La ricreazione è finita
INFLAZIONE, CRESCITA FRENATA, SPREAD. SE CI ASPETTA IL PEGGIO, DRAGHI PARLI AL PAESE E ATTINGA AL CORAGGIO
di Enrico Cisnetto - 12 febbraio 2022
C’è bisogno di un robusto colpo di reni, o saranno guai. Mentre i partiti sembrano non aver imparato nulla dalla lezione del Quirinale – e, anzi, sono preda di regolamenti di conti interni e vittime di interventi giudiziari (5stelle e Renzi) – e mentre il governo fatica a carburare dopo la rimessa in moto post-quirinalizia, lo scenario in cui ci muoviamo si è fatto di colpo (ma non inaspettatamente) buio. E questo nonostante le speranze che la pandemia tramuti in endemia, così da recuperare pienamente la normalità perduta, si fanno ogni giorno più concrete.
Sta infatti accadendo ciò che alcuni temevano, e io tra questi, e cioè che il quadro macroeconomico volgesse al brutto prima che fossero messe solide basi per trasformare il rimbalzo del pil del 2021, pur più significativo del previsto, in un trend di crescita stabile e duratura. Si è preferito suonare la fanfara per il +6,5% dello scorso anno – perdendo di vista il fatto che quel risultato è da ascrivere più al primo che al secondo semestre ’21, cosa che doveva far temere che il passaggio di testimone con il primo trimestre ’22 fosse decisamente lento – e non si è badato al fatto che, oltre a dover recuperare i 9 punti di pil persi con la recessione del 2020, c’è da colmare il gap ancora esistente tra il pre-crisi finanziaria del 2008 e il pre-pandemia.
In più, presi tra egoismi e dilettantismi quirinaleschi, non ci si è accorti che sulla scena europea e mondiale stavano accadendo cose che avrebbero dovuto far scattare l’allarme. Mi riferisco al clamoroso balzo dei prezzi dell’energia e alla rarefazione della disponibilità delle materie prime, con conseguenti rincari delle stesse, da cui si è generato un ritorno dell’inflazione a valori che, in Italia, non si vedevano da un quarto di secolo, e cominciano a fare paura: 3,9% a dicembre, 4,8% a gennaio, anche se al netto dei rincari energetici si fermerebbe all’1,8%. È difficile prevedere quale sarà la dinamica inflattiva nei prossimi mesi, e cioè se il trend rialzista sia destinato a smorzarsi o a consolidarsi. Basti dire che soltanto tre mesi fa la Commissione europea aveva previsto un’inflazione Ue annua al 2,2%, mentre ora ha aggiornato la stima portandola al 3,5%: ergo, Bruxelles aveva sottostimato il dato del 60%. In tutti i casi, considerato anche che l’aumento dei prezzi negli Stati Uniti viaggia al 7,5%, prima o poi le banche centrali saranno indotte a rialzare i tassi – la Federal Reserve l’ha già fatto, la Bce resiste ma finirà col capitolare, e l’incertezza mostrata da Christine Lagarde lo conferma – così temperando, se non addirittura interrompendo, la politica espansiva degli ultimi anni. E se Francoforte smettesse di acquistare il debito italiano (un terzo è nelle sue mani, mentre a regola gli acquisti non potrebbero superare un livello pari al contributo al capitale della Bce, che nel caso dell’Italia è del 13,8%), per noi sarebbero guai terribili.
Le conseguenze più significative di questo scenario sono tre, di cui due già in atto e una di prospettiva (ravvicinata). La prima è il rallentamento della nostra crescita: tutte le stime relative all’anno cominciano ad essere limate, tra mezzo punto e uno intero; la Banca d’Italia prevede un +3,8%, Confcommercio +3,5%, mentre la Ue è più rassicurante ipotizzando +4,1%, due decimi in meno del +4,3% previsto a novembre scorso e che il governo Draghi considerava un’ipotesi per difetto indicando nella nota di aggiornamento del Def un fantasmagorico +4,7%. D’altra parte, molte imprese manifatturiere, tutte energivore, hanno subito un colpo dal rincaro dell’elettricità e del gas, cui si somma il problema delle materie prime, più pesante di quello subito con il lockdown pandemico. Se già a dicembre scorso la produzione industriale era calata dell’1% a fronte di un progresso dell’intero 2021 dell’11,8%, è logico attendersi dati peggiori per i primi due mesi di quest’anno.
La seconda conseguenza è il secco rialzo dello spread, salito oltre i 165 punti, con i rendimenti dei Btp schizzati all’insù, tanto che dall’inizio dell’anno sono cresciuti del 40% (ieri all’asta di 7,5 miliardi di titoli, il Tesoro ha pagato il triennale 0,69% contro lo 0,14% di gennaio, il settennale l’1,52% contro lo 0,89% e il ventennale a 2,3% contro l’1,55%). Cosa, questa, che rende più pesante l’onere del debito pubblico, che a fine 2021 era il 154,8% del pil, e meno scontata la sua sostenibilità.
La terza conseguenza seguirà a ruota: nonostante un po’ tutti reclamino ulteriori scostamenti di bilancio – domanda: ma si può pensare di spendere miliardi all’infinito per fronteggiare il rincaro delle bollette? – la fine della stagione della spesa, che nelle intenzioni doveva essere virtuosa e che l’Italia ha invece trasformato in una sfacciata “bonus economy”, è vicina. Certo, ci sono le risorse del Pnrr, ma essendo a “stato avanzamento lavori”, dovremo avere la capacità di far partire effettivamente riforme e investimenti. Cosa non facile, non fosse altro perchè il tempo stringe e nel solo primo semestre di quest’anno vanno centrati ben 45 obiettivi. Inoltre, come ho detto, incombe una revisione della politica monetaria e una riscrittura del patto di stabilità europeo, ora sospeso, che non sarà più rigido e ottuso come quello vecchio, ma comunque sarà.
Insomma, la ricreazione è finita. Ma mentre Draghi sembra esserne nervosamente cosciente, i membri della sua maggioranza lo sono poco o niente. Non è solo il sentirsi perennemente in campagna elettorale e l’avvicinarsi delle elezioni – manca poco più di un anno – ma è una strutturale incapacità di analisi della realtà e delle sue complessità e una altrettanto congenita carenza di progettualità politica e di elaborazione programmatica, a rendere i partiti insensibili al mutare delle condizioni. In più, la rielezione di Mattarella, lungi dal ricreare le condizioni dell’unità nazionale che per amore o per forza si erano create un anno fa con la “chiamata di soccorso” a Draghi, ha ulteriormente esacerbato gli animi, infuocato le risse, terremotato le alleanze, indebolito il sistema. Una situazione che, per quanto possa sembrare paradossale, non intimidisce le forze politiche, i gruppi parlamentari e i vari leaderini, ma al contrario alza i toni e induce a sfidare il presidente del Consiglio. Persino con la blandizie, visto le parole sprezzanti con cui ha respinto al mittente i (penosi) tentativi di attrarlo nell’agone politico.
Dunque, c’è bisogno di un colpo di reni, un sussulto di consapevolezza e di coraggio nell’agire. E l’unico a cui poterlo chiedere è proprio Draghi, visto che il tasso di riformismo delle forze politiche è vicino allo zero, anche quando lo evocano nei loro discorsi. Da lui la parte migliore e più produttiva dell’Italia si aspetta un discorso alla nazione, in cui da un lato si dica la verità fin troppo sottaciuta dei problemi strutturali, di antica data, che zavorrano il Paese e si spieghino le ragioni, prima di tutto internazionali, di questa congiuntura e, dall’altro, si indichino le cose da fare e gli strumenti per realizzarle. Per esempio, spieghi perché l’Italia deve importare l’85% dell’energia che consuma, indichi le responsabilità di scelte nazionali che ci espongono più degli altri paesi europei alla mercè dei produttori di gas fino a mettere a rischio la nostra indipendenza. E disegni una politica energetica e ambientale affrancata dai tabù ideologici.
Certo, davanti a noi ci sono solo 13 mesi di legislatura, e di questi tra pausa estiva, feste natalizie e campagna elettorale ne restano ragionevolmente poco più della metà. Ma questo, semmai, è un motivo in più per scuotere le coscienze e mettere ciascuno di fronte alle proprie responsabilità. Per farlo, occorre che il presidente del Consiglio eviti i due estremi: il decisionismo ostentato alla “si fa come dico io o vi mando tutti a quel paese”, che finirebbe con l’irritare e irrigidire i partiti, inducendoli alla rottura (scavallato settembre, quando i parlamentari avranno assicurata la loro pensione, può succedere di tutto); la mediazione perenne, che sarebbe una imperdonabile dimostrazione di debolezza che produrrebbe solo paralisi. No, con il populismo dei partiti non bisogna ostentare la (peraltro presunta) superiorità delle élite tecniche, né mediare oltre misura. Ma disintermediare, parlando direttamente al Paese un linguaggio di verità e franchezza. Spieghi, Draghi, le cose che intende fare, e poi vada in Consiglio dei ministri (come ha fatto con la riforma del Csm e dell’ordinamento giudiziario, compreso lo stop alle porte girevoli proposto dalla ministra Cartabia, che mette una pietra tombale sulla sciagurata riforma Bonafede). I partiti si sentiranno scavalcati, ma dovranno fare i conti con gli italiani, che sicuramente sapranno apprezzare scelte coraggiose e innovative dopo anni di non governo. Le crescenti difficoltà che già stiamo vivendo e a cui andremo incontro richiedono una “fase due” del governo Draghi ancora più incisiva della pur positiva prima parte della “fase uno”. Ci contiamo.
L'EDITORIALE
DI TERZA REPUBBLICA
Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.