Meglio sudditi che morti o poveri
SE GLI ITALIANI SI ILLUDONO CHE NEL FARSI SUDDITI DI POTERI EMERGENZIALI STA LA SALVEZZA È LA FINE DI OGNI SPERANZA
05 dicembre 2020
Meglio sudditi che morti o poveri. Secondo il Censis la stragrande maggioranza degli italiani (80%) pur di preservarsi dal Covid è disposta a subire i diktat dell’attuale lockdown strisciante, o addirittura auspica che siano inaspriti, e chiede pene severe per chi non rispetta le prescrizioni. Mentre quatto su dieci a fronte di un maggiore benessere economico sono pronti a rinunciare ai propri diritti civili, accettando limiti al diritto di sciopero, alla libertà di opinione e di iscrizione a sindacati e associazioni. Questo spiega perché, nonostante l’evidente implosione dello Stato (di cui abbiamo parlato nella scorsa TerzaRepubblica), lo smarrimento collettivo induca i più ad attaccarsi al feticcio dell’autorità pubblica, pur non riconoscendogli autorevolezza. E pazienza, dunque, se esso ha oggi le sembianze dell’avvocato Giuseppe Conte e non quelle, faccio per dire, di Mario Draghi. Per questo il Paese sembra aver pienamente accettato che il presidente del Consiglio – l’attuale, ma oso pensare sarebbe più o meno la stessa cosa con chiunque altro in quel ruolo – protraesse ab limitum lo stato di emergenza e accentrasse le decisioni a Palazzo Chigi: perché si è convinti che ci sia sempre bisogno di dichiarare un pericolo incombente per fare cose che sarebbero di ordinaria amministrazione, e perché si pensa che l’addensamento dei poteri corrisponda ad un maggior tasso di decisionismo.
Ma così, la collegialità del Governo è andata a farsi benedire e i ministri sono scavalcati? Pazienza, tanto la gran parte sono politicamente inconsistenti e nel merito incompetenti. Il Parlamento è stato esautorato? Amen, tanto alla Camera e al Senato si producono solo inutili chiacchiere. Al Presidente della Repubblica è rimasta solo la moral suasion? La colpa è di chi si rifiuta di adottare anche in Italia un bel sistema presidenziale, alla francese o ancor meglio all’americana. Ecco costruita la tela del consenso intorno al decisionismo emergenziale. Peccato, però, che in questi mesi di “dittatura dei dpcm” si sia assistito a quello che Sabino Cassese ha chiamato “indecisionismo programmatico”, che è una levantina forma di esercizio del potere attraverso la non-decisione e il rinvio delle questioni difficili e divisive, e che le norme siano rimaste regolarmente sulla carta, o perché inapplicabili o perché l’evocazione bonapartista fatta propria da De Gaulle che “l’intendence suivra”, nel nostro caso riferita alla burocrazia e alle varie amministrazioni, si è dimostrata così fallace che l’intendenza non solo non segue, ma ha addirittura smesso di esistere.
Per avere contezza di questa impasse basta osservare come (non) procede sia la predisposizione del Piano italiano per il Next Generation EU che la definizione degli strumenti per la sua messa in atto. Per mesi ci siamo baloccati sull’entità delle risorse che dovevano arrivare dall’Europa e accapigliati sulla medesima. Poi per settimane è andato in scena un orrido balletto sul Piano, che consisteva nel solo assemblaggio delle più svariate richieste avanzate dai singoli ministeri, le cui idee avrebbero dovuto essere irrorate dalle elucubrazioni della task force Colao e dalla passerella degli Stati Generali dell’economia. Adesso è il turno della pantomima sulla “catena di comando”: accentramento a Palazzo Chigi, istituzione di una cabina di regia a forma di piramide (troika Conte-Gualtieri-Patuanelli, Comitato interministeriale degli affari europei, sei tecnici, ciascuno assistito da 50 ulteriori tecnici), creazione di un ministero ad hoc o trasformazione del titolare delle Politiche Europee in un ministro per il Recovery Fund, e così via. Non senza aver inserito nella legge di Bilancio una proposta per affidare la supervisione finanziaria ad una apposita direzione generale della Ragioneria generale dello Stato. Giustamente Giorgio La Malfa ha fatto osservare che era una scelta quantomeno incompleta quella di definire per legge le fasi a valle relative al monitoraggio sulla realizzazione dei progetti, senza avere delineato il quadro giuridico delle fasi a monte dell’esecuzione delle opere. In sostanza, prima di elaborare i progetti che debbono far parte del Piano e prima di definire in dettaglio le procedure per selezionarli ed eseguirli, bisogna scegliere tra due possibili modelli organizzativi: un’unica “stazione appaltante” – centrale, che agisce nell’ambito degli indirizzi politici delineati dal governo e approvati dal Parlamento – oppure tante quante sono le articolazioni della pubblica amministrazione? Essendo noto che la PA soffre di elefantiasi e di inefficienza congenita (per esempio, l’Italia è quartultima nella capacità di spesa dei fondi europei), Conte si è subito indirizzato verso la seconda ipotesi, salvo mostrare negli ultimi giorni qualche piccolo segno di resipiscenza.
Tuttavia, ciò che era indifferibile – questo sì, altro che i dpcm pandemici a getto continuo – è rimasto a bagnomaria per mesi, e ci resta tuttora, tanto che la Commissione europea non nasconde una viva preoccupazione per la vaghezza della posizione italiana. Eppure la tabella di marcia disegnata da Bruxelles è chiara. A partire dagli obiettivi, contenuti nelle linee guida del 17 settembre che indica come priorità l’innovazione digitale, la transizione ecologica, la pubblica amministrazione, il fisco, l’istruzione e la ricerca. Quindi si chiede di approvare i progetti, di prevedere tempi, di assicurarsi il prefinanziamento del 10%, di rispettare gli stati intermedi di avanzamento (senza i quali l’erogazione delle risorse si blocca). Ma noi non abbiamo fatto nulla di tutto questo, e il dibattito anziché incentrarsi sulle premesse metodologiche e sugli investimenti da fare sia per le infrastrutture materiali (ospedali, scuole, strade, linee ferroviarie, centri di ricerca) che quelle immateriali (cablatura digitale del territorio) e per le imprese, si è rivolto – solito spirito giustizialista al servizio di una facile popolarità – agli aspetti relativi ai controlli, accapigliandosi a quale dei tanti organi di controllo che abbiamo dovesse toccare l’ambito compito.
Non contenti, il tutto è stato condito da una stucchevole zuffa sugli equilibri politici dentro il governo e la maggioranza, tra semplice rimpasto di qualche ministro e cambio dell’inquilino di palazzo Chigi, mentre al Parlamento è riservata una sola finestra, quella del 9 dicembre, per occuparsi del Recovery e del Mes – due partite chiaramente intrecciate, non fosse altro per (logica) volontà della Commissione europea – e dare un qualche indirizzo all’esecutivo. Vedremo in quell’occasione se davvero il Conte2 è destinato a mangiare il panettone di quest’anno – cosa data per scontata, al contrario di quanto potrebbe trovare nella calza della Befana – e magari i prossimi due, o se la forza centrifuga scatenata dalla guerra dentro i 5stelle e, in parte, dentro il Pd, ma anche dalla tenuta del centro-destra messo a dura prova dagli stop and go di Berlusconi, finirà per far esplodere tutto (e tutti).
Certo è che il Paese affronta la sua prova più difficile senza uno straccio di strategia. L’Europa, pur tra indubbie difficoltà e contraddizioni, ha messo in campo aiuti pubblici per 2mila miliardi, assegnandone più del 15% all’Italia, ma sia le forze politiche che quelle sociali, del tutto prive di un retroterra culturale e di una coscienza del loro ruolo, finora sono state del tutto incapaci di dire come vanno impiegati. E se poi gli italiani, dopo aver dimostrato di essere complessivamente migliori dei loro rappresentanti, preoccupati e smarriti ora si illudono, come sostiene il Censis, che bastino dei “pieni poteri” – decisi da nessuno e per di più assegnati al “mastro indecisionista” – per poter evitare la terza ondata della pandemia, vaccinare tutti in tempi brevi e con il massimo ordine, fermare la recessione con la relativa catastrofe imprenditoriale e occupazionale, rilanciare l’economia e modernizzare il Paese, evitando la insostenibilità del debito pubblico, stiamo freschi. D’altra parte, una volta era intorno ad un’idea di paese e ad un programma che nasceva e si organizzava la rappresentanza politica, coalizzando interessi e ceti sociali, mentre ora, e non da oggi, nascono forze politiche del tutto prive di programmi e di radici socio-culturali, e dunque pronte a far propria qualunque idea, specie se gettonata sui social e accreditata di un potenziale rendimento elettorale. Chiaro che a una politica siffatta non può che fare riscontro una società senza bussola. Ed ecco spiegato perché, come dice il Censis, il sistema-Italia è una ruota quadrata che non gira.
L'EDITORIALE
DI TERZA REPUBBLICA
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