La guerra evita la crisi del Governo Draghi
IL CONFLITTO CONGELA L'ESECUTIVO MA LA LEGISLATURA È FINITA E L’UNITÀ NAZIONALE ANCHE
di Enrico Cisnetto - 09 aprile 2022
Diciamoci la verità, se non ci fosse la guerra scatenata da Putin in Ucraina, e soprattutto se non ci fossero le pesanti conseguenze che sta producendo con cui avere a che fare, il governo Draghi non esisterebbe più e la legislatura sarebbe (anticipatamente) già finita. La rottura stava per accadere in febbraio, e la visita che il 18 di quel mese Mario Draghi ha fatto a Sergio Mattarella per esternargli tutta la sua irritazione di fronte agli agguati dei partiti (il governo era andato sotto ben 4 volte alla Camera) e il successivo vertice con i capidelegazione, ne erano stati i prodromi. “Se ai partiti e al Parlamento non va bene questo governo, trovatevene un altro”, aveva detto a brutto muso il presidente del Consiglio. Non sappiamo se a dare lo strappo sarebbe stato Draghi (più probabile) o uno dei suoi nemici travestiti da alleati (meno probabile), ma non è azzardato ipotizzare che da lì a pochi giorni la corda di sarebbe rotta. Tuttavia, il 24 febbraio le truppe russe marciavano su Kiev, aprendo uno scenario inedito e drammatico, che non poteva non condizionare le vicende politiche nazionali in tutta Europa, e in Italia congelare la potenziale crisi di governo. E se anche questo stallo non ha impedito ai partiti, in particolare ai 5stelle ma anche la Lega, di logorare l’esecutivo con atteggiamenti ambigui proprio sulla guerra – dal “pacifismo” peloso di Salvini alla polemica di Conte sull’aumento delle spese militari – è evidente che nessuno può, in questa situazione, prendersi la responsabilità di far cadere il governo nel pieno della più grave crisi internazionale dalla fine sella seconda guerra mondiale.
Ma fino a quando può durare questo limbo? A giudicare dalla scelta di Lega e Forza Italia di far saltare la riforma del fisco, e dall’aggrovigliarsi di veti incrociati sul provvedimento Cartabia che riforma il Csm, le tensioni all’interno della maggioranza, ma soprattutto nei confronti di Draghi, sono destinate a crescere ogni giorno di più. E, peraltro, non mancheranno le occasioni, visto che il Paese rischia di tornare in recessione, con tutto quel significa in termini di tensioni sociali, e che le decisioni che ci attendono, specie in materia di energia, sembrano fatte apposta per gettare benzina sul fuoco. Con il partito della spesa che già reclama “sforamenti” di bilancio, e le pulsioni populiste che fanno capolino, come dimostra l’inutile polemica sulla frase del presidente del Consiglio su “pace e condizionatori d’aria”, come se non fosse vero che aiutare gli ucraini e perseguire la fine della guerra non comporti sacrifici per tutti noi. La verità è che se si somma il fronte dei putiniani dichiarati e di quelli travestiti da pacifisti, con quello del “chissenefrega degli ucraini, la guerra non ci riguarda” e quello dei vecchi e nuovi riflessi condizionati anti-atlantisti e anti-occidentali, il partito anti-Draghi si fa folto, e a palazzo Chigi l’unica arma che sembra poter (e voler) usare è quella della “fiducia” da mettere sui vari provvedimenti per evitare di essere battuto in aula.
D’altra parte, Draghi sa che i parlamentari non faranno karakiri facendogli mancare l’appoggio fino a quando (a settembre) non saranno maturate le coperture previdenziali di questa legislatura. Ma anche lui, che ora è bloccato dall’emergenza del conflitto, non ha nessuna intenzione di tirare a campare. E se solo si aprirà uno spiraglio, ho motivo di ritenere che non si farà scappare l’occasione di togliersi dalla linea di tiro dei partiti. Solo che spaventa cosa possa produrre il combinato disposto tra l’irresponsabilità di buona parte della classe politica, che affronta un passaggio epocale come questo con la logica becera della speculazione elettorale (peraltro presunta), e la stanchezza mista a irritazione di Draghi, cui sembra mancare l’intenzione di usare la leva della sua insostituibilità per forzare la mano e imporre le sue scelte (non lo ha fatto durante la lunga fase della campagna quirinalizia, e non lo sta facendo ora, come dimostra il mezzo passo indietro di fronte a Conte sui tempi di aumento delle spese militari, inopinatamente protratti fino al 2028). Perchè l’Italia non può permettersi, nel bene come grande paese fondatore della comunità europea e nel male come paese appesantito dal debito pubblico e attardato nella crescita economica, di non assumersi la responsabilità di avere un ruolo attivo sia nell’affrontare la catastrofe umanitaria che la guerra sta producendo, sia nell’affrontare tutti i rischi di natura geopolitica che si stanno palesando di fronte alla strategia imperialista di Putin.
Purtroppo, è inutile nascondercelo, l’ora buia, pur essendo di una gravità senza precedenti, non è in grado di svegliare coscienze a dir poco sopite, di animare intelligenze e lungimiranze che non ci sono, di rinsaldare solidarietà solo enunciate. Quelli che la politica italiana sta mostrando sono i limiti che ha, non potrebbe essere diversamente. Sì, certo, la nascita del governo Draghi e della maggioranza larga che lo ha votato, tanto più perchè al cospetto di una pandemia che sembrava non domabile, avevano fatto sperare che i drammatici vuoti dei partiti e della classe politica – politici, culturali, programmatici, morali – potessero essere riempiti e che le istituzioni, fragili quando non marce, potessero essere rivitalizzate e risanate. Ma così non è accaduto, e probabilmente è stato ingenuo sperarlo. E così non sembra proprio poter accadere pur di fronte ad una guerra alle porte di casa. E per doverlo constatare non serve scorrere le inchieste giornalistiche (tardive) o attendere quelle giudiziarie (fin qui solo evocate) sui legami che collegano partiti, correnti, fondazioni e singoli politici a Mosca, che in questi anni ha lavorato intensamente per attivare e oliare rapporti, per creare dipendenze e vincoli cui non poter sfuggire. Basta osservare le ambiguità con cui stanno gestendo le proprie posizioni rispetto alla guerra e a Putin, la Lega di Salvini (con poche e poco visibili eccezioni), i 5stelle fuoriusciti e quelli di Conte (ma non Di Maio, fin qui ineccepibile), Berlusconi (ma non tutta Forza Italia), l’insolitamente silenzioso Renzi e chi sta a sinistra del Pd, confortati dalle allucinanti posizioni dell’Anpi. Con il risultato che sulla politica estera l’unica forza di opposizione condivide (magari tatticamente più che convintamente, ma intanto) la linea euroatlantica di palazzo Chigi molto più di varie forze di maggioranza.
Devo anche dire che un contributo non secondario a determinare nel Paese questo clima inquinato, antitesi del binomio “riflessione-coesione” di cui invece avremmo disperatamente bisogno, lo stanno dando – more solito – i media e più in generale il mondo culturale e intellettuale. Da un lato, la spettacolarizzazione della guerra e del dolore, dall’altro la banalizzazione dei grandi temi geopolitici: sono gli ingredienti di una indigesta pietanza mediatica che ogni giorno ci viene fornita abusando del titolo di informazione. Che diventa vomitevole quando si aggiungono le risse da talk show, alimentate anche a costo di dare spazio e voce a portatori di tesi improbabili (come già era capitato con i no-vax, che non a caso hanno spesso i medesimi protagonisti) o palesemente false e schifosamente negazioniste. Non voglio qui attribuirmi meriti o menare vanto, ma devo dire che il polso di quanto sia diventato insopportabile, oltre che maledettamente dannoso, questo teatrino mediatico, me lo danno le crescenti manifestazioni di apprezzamento per War Room, sia da parte del pubblico, cui piace riflettere più di quanto non si pensi, ma ancor più da parte degli ospiti, che trovano finalmente un luogo di confronto dover poter esprimere le proprie argomentazioni senza la mortificazione della rissa verbale, dell’ammucchiarsi degli ospiti, dell’esasperazione dei contrasti. Difficile che una società legga le condizioni in cui si trova e che la politica sia indotta a fare scelte coraggiose anziché vellicare i bassi istinti popolari, in un contesto informativo e culturale siffatto.
Chiusa questa parentesi e tornando alla questione “vita e durata del governo”, se alle ambiguità sulla guerra si aggiungono tutte le altre questioni su cui un po’ tutti sono intenti a praticare i distinguo, si vede quanto sia consunta la trama e mortificato lo spirito dell’unità nazionale. Se poi si considera il rischio che in Francia possa vincere la destra nazionalista e filo-russa – spero ardentemente di no, ma la crescita della Le Pen è indubbia – andando a rafforzare i significati continentali della riconferma in Orban in Ungheria, con tutto quello che significherebbe anche per noi, si capisce come l’infinita transizione politico-istituzionale italiana possa avere esiti devastanti. Quali? Non sarà, almeno fino a settembre, una crisi di governo. Ma potremmo ritrovarci a dover constatare che c’è qualcosa di peggio: il non-governo.
L'EDITORIALE
DI TERZA REPUBBLICA
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