Draghi alla prova di riformismo
SU REVISIONE DELLE PENSIONI E RIPENSAMENTO DEL WELFARE SI MISURA IL TASSO RIFORMISTA DEL GOVERNO
di Enrico Cisnetto - 30 ottobre 2021
Supponete di essere un esponente della classe politica e di governo di un qualunque Stato europeo. Come tale avrete pregiudizi, riserve e critiche nei confronti dell’Italia. In qualche caso infondati o addirittura pretestuosi, in altri – e non pochi – basati su fondate ragioni. Lo so, in chiunque abbiate scelto di reincarnarvi, non vi mancano scheletri nell’armadio e polvere sotto il tappeto. I difetti e le contraddizioni non difettano a nessuno. Ma converrete che sono più che ammissibili i due sentimenti oggi prevalenti in chi osserva il nostro Paese, siano essi simpatizzanti (gli europeisti sinceri che si rendono conto che senza l’Italia il processo di integrazione continentale è destinato a fermarsi se non a fallire) o antipatizzanti (quelli che vogliono l’Europa a due velocità): compiacimento, unito ad un malcelato stupore, per l’arrivo di un uomo del valore e della credibilità di Draghi alla guida del governo; viva preoccupazione che i difetti del sistema Italia siano così perniciosi da sovrastare le indiscusse capacità dell’uomo. Tradotto in politica: a Roma ci sarà pure SuperMario, ma i partiti e i loro leader, come pure la classe dirigente diffusa – dai rappresentanti delle parti sociali ai media, passando per la magistratura – sono di così infima qualità che dobbiamo stare all’erta, visto che la parte più consistente delle risorse del Next Generation Ue sono state destinate all’Italia, e l’eventuale fallimento del Pnrr sarebbe esiziale per la politica di espansione economica europea basata sulla spesa pubblica e sulla politica monetaria accondiscendente della Bce. Poi costoro si dividono tra chi teme e chi invece spera che Draghi soccomba, ma poco importa, perché tutto dipende da noi.
Ora, se questo è il quadro nel quale ci muoviamo – e che lo sia lo testimonia il fatto che il vero assillo del presidente del Consiglio, come ho fondato di ritenere, sia quello di rispettare i tempi dettati da Bruxelles e soddisfarne le attese senza mai farsi cogliere in fallo – non vi sarà difficile immaginare cosa possa pensare chi ci osserva, nel vedere lo spettacolo offerto sulla manovra di bilancio, e in particolare sulle pensioni. La classe politica sta dimostrando una volta di più di non aver capito la condizione del Paese, anzi di non aver nemmeno letto le cifre dell’Istat da cui anche un analfabeta può trarre le debite conclusioni. Beandosi delle previsioni di crescita del pil – cosa che dipende dalle imprese e non certo dalle riforme (fin qui mancanti) né dalle risorse europee (ancora non pervenute), e che comunque per ora è un parziale recupero della drammatica distruzione di ricchezza avvenuta l’anno scorso per effetto della pandemia – non si stanno valutando alcune questioni nodali su cui, invece, dovrebbero basarsi le diverse analisi politiche e le conseguenti proposte programmatiche. Primo: l’Italia è un paese sempre più vecchio, con cinque ultra sessantacinquenni ogni bambino e il tasso di fecondità più basso d’Europa (1,3 figli per ciascuna donna), e in cui la forbice tra le nascite al record storico negativo (nel 2020 poco più di 400 mila) e i decessi (quasi 750 mila, di cui 112 mila per Covid) è sempre più larga. Se si considera che ormai sono più le persone uscite di quelle entrate nel Paese, significa che in un anno è come se fosse sparita una città del calibro di Bologna o Firenze. Secondo: la disoccupazione giovanile è appena sotto il 30%, contro una media Ue del 17% e la Germania al 7%. Ergo, le prospettive dei giovani sono magre, per non dire disperate, mentre noi deteniamo il più alto livello di spesa previdenziale d’Europa a fronte del basso livello di spesa per l’istruzione, specie universitaria.
Se così stanno le cose, che giudizio si può riservare al dibattito che si è aperto intorno alla rimozione di “quota 100” e al tentativo di sostituire quella sciagurata misura con un intervento di riforma organica, nel solco della Dini (che è ormai di 26 anni fa) che ha segnato il fondamentale passaggio dal retributivo al contributivo? Prima si è fatta una battaglia ideologica sul sistema di quiescenza anticipata voluta da Salvini e sposata dai 5stelle all’epoca del Conte1. Ora, al di là di tutto, bastava prendere atto del fallimento di quella misura proprio nell’ottica di chi l’ha voluta, visto che solo il 22% della platea potenziale ne ha usufruito. Un errore di valutazione clamoroso, che la dice lunga sulla capacità di interpretare i veri bisogni del Paese. Inoltre, ad andare in pensione a 64 anni con 38 anni di contributi non sono state le fasce più basse di lavoratori, per esempio chi faceva lavori usuranti, ma prevalentemente uomini del settore pubblico e con un reddito medio. Infine, come volevasi dimostrare, si è rivelata una presa in giro il ricambio generazionale che era stato promesso, perché il tasso di sostituzione non è stato di tre nuovi lavoratori ogni nuovo pensionato, ma nemmeno mezzo posto nuovo (0,40) ogni tre liberati.
Insomma, un minimo di onestà intellettuale avrebbe voluto che almeno si tacesse, altro che continuare a rivendicare “quota 100” – che se durasse fino al 2030 come previsto costerebbe 18,8 miliardi, una cifra mostruosa – come un grande traguardo di progresso, minacciare Draghi di non osare toccarla e urlare contro il ritorno alla legge Fornero. Invece, gli irrigidimenti politici e il solito riflesso condizionato del sindacato (non solo la Cgil, ma anche la Uil e con la Cisl silente) hanno fatto sì che il governo abbia dovuto limitarsi, almeno per ora, a rompere il tabù di “quota 100” con “quota 102”, che certo non cambia significativamente le cose, e a promettere che essa durerà solo per il 2022, per poi lasciare spazio ad una riforma vera.
Ma non era forse questo il momento di farla? Non è in un contesto di unità nazionale e con un presidente, come Draghi, privo della necessità di inseguire il consenso, che riforme strutturali di questa portata vanno realizzate? E, non è questo che si aspetta l’Europa, tanto più dopo aver (potenzialmente) aperto i cordoni della Borsa archiviando il tanto criticato patto di stabilità? L’Italia, come abbiamo visto, ha bisogno che lavorino il maggior numero di persone possibile, e non che ne vadano di più in pensione. Di fronte all’invecchiamento demografico, a percorsi lavorativi meno omogenei del passato e a giovani che oggi pagano di più per avere pensioni peggiori dei loro padri, è evidente che la nostra previdenza va profondamente cambiata. Anche perchè, come ha detto Carmelo Palma, editorialista de Linkiesta, nella War Room di giovedì 28 ottobre (QUI), il sistema pensionistico negli anni ha istituito una forma di vero e proprio razzismo generazionale e la spesa previdenziale è assunta ad autobiografia politica della nazione, nella quale ipocritamente ci si straccia le vesti al cospetto del triste destino dei giovani impoveriti e privi di futuro, e poi si alimenta un sistema di welfare e un mercato del lavoro fatto su misura per vecchi e garantiti. Scrive Palma, e io sottoscrivo: “per decenni si è teorizzato, facendone addirittura dottrina, che i problemi di sostenibilità finanziaria non fossero, in primo luogo, problemi di equità intergenerazionale, ma vincoli astratti e recessivi rispetto al primato della politica, cioè al voto di scambio via spesa pubblica, messo in conto alle generazioni future, costrette non solo a pagare infinitamente di più per avere infinitamente di meno – vedendosi aumentate le aliquote contributive perché i meno giovani non si vedessero aumentata l’età pensionabile, e dunque accollandosi tutto il costo del deterioramento demografico della popolazione – ma anche a ritrovarsi riconosciuti per legge diritti ridotti e diversi”.
Draghi sa, fin dai tempi del Tesoro, che l’Italia è il paese che ha posto le basi del proprio declino, dalla metà degli anni ’70, facendo contestualmente esplodere debito pubblico e spesa previdenziale, così come sa che questa irresponsabilità politica e finanziaria è continuata nella Seconda Repubblica e nella cosiddetta Terza. Anzi, si è aggravata per la progressiva caduta della crescita del pil, tra fasi di lunga stagnazione e ripetute stagioni di forte recessione. E sa anche che il suo o è il governo del cambiamento strutturale o se così non fosse, a favore di una transizione nel segno della sostanziale continuità, la sua straordinaria carriera verrebbe irrimediabilmente macchiata. Un primo paletto l’ha indubbiamente piantato con la campagna vaccinale, che ci ha portato ad essere dal paese delle mascherine taroccate e dei cervellotici Dpcm, ad uno dei più efficaci al mondo nella lotta alla pandemia. Un fronte sul quale Draghi si è preso tutte le libertà possibili e su cui la politica ha per fortuna tolto le tende, almeno fino a quando non ha pensato bene di cavalcare le piccole frange del malcontento “no green pass”, giusto per non perdere l’abitudine. E il successo del generale Figliuolo è stata la premessa per dare la giusta spinta alla ripresa economica. Quindi, bene. Ma sono ormai passati oltre 8 mesi dal suo insediamento, e l’agenda del governo deve ritrovare una forte connotazione riformista. Come sarebbe, appunto, intervenire sulle pensioni in un contesto di generale revisione del welfare (anche per rendere plausibile il rifinanziamento del reddito di cittadinanza, accettabile solo se accompagnato da un radicale ripensamento degli strumenti di sostegno ai soggetti veramente falcidiati dalla crisi). Cosa resa difficile dalle contraddizioni di Salvini, da una parte, e dagli errori politici del Pd, dall’altra. È su questo che andrebbe aperta la discussione, altrimenti il rischio è che la partita Chigi-Quirinale da win-win diventi lose-lose.
L'EDITORIALE
DI TERZA REPUBBLICA
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