La guerra di Putin e la nostra energia
LA GUERRA CAMBIA ANCHE LO SCENARIO ITALIANO. ORA DRAGHI PUÒ RIVOLUZIONARE LA POLITICA ENERGETICA
di Enrico Cisnetto - 26 febbraio 2022
Non sembri provinciale o egoista, mentre siamo tutti con il fiato sospeso per la sorte dell’Ucraina, dei suoi cittadini e della sua democrazia, ma la guerra imperialista che la Russia di Putin sta portando nel cuore dell’Europa ha per noi degli enormi risvolti politici ed economici interni, oltre a quelli geopolitici che viviamo come membri dell’Unione europea e dell’Alleanza atlantica. E sono proprio queste ripercussioni domestiche che voglio analizzare, mentre per l’analisi degli aspetti internazionali della vicenda ucraina vi rimando all’ascolto della War Room di giovedì 24 febbraio (QUI LA PUNTATA).
Fino a poche ore fa, l’Italia viveva una guerra tutta sua, per molti versi surreale, e cioè quella esplosa dentro la maggioranza che un anno fa ha accettato, in nome dell’emergenza nazionale (sanitaria ed economica) e dell’impotenza politica maturata dopo aver bruciato tutte le alleanze possibili stante i risultati delle elezioni del 2018, di sostenere il governo di (quasi) unità nazionale guidato da Mario Draghi. Linee di frattura che attraversavano la coalizione e le singole forze politiche al loro interno, aperte e chiuse a ritmo sincopato e la cui intensità si è accentuata con la tribolata vicenda del Quirinale, che prima o poi rischiavano di portare ad una crisi il cui unico esito possibile erano le elezioni. E questo non tanto per il tirare della corda da parte dei partiti, che pure l’hanno pesantemente sfilacciata, quanto per una maturanda determinazione del presidente del Consiglio. Uscito mortificato e indebolito dalla mancata candidatura alla presidenza della Repubblica, Draghi si è trovato, e si trova, schiacciato da un lato dai problemi insoluti, a cominciare dalle riforme non fatte e dalle opere non ancora avviate previste dalla stringente tabella di marcia del Pnrr, e dall’altro dalla crescente rissosità politica di chi coglie ogni anche minima occasione per fare campagna elettorale e per regolare conti (specie quelli in casa propria). Una condizione scomoda in assoluto, e tanto più per uno come lui disabituato a praticare la faticosa procedura della condivisione delle decisioni. Per questo ho motivo di ritenere che l’ex presidente della Bce stesse meditando di cogliere al volo una delle tante occasioni che la quotidianità politica gli offre per rompere il gioco ponendo ai partiti un aut-aut privo di una terza opzione: o mi lasciate fare come dico io, o torno da Mattarella (c’era già stato solo che una settimana fa, dopo la maggioranza è “andata sotto” quattro volte nelle commissioni Bilancio e Affari Costituzionali della Camera) e rassegno le dimissioni. Con la conseguenza, avrebbe detto ancora Draghi, che tempo e spazio per fare un altro governo e tantomeno per trovare un’altra maggioranza non ci saranno, e dunque o mi verrà ridato l’incarico con un programma scritto (schema tedesco) che non lascerà più spazio ai vostri distinguo, o si andrà al voto, con buona pace delle aspettative dei vostri parlamentari (sì proprio quelli che con particolare accanimento non hanno preso in considerazione la mia candidatura al Quirinale) di scavallare settembre per vedere maturate le spettanze previdenziali e godere dei vantaggi dello status fino all’ultimo giorno della legislatura.
Ecco, dal momento in cui le truppe russe hanno messo piede in Ucraina, portandosi ad un passo da Kiev, e la guerra è diventata una realtà non lontano dai nostri confini, questo scenario si è dissolto. Svanito, sparito. Le bocche capaci solo di dar fiato alle polemiche si sono improvvisamente serrate. L’unità d’intenti ha fatto premio sulle divisioni, persino da parte di chi stava legittimamente all’opposizione. Gli amici di Putin – un partito trasversale, sostenuto in ogni modo da Mosca, che ha unito i nostalgici dell’Urss con le destre sovraniste, più una folta pattuglia di affaristi – hanno riposto (per ora) le loro bandiere, e c’è stato anche chi (Salvini, quello che nel 2016 voleva far uscire l’Italia dalla Nato e indossava le t-shirt con la faccia di Putin vestito da militare) ha dovuto faticosamente ammettere che “stavolta Mosca ha torto”, mentre parlano gli imbarazzati silenzi di Berlusconi (quello che con l’amico Vladimir faceva bisboccia), di Meloni (quella che meno di un anno fa diceva che “Putin difende i valori europei”) e dei molti grillini che a suo tempo applaudirono l’invasione russa della Crimea e si batterono tenacemente per lo smantellamento delle sanzioni a Putin e per l’indebolimento della Nato. D’altra parte, come ricorda Christian Rocca su Linkiesta, la maggioranza degli attuali parlamentari è stata eletta avendo chiesto voti “per uscire dall’Euro, per demolire l’Europa e per un’alleanza strategica con Vladimir Putin per attuare i piani geopolitici del Cremlino”, e con Conte a palazzo Chigi nel 2020 è stata scritta una delle pagine più raccapriccianti della nostra storia quando per la prima volta soldati e mezzi pesanti russi hanno scorrazzato sul suolo italiano tra gli applausi del governo (ben peggio delle pur mostruose tende di Gheddafi piantate a Villa Pamphili, nel 2009). Dunque, se ora, di fronte alle immagini di Kiev assediata, questo “fronte moscovita” si sfascia, tanto di guadagnato.
Insomma, come d’incanto il clima di unità nazionale, di fronte a questa nuova emergenza – e che emergenza – si è riproposto. Quanto possa durare, però, è difficile dirlo. Molto dipenderà da come Draghi vorrà e saprà sfruttare l’occasione. Se si considererà, come non può non fare, anche lui bloccato dalla “emergenza guerra”, e ne trarrà la conseguenza che si allontana lo scenario della “rottura” e si riprospetta quello del “portare a termine la legislatura”, allora potrà chiedere ai partiti di sottoscrivere un nuovo programma di governo e inchiodarli per i 12 mesi che ci separano dalla normale scadenza elettorale ad un atteggiamento prudente, tipo quello tenuto l’anno scorso nei primi mesi di Draghi a palazzo Chigi, quando sulla politica sanitaria per affrontare l’emergenza Covid nessuno si è permesso di fare speculazioni politiche.
Già, ma un programma per fare che cosa? Sostanzialmente due cose. La prima è una delega incondizionata al presidente del Consiglio per gestire i rapporti europei e internazionali, in chiave continentale ed atlantica, sul fronte della questione Putin e delle sue molteplici implicazioni. La seconda è una forte accelerazione dell’attuazione del Pnrr, avendo però cura di inserire al primo posto la questione energetica. Non c’è dubbio, infatti, che il repentino e stravolgente cambiamento di scenario che il trinomio “gas-materie prime-inflazione” ha prodotto e sta producendo, non può non indurre ad una rivisitazione, sia in sede Ue che nazionale, dei piani di investimento e di sviluppo che si erano stabiliti nella fase in cui il tema era da un lato il recupero del pil perduto a causa della pandemia e dall’altro l’attuazione della doppia transizione, digitale e ambientale, che l’Europa aveva scelto di realizzare (programma Ursula). Il rincaro spaventoso della bolletta energetica, abbinato con la difficoltà di reperimento e il rialzo dei prezzi di un po’ tutte le materie prime (comprese quelle agricole e alimentari) e il conseguente ritorno a livello degli anni Novanta del tasso d’inflazione, sta non solo frenando la ripresa dell’economia che si è realizzata nel 2021 dopo l’anno horribilis della recessione da pandemia, ma crea le premesse per un vero e proprio blocco della crescita. Ci sono interi settori e filiere in panne, e non è possibile affidare la nostra risposta da un lato alla speranza che si tratti di una fase congiunturale breve (della serie “adda passà 'a nuttata”) e dall’altro alla politica dei ristori pagando indistintamente, a suon di decine di miliardi, almeno una parte dei rincari della bolletta elettrica.
No, oggi sono venuti con tutta evidenza al pettine i nodi della nostra politica energetica, di quel che si è fatto e soprattutto di ciò che non si è fatto. Per carità, i rincari percentualmente a tre cifre del gas e a due del petrolio colpiscono tutti i paesi, ma noi siamo i più vulnerabili, proprio per gli errori del passato, remoto e prossimo: dal frettoloso ed emotivo no al nucleare all’ondivago e contradditorio atteggiamento sulle rinnovabili, dai ritardi sulle infrastrutture (fa piacere vedere molti pentiti dell’ostilità a suo tempo manifestata al gasdotto TAP, ma quegli atteggiamenti li paghiamo tutti molto caro) ai mancati investimenti che il “partito del No” ci ha impedito di fare (se avessimo i rigassificatori oggi potremmo importare gas liquefatto non russo e se avessimo le trivelle in funzione nei nostri mari avremmo gas nostro per la metà anziché gli attuali 3 dei 70 miliardi di metri cubi che consumiamo all’anno, ed essere energeticamente molto più indipendenti). In Italia, dice Confindustria, la transizione energetica implica costi per il tessuto industriale che possono superare quota 650 miliardi nei prossimi dieci anni, a fronte dei quali il Pnrr stanzia fondi per solo il 6% del necessario. È dunque venuto il momento di riscrivere la nostra politica energetica – con questa crisi, se non ora, quando? – e di indurre l’Europa a ripensare tempi e modi della transizione (tanto per fare un esempio, la scelta di far circolare solo auto elettriche o a idrogeno dal 2035 ammazza l’intero comparto dell’automotive quando con un approccio meno ideologico si potrebbero ottenere gli stessi risultati ambientali senza fare carneficine industriali e sociali).
Inoltre, Roma dovrebbe proporre a Bruxelles di procedere subito verso un’unione energetica, sia per far valere nei confronti dei produttori un maggior potere negoziale rispetto a quello dei singoli paesi, sia per comporre un equilibrato mix energetico continentale. Perché se i singoli paesi sono squilibrati, invece mettere insieme le rinnovabili italiane, l’idroelettrico austriaco, il carbone tedesco, il nucleare francese, gli idrocarburi scozzesi, formerebbe a livello continentale un portafoglio energetico bilanciato e tecnologicamente integrato. Cui poi aggiungere l’unificazione in unico soggetto europeo dei dispacciatori nazionali, come l’italiana Terna, con la centralizzazione di acquisti e stoccaggi. Questo è il momento ideale per creare una Unione Energetica Europea – qualcosa che stia tra il patto di Maastricht e il piano di unione bancaria, con cui cedere sovranità e unire le forze – e Draghi avrebbe l’autorevolezza giusta per far passare una scelta.
Sto sognando? Forse. Ma se è giusto chiedere ai partiti di smetterla con le risse e ai leader continuamente costretti ad essere pentiti di qualcosa che hanno fatto o detto, di avere almeno il buongusto di tacere visto che non hanno il coraggio civile di andare a zappare la terra, è doveroso chiedere a Draghi di indossare i panni di SuperMario e alzare l’asticella delle ambizioni. Poi toccherà agli italiani ricordarsi quanti utili idioti di Putin hanno mandato in Parlamento l’ultima volta che sono andati a votare per Camera e Senato, ed evitare di ripetere il tragico errore.
L'EDITORIALE
DI TERZA REPUBBLICA
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