa essere una carta da giocare quella di sbandierare l’investitura popolare ricevuta il 25 settembre. In quel consesso tutti i paesi sono sovrani e tutti i governi sono legittimati (eletti direttamente o per via parlamentare, non fa differenza) per cui la vera partita si gioca sul terreno del “sovranismo europeo”, dentro tutte le istituzioni comunitarie, Ue e Bce in testa. Partita che richiede la costruzione di alleanze, la ricerca paziente del consenso, l’uso intelligente della mediazione e del compromesso. Non i pugni sul tavolo. Specie se il tuo debito è grande e gravoso, i tuoi difetti tanti e strutturali, il tuo bisogno degli altri alto e cogente.

Soprattutto, Meloni deve guardare in faccia la realtà politica che la circonda: deve gestire tre partiti di maggioranza riottosi (di cui uno già spaccato e un altro che potrebbe diventarlo presto) e fronteggiare quattro opposizioni (oltre a Pd, 5stelle e Terzo Polo, c’è anche un fronte massimalista che salda trasversalmente grillini, sinistra radicale e ala sinistra Pd, che Francesco Verderami ha ribattezzato “intergruppo degli intransigenti”), che praticano un confusionario “tutti contro tutti”. Ora, Meloni deve decidere se prendere atto di questo contesto balcanizzato nell’ipotesi (illusione?) di poterlo governare. O se provare, magari non subito ma neppure troppo in là, a produrre cambiamenti nel sistema di alleanze, spaccando il proprio fronte ma anche quello avverso. Non so dirvi la presidente del Consiglio quale strada sceglierà, se quella conservativa o quella coraggiosa, ma so che sul terreno della scomposizione e ricomposizione del quadro politico avrà in Letizia Moratti una concorrente agguerrita.

Le dimissioni dell’ex ministro berlusconiano ed ex presidente Rai in quota Forza Italia – peraltro date a fronte dei primi provvedimenti del governo Meloni, da cui ha preso esplicita distanza – la sciolgono dal legame quasi trentennale con il centrodestra. Contemporaneamente la inseriscono nel triangolo tra la sua lista civica ormai pronta (“LM”, come “Lombardia Migliore” ma anche come Letizia Moratti), il Terzo Polo che sembra deciso sostenerla e, forse il Pd per intero, se riuscirà a capire che si tratta di un’opportunità. Oppure parte di esso, se su questa partita la componente riformista che in Lombardia conta su due sindaci come Beppe Sala (già direttore generale del Comune di Milano con Morati primo cittadino) e Giorgio Gori vorrà andare fino in fondo, anche a costo di una scissione. E siccome escludo che la componente massimalista dei Democratici accondiscenderà mai – i giornali riportano che la reazione è da vuoto pneumatico mentale: “non si capisce perché il Pd dovrebbe sacrificare il suo profilo per una candidata di destra quando la Lombardia è una regione male amministrata che si può riconquistare, non cadiamo nella trappola di Renzi e lavoriamo a un candidato di centrosinistra come Cottarelli” – penso che l’unica possibilità sia quella della scissione, che peraltro auspico con gran convinzione (vedi TerzaRepubblica n. 35 dell’8 ottobre 2022, qui il link).

Ma con tutta evidenza in ballo non c’è soltanto il pur importante governo della Lombardia, magari con un effetto collaterale sul Lazio che andrà anch’esso al voto l’anno prossimo. No, si tratta di un’operazione che guarda oltre, destinata ad avere conseguenze nazionali. Renzi lo ha ben chiaro (“se la Moratti si candida è un fatto rilevante politicamente”), ci vede l’embrione di una rottura della maggioranza di governo e la creazione di nuovi equilibri. Moratti è in grado di aggregare un’area di centro che può offrire una sponda sia ai delusi del centrodestra o comunque di chi teme una deriva illiberale, sia ai moderati e riformisti del centrosinistra stanchi dell’immobilismo del Pd, frutto di una convivenza innaturale sotto lo stesso tetto con la componente più massimalista e populista, che non a caso continua a strizzare l’occhio a Conte. Con effetti collaterali molto importanti: la crisi della Lega in salsa Salvini se il candidato Attilio Fontana, contestato presidente uscente, dovesse uscire sconfitto; un passo ulteriore verso la disintegrazione di Forza Italia, dopo l’uscita di figure come Renato Brunetta (che Moratti potrebbe facilmente recuperare), Maria Stella Gelmini e Mara Carfagna; la scissione del Pd.

Tutte conseguenze, queste della discesa in campo di Moratti, che a ben vedere non dovrebbero dispiacere a Meloni, anzi. Ecco perchè se fossi nei suoi panni, non solo non vedrei affatto male l’operazione Moratti, ma farei di tutto per favorirla. Vuoi vedere che le due “M” femminili della politica italiana tirano un sasso nell’acqua imputridita dello stagno della politica italiana che pensiona il fallimentare bipolarismo e finalmente produce qualche vero e salutare cambiamento?

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Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.