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L'editoriale di Terza Repubblica

Il paese cerca di voltar pagina, ma i partiti...

CI SONO TUTTE LE CONDIZIONI PER IL BOOM ECONOMICO. SGAMBETTO DELLA POLITICA PERMETTENDO

di Enrico Cisnetto - 22 giugno 2021

Assordante, deprimente, preoccupante. Così tocca vivere lo stridore che produce il confronto tra quanto sta accadendo all’Italia e intorno a noi, da una parte, e lo spettacolo offerto dalle forze politiche, dall’altra. Perché, mai è stata così larga la forbice che divarica le potenzialità del nostro paese, che fanno parlare di un nuovo possibile boom come quello che segnò il secondo dopoguerra facendoci diventare una delle grandi potenze economiche mondiali, dalla condizione – penosa – del sistema politico cui ci siamo affidati. Vediamo di rappresentare i termini di questa clamorosa divaricazione.

L’Occidente appare oggi alla vigilia di una duratura stagione di crescita. Pur non mancando problemi e contraddizioni, ce ne sono tutte le avvisaglie. Che poggiano ovviamente sull’uscita dalla pandemia su scala planetaria e sull’effetto rimbalzo rispetto alla recessione dello scorso anno, ma che non si fermano lì. L’immissione nel circuito economico internazionale di una quantità di denaro senza precedenti, la diffusa necessità di dotarsi di più efficaci sistemi sanitari e di protezione sociale, la condivisa ambizione di dotarsi di un modello di sviluppo che sappia coniugare la crescita con la sostenibilità ambientale e sociale, la moltiplicazione delle straordinarie potenzialità delle nuove tecnologie: è il combinato disposto tra tutto questo e altro ancora che ci fa pensare di poter assistere all’alba di un vero e proprio superboom mondiale. Questa volta molto più sotto l’ombrello americano che non dei paesi asiatici emergenti (è il fenomeno che qualcuno chiama “mercato delle democrazie”, a segnare una più forte selettività verso i paesi non democratici). E ci induce a credere che l’Europa, capace oggi di sforzi integrativi fino a ieri impensabili, sia della partita. Lo testimoniano due fatti apparentemente contradditori ma in realtà convergenti. Il primo è la difesa che la Commissione Ue ha deciso di fare dell’autonomia della Bce, aprendo una procedura di infrazione contro la Germania per una recente sentenza della Corte Costituzionale tedesca che, riguardo agli acquisti di titoli effettuati dalla banca centrale sui mercati dei bond pubblici (in particolare Btp italiani), ha messo in dubbio la preminenza del diritto comunitario rispetto a quello nazionale. Cosa che avviene proprio quando nella stessa Bce comincia a farsi strada l’idea che debba arrivare presto (in autunno?) il momento in cui la politica monetaria dovrà iniziare una seppur graduale inversione di marcia inducendo i paesi a camminare sulle proprie gambe. Scelta sana, capace di rendere più solida e stabile la ripresa che sta per innescarsi, che altrimenti rischia di rivelarsi semplicemente reattiva rispetto alla caduta del pil del 2020.

Non solo. Anche la declinante Italia da finalmente l’idea di poter cogliere questa opportunità. Tanto che c’è chi calcola che da qui alla fine del 2022 non solo avremo recuperato quella maledetta quota di pil (-8,9%) che il Covid ci ha portato via nel 2020, ma potremo aver anche ridotto, o addirittura annullato se la crescita superasse il 5% e si avviasse verso il 6%, il divario che ricchezza nazionale che ancora ci separava nel 2019, pre pandemia, con il 2007, pre crisi finanziaria mondiale. Cosa che ci consentirebbe, finalmente, di recuperare vecchi gap e di provare seriamente a lasciarci il lungo declino alle spalle.

Certo, ha ragione Giuseppe De Rita quando ci ricorda che la ripartenza del 1946 fu sostenuta da una psicologia collettiva nutrita dal desiderio di conquista di libertà e benessere che la grandissima parte degli italiani di allora aveva, mentre oggi la società più che altro coltiva la voglia di tornare a stare come si stava prima del virus, ed è altrettanto assennato quando ci segnala che alla ricorrente e tambureggiante evocazione delle “epopee” del dopoguerra per ora non fa riscontro un così diffuso sentimento di mobilitazione collettiva verso il nuovo. Tuttavia, questo non toglie che, specie nel mondo imprenditoriale, il fermento verso la ripresa sia vivace e la voglia di non perdere l’occasione cominci a fare capolino nella mente di molti. Sarà l’idea che “bruciare” un uomo “irripetibile” come Draghi significherebbe far cadere anche l’ultimo ponte che ci collega con l’Europa e il mondo, sarà che questa volta la crisi morde davvero e non sta solo nelle retoriche ricostruzioni sulla povertà a cui nel passato abbiamo creduto, sta di fatto che l’idea che il futuro green e digitale sia a portata di mano sta iniziando a diffondersi.

E non è solo una predisposizione italiana, quella di cui sto parlando. Prendete il risultato delle elezioni tedesche in Sassonia, importante perché precede di tre mesi e mezzo il voto nazionale: i sondaggi che davano un testa a testa tra una Cdu calante e una Alternative für Deutschland in crescita esponenziale, si sono rivelati errati, perché i moderati della Merkel (e di Armin Laschet, suo probabile successore) hanno vinto nettamente, oltrepassando il 37%, mentre la destra nazional-populista si è fermata al 20%. A testimonianza che in questa fase “rinascente” il popolo preferisce chi sa governare rispetto a chi sa protestare. Certo, la AfD rimane una forza con cui i conti si devono fare – anche se nelle regioni orientali non va oltre il 5-10% – ma resta escluso che in Germania possa accadere quanto successo in Austria, con la nazionalista FPÖ che in un paio di occasioni è arrivata al governo con i popolari dell’ÖVP. Una tendenza rafforzata dai segnali di crisi che giungono dall’Ungheria, dove la democrazia di regime di Viktor Mihály Orbán, che dura da oltre un decennio, sembra vacillare. Rischiando così di perdere il ruolo di modello da imitare che solo prima del Covid sembrava andare per la maggiore. Inoltre, il riavvicinamento di Europa e Stati Uniti – sancito dal viaggio di Biden nel Vecchio Continente per rilanciare l’allenza atlantica e le democrazie liberali, e contenere Russia e Cina attraverso un rinnovato multilateralismo – mette in grave difficoltà Budapest, ormai entrata nell’orbita di Pechino.

Insomma, superboom e populismo sovranista non vanno per nulla d’accordo, e per fortuna sembra prevalere il primo. Ecco perché è deprimente e preoccupante quanto ci è dato di assistere dalle parti della politica italiana. Diamo una rapida occhiata. I presunti nuovi assetti di Lega e Forza Italia – nati a tavolino senza alcun confronto, né di vertice né tantomeno di base, su idee e programmi, ma per il solo scopo di fermare l’ascesa della Meloni (che non si contiene certo con una fusione, per di più a freddo) – sembrano essersi dissolti come neve al sole: ammesso (e non concesso) che avessero un senso, sono caduti sotto i colpi di beghe da cortile, e dunque senza produrre nulla di avanzato. La faticosa ricerca di candidati sindaci per le prossime elezioni comunali, si avvia a produrre scelte di terz’ordine, tanto destra come a sinistra. E questo nonostante la realtà sbatta violentemente sulle loro facce, come dimostrano le disperanti vicende romane da terzo mondo (dagli allagamenti devastanti ai rifiuti che sommergono la città, dai cinghiali che pascolano ovunque agli autobus che quotidianamente prendono fuoco). La “conquista” (si fa per dire) della leadership del movimento 5stelle da parte dell’avvocato Conte – che, consentitemi l’autocitazione, rende il mio grido d’allarme della settimana scorsa più pertinente che mai, viste l’evidente desiderio dell’ex presidente del Consiglio di mettere i bastoni tra le ruote di Draghi – descrive la scelta della sinistra di affidare per l’ennesima volta ad un democristiano il compito di rappresentarla (solo che una volta era Prodi, che pur con tutti i difetti che gli si vuole attribuire non è neppure accostabile a “Giuseppi”) come il segno della resa alla propria sudditanza politica e culturale. Tanto che appena è apparsa sui giornali l’idea della fusione Lega-Forza Italia, è subito partito il riflesso condizionato del “facciamola anche noi”, ipotesi che ora immagino sarà abbandonata vista la caducità di quella da copiare.

Ecco, mentre si avvia la macchina degli investimenti pubblici previsti dal PNRR e si avverte il fermento degli animal spirit che vogliono cogliere l’occasione, mentre si cerca di capire cosa potrà significare per l’export made in Italy la fortissima crescita attesa negli Stati Uniti grazie ai massicci programmi di spesa pubblica di Biden, mentre si dovrebbero realizzare – grazie al “vincolo esterno” rappresentato dalle regole del Recovery – le tanto evocate ma mai praticate riforme strutturali, liberando il paese dalla cappa rappresentata dalla burocrazia ostacolante e deresponsabilizzante e dalla (cattiva) giustizia opprimente e paralizzante, insomma mentre il paese, pur tra mille incertezze e scetticismi, cerca di voltar pagina, le pagine che stanno scrivendo i partiti rischiano di diventare un pericolosissimo deterrente. L’unica speranza è che gli italiani se ne accorgano…

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Terza Repubblica è il quotidiano online fondato e diretto da Enrico Cisnetto nato nel 2005 dall'esperienza di Società Aperta con l'obiettivo di creare uno spazio di commento indipendente e fuori dal coro sul contesto politico-economico del paese.