Ripensare il sistema politico
IL TENTATIVO DI SGAMBETTARE DRAGHI È FALLITO, MA RESTA IL PROBLEMA DI RIPENSARE IL SISTEMA POLITICO
di Enrico Cisnetto - 30 luglio 2021
A furia di tirarla, viene il momento che la corda si spezza. Alla vigilia del “semestre bianco” (inizia il 3 agosto) che apre ufficialmente le danze per il Quirinale, la pazienza e le virtù diplomatiche di Mario Draghi sono state messe così a dura prova dalla litigiosità inconcludente e strumentale dei partiti che si è corso seriamente il rischio o che saltasse il governo, se il presidente del Consiglio si fosse convinto di poter perdere la faccia con l’Europa, giocandosi tutta la sua credibilità, o che saltasse la maggioranza, se di fronte all’intransigenza di palazzo Chigi qualche stupido (abbondano) avesse provato a portare fino in fondo le forzature messe in campo. Poi, per fortuna, si è trovato l’accordo su alcune correzioni alla riforma Cartabia, e con esso è stato respinto al mittente il tentativo di quella parte dei 5stelle che stanno con Conte di affossare prima ancora che arrivasse in Parlamento la legge che ha il pregio di mettere una pietra tombale sopra la pessima riforma Bonafede sulla prescrizione (da qui in avanti il resto del lavoro contro la malagiustizia è affidato al buon esito dei referendum). E nello stesso tempo sembrano ridimensionati gli inguardabili tentativi di ammiccamento della Lega al popolo no-vax sul green pass, altro bastone infilato nelle ruote del governo. Ma questo non significa che il gioco suicida di tirare troppo la corda sia finito. Anzi, la vacatio che crea il semestre in cui non si possono sciogliere le Camere, potrebbe indurre chi adotta la logica del “tanto peggio, tanto meglio” a muoversi con ancora maggiore spregiudicatezza. E, d’altro canto, il ricorso alle mediazioni politiche va centellinato, perché sono come le ciliegie, una tira l’altra e quando ti accorgi di aver fatto indigestione è troppo tardi.
Comunque, che la corda si spezzi davvero o che, cosa assai più probabile, si laceri senza rompersi, questa situazione – che grida vendetta al cospetto di un paese tormentato, diviso tra il timore di una nuova ondata di pandemia e la speranza di una ripresa economica vigorosa – è la dimostrazione di quanto vado affermando da tempo, e cioè che il quadro politico italiano, forzatamente racchiuso nello schema bipolare “Pd-5stelle” e “FdI-Lega-Forza Italia”, sia destinato a frantumarsi. A favore di che cosa, è libro ancora tutto da scrivere. Ecco perché in quest’ultimo appuntamento di TerzaRepubblica prima della pausa estiva, vorrei cercare di capire quale più probabile evoluzione (o involuzione) potrebbe assumere prossimamente la politica italiana, ma anche indicare quali dovrebbero essere le strade virtuose che a mio avviso sarebbero da imboccare.
Partiamo dall’esistente. Le due alleanze, quella di sinistra e quella di destra, non reggono, logorate come sono dalle profonde contraddizioni che le attraversano. In questi mesi ho detto e ripetuto di come sia suicida la politica del Pd di asservimento all’accordo a tutti i costi con i 5stelle. Lo è stata quella praticata da Zingaretti ed eterodiretta da Bettini, lo è continuata ad essere – procurando lo stupore di molti, dentro e fuori il Pd – quando le redini del partito sono passate nelle mani di Enrico Letta. Suicida in assoluto, ma tanto più perché praticata al cospetto di un movimento grillino che si è squagliato nel momento in cui è venuto a contatto con il potere – cosa per la quale non era assolutamente preparato – fino al punto di mettersi nelle mani di Conte, la cui unica bussola è il risentimento personale verso chi gli è succeduto sulla poltrona di palazzo Chigi. Il risultato è che questa alleanza, politicamente configurata per fare opposizione, al momento del voto, nella primavera 2023, non sarà in grado di raccogliere il consenso sufficiente per guidare il Paese.
Ma questo non significa che automaticamente sarà il centro-destra a uscire vincitore dalle urne. Non fosse altro perché è dir poco plateale la quotidiana dimostrazione di distanza tra loro e dalla coerenza con se stessi che offrono le tre forze che formano quell’alleanza. A cominciare dal fatto che due di esse sono partecipi della maggioranza che sostiene Draghi e una è all’opposizione: siccome questo governo rappresenta una linea di demarcazione netta e inequivoca rispetto al populismo, al sovranismo e al giustizialismo, non sarà facile “vendere” agli elettori una coalizione tenuta insieme da una comunione d’intenti che non esiste.
Sono consapevoli i partiti che presentarsi al voto offrendo questo bipolarismo sgangherato non pagherà? Sanno che se Draghi, nonostante i tentativi di sgambetto, arriverà a fine legislatura, avendo nel frattempo generosamente rinunciato a mettersi in competizione per il Quirinale, e facendo avanzare il piano delle riforme necessarie per avere i fondi del Recovery Plan e cominciando a spenderli bene, ciò segnerà un prima e un dopo da cui sarà impossibile tornare indietro salvo portare il Paese al default? Apparentemente no, non c’è questa consapevolezza, salvo rare eccezioni. Ma dovranno farsene una ragione, pena la loro scomparsa, perché la politica italiana ha bisogno di ben altri copioni per riprendere a funzionare.
Come dicevo la settimana scorsa, la premessa è che Letta deve smettere di inseguire Conte, e Salvini la Meloni. Ma perché questo avvenga, occorre che qualcuno s’incarichi di inserire nel circuito politico degli adeguati reagenti chimici. E qui, piaccia o non piaccia, il più bravo di tutti a fare questo lavoro di cortocircuitazione è Matteo Renzi. Il quale è già attivo. Sono infatti sempre più frequenti i suoi contatti con l’altro Matteo, Salvini. Dalla giustizia alla legge Zan, o meglio al tentativo di cambiamento (ragionevole) della medesima, sono tanti i temi e i contesti legislativi su cui i due hanno cercato un’intesa politica. Il rapporto è iniziato quando Renzi ha fatto saltare il governo giallorosso di Giuseppe Conte, aprendo la strada a quello guidato da Mario Draghi. In quell’occasione Salvini non solo ha potuto soddisfare il suo desiderio di vendetta nei confronti dell’avvocato del popolo, che lo aveva brutalmente scaricato dopo un anno di convivenza, ma ha anche ammirato le capacità manovriere del fiorentino, il cui tratto da “rottamatore” in fondo gli è sempre piaciuto. Viceversa, a Renzi avere un rapporto privilegiato con la Lega ha fatto e fa comodo, esili come sono le sue falangi parlamentari.
Ora, però, la domanda è: il rapporto tra i “due Matteo” è destinato ad assumere una fisionomia più strutturata? E, nel caso, si può spingere fino a far nascere la ditta (se premiata lo vedremo) “Matteo&Matteo”? A ben pensarci ce ne sarebbero tutte le condizioni: da un lato, Salvini deve consolidare la sua “svolta” moderata – che ogni giorno di più appare come la “tela di Penelope”, che lui stesso provvede a smontare dopo averla faticosamente costruita – e certamente Renzi questo bollino sulla patente può assicurarglielo; dall’altro, la pattuglia di Italia Viva è così esigua e i sondaggi sono così tetragoni nel negarle la speranza di poter superare lo sbarramento del 3%, che trovare una sponda è questione di vita o di morte.
Già, ma mettersi insieme come, esattamente? È evidente che Renzi non può fare un accordo con Salvini tagliando fuori Berlusconi. Il quale ha lanciato con una mano la proposta del partito unico Forza Italia-Lega, per poi ritirarla con l’altra, accortosi – ma poteva immaginarlo – che i suoi (ormai pochi) cavalier serventi si sarebbero spaccati. E anche lo stesso Salvini ha colto la cosa con prudenza, per non dire scetticismo. Tuttavia, l’eventuale inserimento di Renzi in quel gioco, cambierebbe di molto le cose, anche agli occhi dei Brunetta e delle Carfagna che si sono (giustamente) opposti a quella che per la verità appariva come una vera e propria annessione da parte del Matteo leghista. E aprirebbe la strada alla nascita di “Lega-Forza Italia Viva”, che sarebbe di gran lunga il primo partito italiano e avrebbe due chances davanti a sé: dar vita ad un centrodestra di governo “normale”, possibile però solo se il peso della Meloni fosse decisamente inferiore a quanto i sondaggi le attribuiscano ora, oppure essere il perno di una riedizione post elezioni del 2023 del governo Draghi.
Chiaro che al Pd, se solo ci fosse qualcuno che pensa lì dentro, converrebbe assai questa seconda ipotesi, altrimenti l’alternativa sarebbe quella di bivaccare all’opposizione in compagnia di quel che resterebbe dei pentastellati. Letta (o chi per lui) dovrebbe archiviare l’alleanza strategica (e pure tattica) con i 5stelle – la guerra di qualche settimana fa tra Conte e Grillo era l’occasione giusta per sfilarsi, ma certo non mancheranno i pretesti – e nello stesso dovrebbe (ri)aprire a Renzi, Calenda e al variegato mondo centrista, non prima di aver finalmente digerito una volta per tutte il rospo in gola rappresentato quel maledetto “stai sereno” renziano.
La partita che si giocherà da adesso in avanti per l’elezione del nuovo Capo dello Stato ci dirà se “Matteo&Matteo” è solo una suggestione o qualcosa di più, e se Letta sarà capace di inserirsi in questo gioco oppure starà a guardare sedendosi su una panchina ai giardinetti con l’avvocato Conte a parlare male di Renzi.
Certo, il ridisegno della geografia politica nazionale sarebbe agevolato se nel frattempo nascesse nel Paese quello che io ho chiamato “il partito di Draghi senza Draghi”. Ed è di questo che parleremo a settembre, a mente più fresca dopo aver goduto qualche giorno di riposo. Per intanto, buone vacanze a tutti (e occhio al virus).
L'EDITORIALE
DI TERZA REPUBBLICA
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