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L'editoriale di Terza Repubblica

Le bombe di Putin e il game changer dell'Occitente

LA GLOBALIZZAZIONE NON È MORTA MA L’ECONOMIA ANDRÀ RIPENSATA E L’ITALIA RISCHIA DI NON ACCORGERSENE

di Enrico Cisnetto - 26 marzo 2022

Si dice che questa maledetta guerra rappresenti per l’Occidente, e in particolare per noi e la nostra politica, un game changer senza precedenti. Può darsi. Ma anche durante l’esplosione della pandemia si era detto senza tema di smentita che ci sarebbe stato un “dopo” neppure lontano parente del “prima”. Certo, alcune cose sono cambiate, ma quella rivoluzione che si era preconizzata fin qui non c’è stata. Per questo, diffido quando si evocano con tanta perentorietà questi passaggi epocali della storia. Il tempo si è sempre incaricato di smentire tali predizioni, a cominciare da quella più famosa, la “Fine della Storia” di Francis Fukuyama. Tuttavia, è ragionevole pensare che le conseguenze del conflitto scatenato da Vladimir Putin, a cominciare da quelle economiche, faranno cadere molti miti e tabù, specie in campo energetico, e indurranno a riscrivere la mappa delle incognite umane, finora condizionata dalla dilagante cultura della pretesa del “rischio zero”.

In questo momento, sono due le profezie più gettonate su cui mi interessa ragionare. La prima è la fine della globalizzazione, la seconda è la sconfitta del populismo e del sovranismo, con il conseguente crollo del nostro sistema politico. Analizziamole una alla volta. Oggi mi soffermo sulla prima, la settimana prossima sarà la volta della seconda.

Sicuramente, prima la pandemia e ora la portata della mossa di Putin, che va ben al di la del conflitto in Ucraina perchè tende a ridisegnare la mappa geopolitica del mondo e a riscrivere le regole dei rapporti tra le diverse aree di influenza, sono tragedie destinate a determinare conseguenze di lungo periodo che andranno ben al di là dello shock immediato che già hanno prodotto. Ma leggere queste conseguenze con l’unica chiave della fine della globalizzazione mi sembra francamente eccessivo. Primo perchè se il Covid ha chiuso le persone e, in parte, le cose entro ambiti ristretti, la risposta ad esso ha invece sperimentato la forza – davvero eccezionale –della globalizzazione sanitaria e farmaceutica. La pandemia è stata arginata e (speriamo) verrà definitivamente sconfitta su scala mondiale, non fosse altro perchè la diffusione del virus richiedeva una risposta globale e non locale. Poi, certo, le aree ricche del mondo si sono tutelate prima e meglio rispetto a quelle povere, ma le differenze – comunque le si voglia misurare – sono rimaste quelle di prima, non si sono accentuate per colpa della pandemia.

Ora però si dice che sarà la guerra, o meglio l’arma delle sanzioni con cui Europa e Stati Uniti hanno deciso di rispondere a Putin, e che indubbiamente incidono su alcuni fattori che hanno reso globali le economie del pianeta, e in particolare la liberalizzazione degli scambi e dei commerci e l’interdipendenza dei fattori produttivi (capitali, lavoro, materie prime), a portarci dentro l’era (o, meglio, la fase) che l’economista Carlo Trigilia ha definito della “de-globalizzazione reattiva e non coordinata”. Vero. Tuttavia mi permetto di far osservare due cose. La prima: fin quando le sanzioni europee non intaccano le forniture di gas e petrolio russi, da cui dipendono le economie di almeno due paesi chiave (Germania e Italia), le conseguenze si traducono in un’impennata dei prezzi dell’energia, in una scarsità di alcune materie prime e in una forte fiammata inflazionistica. Cose gravi, sia chiaro, ma non tali da sconfiggere il processo di integrazione economica mondiale che ci ha accompagnato negli ultimi tre decenni. Seconda osservazione: se l’obiettivo, e l’effetto, delle sanzioni è l’isolamento della Russia nel sistema finanziario internazionale, strangolare fino al default un’economia che produce un pil inferiore a quello dell’Italia (e pari allo spagnolo) e svolge un ruolo relativamente marginale nell’interscambio planetario (nel 2019 dei circa 19 mila miliardi di dollari di import-export complessivo, la Russia era al 14mo posto con meno del 2%, nonostante che oltre agli idrocarburi sia il quinto produttore al mondo di acciaio, detenga il 25% della produzione totale del palladio e il 14% di quella del nichel, tanto per dire due materie prime oggi richiestissime) non genera un effetto sistemico tale da seppellire sotto le sue macerie la globalizzazione. Nel breve qualche rigurgito di autarchia, sicuro; nel medio termine, rischi di nuovi protezionismi, probabile. Ma alla fine le risposte saranno, saggiamente, filiere industriali un po’ più corte, supply chains ripensate, fonti di approvvigionamento diversificate, integrazione verticale del ciclo produttivo, nuova politica delle scorte abbandonando il credo del just in time. Forse si andrà – e non sarebbe male – anche ad una rivisitazione dei mercati finanziari e delle regole (e delle deregulation) che li presiedono, magari nel contesto di una nuova Bretton Woods convocata per rinegoziare i rapporti valutari e coordinare le politiche monetarie.

Insomma, celebrare il funerale della globalizzazione mi sembra prematuro, oltre che inopportuno. E sarebbe, questa sì, una concessione indebita a Putin, che immagina una “regionalizzazione” del mondo proprio perchè ha capito che nella globalizzazione la sua Russia è marginale ed è destinata a rimanerlo. Ripensarla, la globalizzazione, è invece una necessità – per rispondere alla vulnerabilità delle catene di approvvigionamento e al rallentamento dei flussi commerciali – e nello stesso tempo un’opportunità, considerato che oltre ai suoi innegabili vantaggi, primo fra tutti la diffusione del benessere con miliardi di persone che sono uscite da una condizione di secolare indigenza, si sono palesati dei difetti (dall’eccesso di finanziarizzazione dell’economia al ruolo predominante di alcune multinazionali delle tecnologie e dei servizi terziari) cui è bene mettere rimedio. E, d’altra parte, se non si vuole ripiombare in una nuova recessione mondiale dopo quelle generate dalla crisi finanziaria del 2008 e dalla pandemia, anzi in una ancor più perniciosa stagione di stagflazione, per di più accompagnata da una crisi migratoria senza precedenti, occorre saper scrivere una pagina di storia in cui si immaginano e si trovano nuovi punti di equilibrio tra la dimensione liberale (apertura dei mercati, libertà negli scambi, ecc.) e quella keynesiana (tutela sociale, intesa anche come supremazia dell’interesse generale su quello individuale) a sostegno della crescita e dello sviluppo.

Una sfida che riguarda in particolar modo l’Italia, sia perchè suo malgrado è tornata ad essere cerniera tra Est e Ovest, sia perchè ha il sistema politico-istituzionale più fallace d’Europa (ma di questo parleremo sabato prossimo), e sia infine perchè rappresenta l’economia continentale più fragile, considerato il combinato disposto tra l’enormità del debito pubblico, il ritardo accumulato nella crescita della ricchezza nazionale nell’ultimo quarto di secolo e il livello pericolosamente alto di dipendenza (soprattutto in campo energetico, ma non solo). In particolare, dobbiamo essere consapevoli di una cosa: essendo un paese fortemente manifatturiero e avendo subito una caduta dei consumi interni che ha spostato tutto sulle spalle dell’export il peso della crescita, il fatto che il commercio internazionale stia prendendo una forma nuova, inesplorata, comporta, di conseguenza, la necessità di ripensare, se non addirittura di rivoluzionare, il nostro sistema industriale. Parlo della sua struttura genetica, non di qualche ritocco o, peggio, di un maquillage. Per farlo, occorre diffondere e consolidare alcune consapevolezze, fin qui riscontrabili solo in qualche singolo imprenditore, ma totalmente assenti nelle sedi di rappresentanza e nella politica, che insieme continuano a confrontarsi solo sussidi e sostegni tampone. La prima consapevolezza è relativa al fatto che i riflessi della vicenda russo-ucraina saranno molto più larghi e strutturali di quanto abbia causato il Covid anche nelle sue fasi più acute di blocco della mobilità. A cominciare dall’ingresso in campo del “fattore geopolitico”, che condizionerà la localizzazione ottimale dei fattori di produzione su scala globale, cui fin qui si è guardato badando solo ai costi o, al massimo, al rapporto costo-qualità. E non parlo solo del rischio “conclamato” (la Russia) ma anche di quello “potenziale” (si pensi al possibile intervento della Cina a Taiwan e alle sue conseguenze nella catena di fornitura dei semiconduttori). La seconda consapevolezza è che ad essere toccate non saranno solo le filiere italiane che sono già entrate nell’occhio del ciclone a causa di Putin (in particolare quella energetica e quella alimentare), ma prima o poi tutte. La terza e ultima consapevolezza, che le racchiude tutte e le sintetizza, è che avere una manifattura il più possibile autonoma e sviluppata in ambito tecnologico e digitale non è più solo la migliore delle opzioni, ma la conditio sine qua non che timbra la sopravvivenza e lo sviluppo futuro rispetto alla morte.

Capire tutto questo e affrontare la sfida con un approccio sistemico: ecco il vero game changer che abbiamo di fronte. Parliamone, perchè fin qui siamo solo alla spettacolarizzazione della guerra nei talk show, al pacifismo chiacchierato e alla riedizione del vecchio slogan “né con lo Stato né con le Br” in “né con Putin né con la Nato”. E con questo livello di discussione pubblica, ci andiamo a schiantare.

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Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.